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Di bambinate e adolescenze. Stanno smontando il mare di Piergiorgio Paterlini



Ricompare l’esistere in Letteratura – premuto alla carta come il chicle sul banco, schiaffato come polpo sullo scoglio – per tentativi di comprendonio, quasi sempre sotto la speranza di un collassato, violento riordino (per fracasso della materia, per collisione di sinapsi?).
Piergiorgio Paterlini non dissimula che il suo, invece, sia un cauto trasloco: dall’esperienza beffarda e acquorea dell’esistere («che stronzata la vita, tutta a rovescio, mai la cosa giusta al momento giusto, mai che capisci davvero una cosa quando ti servirebbe capirla») ai dorsi dei libri – una ventina, tradotti nel mondo –, dove il tutto, tranquillo e disperato, trova nuova collocazione.

Paterlini

Stanno smontando il mare (Voland Edizioni) è esso stesso esodo di racconti; Linus, La Repubblica e Cuore, per dire alcuni affluenti, ne ospitarono diciassette su ventidue, tra i Novanta e l’oggi; questa casa di convivenza diventa prospettiva d’insieme per temi e visioni difformi che, alla fine, all’esistere dicono un poco lo stesso verbo, ovvero non conviene agitarsi, ché è normale farsela sotto, un passo alla volta.
Pare che il primo, di passo, una sorta di sbarco lunare verso l’affermazione del sé, avvenga secondo l’autore a sedici anni. I sedici gli sono ossessione e tenerezza, anche nei suoi sessantasette contemporanei, che stia nella natia Castelnovo, o a Milano, o a Roma. Prima e dopo «Lasciate in pace Marcello», monumento di quel preciso frame puberale, sicuramente addosso a «Ragazzi che amano ragazzi»– con l’urgenza di una giovane minzione per eccesso di Cola, e con lo stesso conseguente sollievo – Paterlini ovunque inchina «al dolore indicibile della adolescenza. Quel dolore subdolo e straziante che, se non ci uccide, ci fa diventare grandi, e che nessuno poi ammette, e non ho ancora capito perché».
Ma è un male minimo, nel senso di circostanziato e senza fronzoli al pari di ogni rito necessario, qui particolarmente grato, purgante, formativo (altra cosa dalla sofferenza adulta, quasi meritata, quasi patetica). Dentro alle sezioni in cui divide il testo –«Luce», «Mezza luce», «Buio», «Oltre il buio»: una discesa – la pena piccola ha a che fare con l’identità, certamente sessuale (ciò che il giornalista definisce da sempre «l’orrido tabù dell’omosessualità»), anzitutto super-animale: scoprirsi Uomini porta la responsabilità di un’esposizione galleggiata quando si vorrebbe flottare, covando ancora un po’, da mammiferi qualsiasi, gli incerti connotati.
Gli adolescenti, anche soltanto evocati nella mente senescente, affiorano dal fondale («Sospeso. Ecco, sospeso è forse la parola che più si avvicina, mi pare, a come mi sento. Non saprei dire sospeso su che cosa, o ai bordi di cosa»), boccheggiano di poesia naturata. Gli adolescenti fantasticano realtà parallele e incidentali («un film di cui conosce, dai sogni, tutti i dettagli: i nostri volti, il nostro accento, i discorsi, i maglioncini e le sciarpe che abbiamo addosso, il modo di ridere»), relazioni. L’umore è quel che è («io sono triste, non c’è niente da fare. Parlo poco»), eppure nel malcontento soffia lo spiffero di un’istintiva fiducia.

I racconti – brevi o fulminei, prosati colloquialmente – coi loro titoli allegorici, riescono in special modo quando spadroneggiano i piccini.
Paterlini ha il dono di tornar fanciullo. E non si tratta di stupore ingenuo, di caramellosità, piuttosto di «Bambinate» efferate; in raccolta esalta l’iter mentale dei sei anni, qualcosa che per tutti s’è perso e lui, al contrario, rivendica: i sentimenti senza mezzi toni, l’orgoglio e la lealtà, lo spalanco degli occhi – quel vivere pieno che pare non si debbano (c’è forse tempo?) sbattere le palpebre.
I bambini, qui, incorrono in prime volte d’onore («fu la mia scoperta dell’irreparabile. La scoperta che le cose successe non potevano più non succedere. Sarebbero rimaste lì. Per sempre»), giocano con la reputazione nei confronti del mondo, verso cui le attese sono (ancora) al massimo; che la maturazione sia delle pere, loro crescono, nell’alone di una ritrosa timidezza all’accattatevillo – impaziente, sollecita, brusca.

«Mi appassiona il dopo. Cosa succede quando tutti credono che ciò che c’era da godere sia finito. Per questo sono uno che ama la vita ma anche non vede l’ora di andarsene. Per vedere chi è che smonta tutto. E come fa. E quale diversa luce si accenderà nel buio».

Felicità? Amore? Mah.
L’autore interroga l’acqua tramite tanti «non so», ne fa un ulteriore personaggio. È l’acqua vacanziera, imparentata alle lacrime quanto a salinità, e davanti all’acqua sciaborda certi credo malfermi. Sul mare, però – il mare della pianura, dal sapor di piade e nebbia – giurerebbe mica tremulo. Di fatto, lo fa. Dice miti, vagheggia apocalisse, veste persino la corteccia d’un pioppo: verità riaggiustate che la distesa ondosa, in gentili conati, propone.
Dalla bocca aperta del mare preleva i riconoscibili resti dei pasti di ieri («il passato – non il futuro – è l’unica eternità di cui sono certo»), avanzi recenti. Le carcasse paterliniane, poi, sfilano lungo i campi vicini, un po’ ossi di seppia un po’ aratri algosi, di notte, mietendo. Magari son residui di padri o di vecchiacce; nostalgici (ma senza rimpianto), eviscerati (ma con anima), incapaci di grandi rabbie ed esperti in delizia.


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