Comma 22

Abitare in una parola ricca: Paolo Lagazzi ricorda il poeta Attilio Bertolucci



Pensare al cuore degli uomini seduti sulle panchine non è cosa di tutti.
Accorgersi dei canti lontani delle lavandaie, del sole che inebria le farfalle che volano di sbieco, descrivere una donna che cammina come fa l’amore.
Al tempo del collegio, c’era un ragazzo che deponeva furtivamente le sue prime poesie sul davanzale della finestra del maestro.
Era Attilio Bertolucci. Faceva temi bellissimi, era già noto in città come poeta.
«Privo di certezze ma assetato di verità, il cammino della sua vita si è snodato con pazienza e passione alla ricerca di tutte quelle occasioni in cui il tempo quotidiano si accende di riverberi magici». Questa è una delle tracce che lascia di lui Paolo Lagazzi, scrittore e critico letterario, nel suo libro Come ascoltassi il battito d’un cuore – Incontri nel cammino di Attilio.
Per ventiquattro anni, ogni estate, Paolo si è inerpicato lungo la strada che da Parma conduce verso Casarola, verso la casa di Attilio. E di Ninetta.

«Le estati allora erano infinite come sembra essere il sentimento che ha unito i miei genitori al loro ospite, generando in me un’emozione così intensa da divenire quasi indescrivibile», racconta il regista Bernardo Bertolucci nella prefazione al libro La casa del poeta di Paolo Lagazzi.
Paolo arrivava sempre al momento giusto di quella che lui stesso definiva la cerimonia del tè. Era complice della liturgia quotidiana di Attilio e ne rispettava i tempi e le regole, che pian piano non riuscì più a distinguere dai versi che amava.
La poesia di Attilio è il tutto rivelato nei frammenti. Spesso ripensava alla propria poesia e si rendeva conto dei tanti episodi, eventi, giorni a cui non aveva dedicato nemmeno un verso: si interrogava su quanti momenti di luce e ombra, quante apparizioni e quanti doni della vita meritevoli di essere evocati avesse trascurato.
In questa densa conversazione con Paolo Lagazzi, abbiamo ripercorso insieme i tratti più significativi della vita di Bertolucci, avendo il privilegio di conoscere alcune tra le sfumature più intime. Per molti anni Paolo si è occupato dell’opera di Attilio in qualità di critico. Non ha mai smesso di chiedersi cosa fosse la sua anima se non un nodo impossibile da sbrogliare, quel mistero che ha segnato fino in fondo la sua poesia e ha sempre nutrito il suo lungo, trasognato e un po’ ebbro cammino accanto a lui.

Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi, 1993 (Ph. Carlo Cerchioli)

Il suo primo incontro con Attilio?
Nel 1972, quando ero studente universitario iscritto a Lettere a Bologna, intravidi per la prima volta Attilio, di passaggio da Parma, nella vecchia libreria Belledi in fondo a via D’Azeglio, ma non osai avvicinarlo: in realtà, pur essendo parmigiano come lui, non sapevo ancora niente della sua opera (avevo letto pochissimo fino a quel momento). Fu proprio il libraio, Belledi senior, a indicarmi Viaggio d’inverno uscito da Garzanti l’anno prima. Dopo aver divorato quel libro, che mi folgorò per la sua assoluta bellezza, decisi di proporre a Luciano Anceschi di fare una tesi su Bertolucci: nessun altro aveva ancora avuto una simile idea, ma Anceschi la accettò senza problemi.
Solo dopo quella mia decisione incontrai Attilio, di nuovo a Parma, per conoscerlo e per spiegargli la mia idea. Quel primo incontro avvenne in via Verdi nella casa di Molly Giovanardi, una delle due sorelle della Ninetta a cui Attilio aveva dedicato una poesia (Dalla casa di Molly G.) raccolta proprio in Viaggio d’inverno. Di quel primo incontro ricordo pochissimo: forse ero troppo emozionato e insicuro per poter afferrare davvero le parole del poeta e per conservarle in me. Ciò che mi colpì fu soprattutto la sua voce, leggermente flautata ma vibrante, segnata da una “r” di chiara radice parmigiana. Del secondo incontro, avvenuto qualche mese dopo a Casarola, ho parlato nel mio libro La casa del poeta. Dopo quel secondo incontro, caloroso e intenso, Attilio mi scrisse una cartolina per me estremamente impegnativa dicendomi: «Mi aspetto molto da lei». (Allora mi dava ancora del “lei” ma presto sarebbe passato al “tu”; io invece avrei sempre continuato col “lei”.)

La scelta di scrivere La casa del poeta è nata dal desiderio, quasi dall’urgenza, di testimoniare quello che è stato Attilio Bertolucci nella quotidianità. Com’era questa sua quotidianità? 
Io ho avuto il privilegio di poterlo conoscere nella quotidianità, e di poter leggere e rileggere la sua poesia stando proprio all’interno del paesaggio da lui più amato (Casarola, l’Appennino): stando fianco a fianco al poeta, a sua moglie, ai suoi figli quando erano presenti, muovendomi nei suoi luoghi, dimorando all’interno della sua casa, parlando con lui un’infinità di pomeriggi, passeggiando con lui, gustando con lui il sapore dei momenti, la tavola della Ninetta, il senso dell’ospitalità, e tutto questo per tanti, tanti anni.
Se mi è permesso dirlo, mi sono sentito molte volte nei confronti di Bertolucci come l’allievo nei confronti del maestro Zen. L’incontro con lui è qualcosa che ha contato tantissimo nella mia vita, anche al di là del rapporto letterario, su un piano puramente umano. Come persona Bertolucci era, da un certo punto di vista, contraddittorio, capace di grandissima amicizia e di grandissimo affetto, però anche portatore di un’ansia che diventava contagiosa. Ma sapeva ricavare luce anche dall’ombra. Potrei dire che c’era sempre una specie di doppio movimento in lui: infinita dolcezza, e insieme qualcosa di umbratile. A volte la nostra amicizia è stata sfiorata da momenti difficili, da istanti in cui l’ho visto serio, o quasi duro, non tanto nei miei confronti quanto nei confronti della vita, delle cose, della realtà. Ma tutto ciò si trasformava rapidamente in bellezza, in tenerezza: diventava una verità umana intrisa sempre anche da uno straordinario senso dell’umorismo.

Per anni lei si è occupato dell’opera di Bertolucci come critico, ma nel 2006 ha sentito il bisogno di raccontarlo come uomo, come amico, come maestro. Per quale ragione?
La decisione di scrivere La casa del poeta non è nata in me da un progetto a tavolino. Per anni mi sono occupato della sua opera come critico arrivando a scrivere tre diversi libri per interpretarla, ho pubblicato per Guanda una lunga intervista al poeta, ho curato un’antologia di poesie scelte per Rizzoli e la raccolta dei suoi scritti più importanti in versi e in prosa nella collana dei Meridiani Mondadori. Più tardi avrei contribuito alla diffusione della sua opera negli Stati Uniti (scrivendo la prefazione alla traduzione completa in inglese, realizzata da Luigi Bonaffini, della Camera da letto) e in Giappone (curando, insieme alla mia amica Yasuko Matsumoto un’antologia di liriche sue e di Mario Luzi tradotte in giapponese).
Ma nel 2006 ho sentito una specie di forte bisogno di raccontare Bertolucci come uomo, come persona, come amico e maestro. Lei conosce sicuramente il dibattito a distanza tra il più grande critico dell’800, Sainte-Beuve, e Marcel Proust: per il primo esplorare la biografia di uno scrittore era importante perché era convinto che fra la vita e l’opera ci siano sempre dei legami, dei nessi, degli incroci. Proust, invece, pensava che ogni opera compiuta sia un universo a sé, retto da leggi proprie, e dunque inconfrontabile con la biografia di chi l’ha prodotta. Tra i critici che hanno lavorato meglio nel Novecento italiano, e che continuano a lavorare oggi, Pietro Citati è il più convincente nel mostrarci che, se è sbagliato indagare la vita di uno scrittore in un’ottica deterministica, alla ricerca delle “ragioni” della sua opera, non è affatto illegittimo cercare tra la vita e l’opera delle affinità, delle corrispondenze, dei cortocircuiti di senso che possono essere molto illuminanti. In altri termini: ripercorrere la biografia di un autore è un’avventura sempre proficua, che in modi mai riducibili a schemi, spesso sfuggenti e misteriosi, può aiutarci a penetrare meglio nei suoi testi. Io condivido pienamente l’opinione di Citati, ed è per questo che ho sentito la necessità di raccontare una parte, forse la più segreta e significativa, della vita di  Bertolucci.

Attilio e Ninetta

«Nei lunghi anni della mia frequentazione dei Bertolucci, Ninetta (Netta per Attilio, in privato) ha sempre rivestito per me un ruolo del tutto speciale. Il suo tocco domestico era essenziale per mantenere il giusto equilibrio, l’armonia dei colori, la serenità dell’insieme. C’era sempre il senso musicale di un andare e venire a tempo, senza alcuna impazienza o forzatura. Attilio si abbandonava con gratitudine e voluttà alla sottile ragnatela protettiva che lei sapeva allestire attorno ai loro spazi quotidiani». Che impronta ha lasciato Ninetta sulla poesia e sulla vita di Attilio? 
Ninetta è stata per Attilio l’amore totale, l’amour fou, l’amore miracoloso e senza scampo. Di questo amore io ho colto, per così dire, gli ultimi fuochi, i bagliori sempre assai vivi, vibranti e struggenti ma avviati al lentissimo incenerimento della vecchiaia. Per capire davvero cosa ha significato Ninetta per Attilio occorre risalire alla loro giovinezza, ai loro primi incontri, al loro fidanzamento nel periodo di Fuochi in novembre.
Le molte lettere che negli anni Trenta lui le mandò da Parma o da Baccanelli mentre lei viveva a Bologna per frequentare l’università, e quelle (meno numerose) che Ninetta mandò ad Attilio in risposta, sono state raccolte e pubblicate in un grosso volume (Il nostro desiderio di diventare rondini, Garzanti). Il carattere ossessivo fino alla malattia, quasi fino alla follia, di questa storia d’amore, è il retroterra stupefacente delle molte liriche dedicate da Attilio all’unica donna della sua vita. Queste liriche sono intrise, negli anni del loro fidanzamento, di una straordinaria leggerezza stilistica, di una grazia nutrita di sprezzatura, a volte vagamente neoalessandrina ma sempre refrattaria ai timbri leziosi, ai rischi del sentimentalismo e dell’estetismo perché aperta al soffio dei giorni, al battito vero della vita in cammino.
Nel corso degli anni il tempo creerà screziature, piccoli solchi, venature d’ombra o d’ansia nella poesia di questo amore senza mai, tuttavia, distruggerne la bellezza, anzi rendendola più umana e struggente. Nella Camera da letto l’incontro di A. con N. – dal loro cercarsi o sfiorarsi in una vacanza marina alla prima consumazione del peccato della carne, fino al matrimonio – si esprimerà in un’intensissima, lustra e sognante, nitida e mitica celebrazione dell’amore come avventura e destino. Nemmeno nelle ultime raccolte (Verso le sorgenti del Cinghio, La lucertola di Casarola) il fil rouge di questo incontro cesserà di attraversare la tessitura poetica di Bertolucci: ancora egli saprà mostrarci come un amore, mutando, possa durare senza scivolare nell’idillio o senza, al contrario, appiattirsi nell’abitudine, precipitare nel gelo. Di tutto ciò il carteggio che ho ricordato è il retroterra nudo, nevrotico e a tratti quasi crudele, la scena primaria, il fondo lampeggiante e oscuro: in queste lettere possiamo riconoscere da quale magma spirituale, da quale insieme di riti, scongiuri, preghiere, esorcismi o manie sia nato uno dei più limpidi, meravigliosi canzonieri d’amore della poesia europea.

Attilio è stato un grande conoscitore di pittura, ha amato l’arte e il cinema che hanno nutrito con le loro immagini il suo linguaggio poetico. Quali artisti e registi l’hanno emozionato? 
Non è possibile stilare un catalogo sintetico delle predilezioni artistiche e filmiche di Attilio, tanto ampiamente egli ha esplorato il mondo dei pittori e quello dei registi. Fra i pittori supremi, però, non posso fare a meno di ricordare i maestri della grazia, Correggio e Parmigianino, i maestri del mistero quotidiano e domestico, Chardin e Vermeer, e infine i maestri moderni dell’immersione nella natura, gli impressionisti; tra i registi ricorderò da un lato i maestri del genere western (anzitutto John Ford), decisivi per il respiro epico della Camera da letto, e da  un altro lato i maestri capaci di rappresentare la vita come palpito o tremore leggero, come susseguirsi di fugaci e vibranti incontri nello scorrere feriale del tempo (dal King Vidor di Street scene a Renoir). Ma anche per maestri come Chaplin e Hitchcock aveva molta ammirazione. Per quanto riguarda quest’ultimo occorre ricordare come Attilio sia stato, in alcuni periodi della sua vita, un fervido lettore di romanzi gialli; è forse un caso se alcuni episodi della Camera da letto sono segnati da un tempo aritmico che sa creare una specie di suspense?

Attilio Bertolucci
Bertolucci e Lagazzi

Paolo, lei è nato il 12 marzo 1949. Il primo libro di Attilio, Sirio, è stato stampato a Parma il 12 marzo 1929. Attilio è nato alla poesia esattamente vent’anni prima che lei si affacciasse al mondo. Quale significato attribuisce a questa sincronicità? 
Per me la vita è magica perché credo che tutto quanto esiste sia mistero e miracolo, e perché so che ci sono davvero, in essa, delle affinità e delle coincidenze singolari, quelle che Baudelaire ha chiamato correspondances o quelle che Jung riconduce al concetto di “sincronicità”. Il fatto che Attilio sia nato alla poesia esattamente vent’anni prima che io mi affacciassi al mondo, lo stesso giorno, lo stesso mese, è per me qualcosa di davvero sorprendente ma anche, se posso dirlo senza apparire retorico, una specie di conferma simbolica, il segno di un destino: “dovevamo” incontrarci, il nostro è stato un incontro voluto dalle stelle.

Attilio soffriva di quella che lui stesso definiva «la malattia necessaria»: l’ansia. Suo figlio Bernardo scrive nella prefazione de La casa del poeta che nel ricordo di quei momenti vi rivede insieme rifugiarvi lì dove nasce la poesia, nel bozzolo di Attilio in cui nessun altro aveva mai avuto accesso. Cosa ricorda di quei momenti? Cosa c’era in quel bozzolo?
Mi è difficile rispondere a questa domanda. Il mio incontro con Attilio è stato qualcosa come un lunghissimo sogno, al cui interno tutto era legato a tutto: i gesti casuali, le parole e i silenzi con cui il poeta si esprimeva, le tante passeggiate da noi condivise lungo i sentieri o i boschi dell’Appennino, i momenti d’ansia e quelli di quiete, le luci e le sottilissime ombre.
Tutto poteva diventare occasione di poesia attraverso i filtri segreti ma sempre presenti dell’anima di Attilio, del suo modo unico di essere, del suo stile delicato e asciutto, arguto e leggero, ricco di naturalezza e sapienza. Bernardo ha parlato, nella sua bellissima prefazione, di “bozzolo”, ma se qualcosa del genere c’era tra noi era un bozzolo aperto al vento dei momenti, permeabile da qualsiasi occasione, non un luogo spirituale chiuso, protetto da forme di esclusione nei confronti degli altri. Quasi tutto ciò che Attilio mi ha insegnato è nato dallo spirito del confronto e del movimento, dal bisogno di mettersi e rimettersi in cammino: le ricordo come proprio a Casarola lui avesse composto La camera da letto camminando e allo stesso tempo scrivendo.
Lassù al suo fianco ritrovavo ogni giorno nel suo spirito, nella sua voce, nei suoi gesti o nei suoi sottintesi quello stesso bisogno di abbandonarsi al plein air, di respirare all’unisono con la terra e col cielo che aveva intriso i versi e le prose di alcunid tra i maestri supremi della scrittura in cammino, da Rousseau, Wordsworth o Walser ai giapponesi Saigyō, Bashō, Ryōkan, Santōka. Nel Novecento italiano forse nessun altro poeta ha sentito così a fondo come Bertolucci la necessità di fare dei propri versi una flânerie o un’escursione, una traversata, un pellegrinaggio, un viaggio, un’avventura per evitare le strettoie della mente discriminante, la spirale tortuosa delle idee e l’asfissia del pensiero teorico. Solo affidandosi al ritmo del corpo in movimento e all’onda alterna del respiro immerso nel mondo Attilio aveva potuto dar libero corso a quella lunghissima, interminabile rêverie che è La camera da letto lasciando che in essa si disegnassero le figure del suo destino. Questo movimento continuava ogni giorno nel mio incontro con lui, nelle nostre parole e nei nostri passi tra i sentieri, i cespugli e i prati di Casarola intrecciandosi con le mie letture di testi zen, con le mie immersioni nella lirica giapponese o con l’avventura solitaria della meditazione su un cuscino, su un panno, su un sasso. La medesima forza liberatoria, la stessa energia spirituale che irradiavano le parole dei maestri giapponesi o che si sprigionava dallo zazen (la meditazione zen) mi giungeva dai versi di Attilio come dalla sua persona, dai suoi gesti, dai suoi inviti al cammino.

C’è un oggetto che conserva ancora di quella casa a Casarola? 
Sì, un libro in inglese di Christopher Isherwood, My guru and his disciple, che Attilio teneva nella sua piccola libreria di Casarola ma che, dopo aver recensito per Repubblica, mi regalò. È un racconto del cammino di Isherwood nella spiritualità induista, nel Vedanta; non è tra i libri migliori del grande scrittore inglese, ma Attilio, conoscendo la mia passione per lo Zen (che si può avvicinare al Vedanta sotto diversi aspetti) fu felice di donarmelo. Quando l’ho letto mi ha commosso scoprire tra le sue pagine alcune sottolineature e qualche appunto a matita di Attilio.

Attilio Bertolucci a Casarola

Quali sono i versi di Attilio che in assoluto ritiene si debbano conoscere? 
Sono tanti; qui vorrei ricordarne solo alcuni. Poche poesie italiane degli anni Venti hanno la freschezza, i colori tersi e l’incanto di due liriche di Sirio quali Settembre e Torrente; della prima ricordo: «Fresca erba / su cui volano farfalle / come i pensieri d’amore / nei tuoi occhi»; della seconda ricordo il finale: «Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato».
In un passo del poemetto La capanna indiana Attilio scrive: «Un luogo è quale stilla nella mente / del fanciullo ai giorni che la rondine / va e torna… / Qui siamo giunti dove volevamo». Sono versi altamente illuminanti perché ci dicono che, dal punto di vista del nostro spirito, un “luogo” significativo è sempre una soglia, una porta aperta attraverso cui possiamo riconoscere la vita come movimento incessante, come andirivieni tra partenze e ritorni, come battito cardiaco del tempo. Ognuno di noi da ragazzo cresce nella consapevolezza del mondo solo riconoscendo questo movimento, questo flusso, questo contrappunto infinito: i momenti in cui lo riconosciamo davvero sono attimi di rivelazione, epifanie, luoghi intimi che segnano per sempre la nostra mente e la nostra anima. In quei momenti «siamo giunti dove volevamo» perché ognuno di noi è, anche quando non lo sa, assetato di quella verità che è vita, vento, luce mobile, onda di energie, musica del cuore, ritmo o respiro della bellezza.
Altri due versi straordinari, presenti nell’ultima raccolta di Bertolucci, La lucertola di Casarola, sono quelli in cui, in un testo intitolato Senza titolo, ma senza dubbio dedicato a Ninetta anziana, il poeta dice: «Questo raggio che obliquo ti ferisce / è ancora giovinezza, ancora ancora». Questo distico afferma che la vera giovinezza è una dimensione dell’anima, non del corpo: mentre il corpo è condannato a quello sfacelo che lo porterà alla morte, nell’anima resiste una sorta di giovinezza perenne, una scintilla di eternità tanto più struggente quanto più il corpo declina. Recitai questi due versi, rabbrividendo, nel cimitero della Villetta a Parma quando ebbe luogo il funerale della Ninetta.

Perché Bertolucci è tra i poeti più grandi del Novecento?
Perché è un poeta irriducibile a tutte le forme di ideologia, alle tentazioni formalistiche e alle derive della mente rigida che hanno segnato drammaticamente la poesia del Novecento spesso soffocandone la libertà spirituale, riducendola a una serie di esperimenti velleitari, a un gioco da laboratorio, a un vacuo esercizio di art pour l’art o a un insulso teatrino di ombre, di parole incomprensibili e astratte, lontane dalla vita e da ogni vera intuizione della bellezza e del mistero del mondo.
Le ideologie che hanno segnato la poesia del Novecento e che continuano a segnarla oggi (in primis quella secondo cui solo l’oscurità è portatrice di senso) sono tutte, in fondo, riconducibili all’essenza del nichilismo. Nessuna opera del Novecento più di quella bertolucciana è, invece, radicalmente antinichilista: nessun libro come La camera da letto sa dirci che il mondo, malgrado la sua struggente fragilità, non è un’illusione.
Leggere e rileggere Bertolucci, come faccio da quasi mezzo secolo, ha sempre significato per me abitare in una parola ricca, nonostante i suoi incontri con l’angoscia, la nevrosi e la malattia, d’una specie di forza terapeutica, generativa e pacificante. La naturalezza di questa parola non affonda in una semplice opzione naturalistica ma in un’intuizione a suo modo sapienziale (se pure espressa in forme delicate e inappariscenti) del valore sacro, miracoloso e irradiante dell’esistenza.