Camera Obscura

Senza nomi propri non c’è salvezza. I’m thinking of ending things di Charlie Kaufman



«Son le cose/ Che pensano ed hanno di te/ Sentimento»
(Le cose che pensano, Lucio Battisti/Pasquale Panella)

Donald Kaufman: «Ma c’è un colpo di scena: scopriamo che l’assassino soffre di un disturbo di personalità. Mi segui? In realtà lui è sia il poliziotto sia la ragazza. Sono tutti la stessa persona. Non è una roba da strippare?» Charlie Kaufman: «L’unica idea più abusata dei serial killer sono le personalità multiple […] E poi non c’è modo di scrivere un copione del genere, mi capisci? Come fai ad avere una persona prigioniera in cantina che al contempo lavora in una stazione di polizia?»
(dialogo tratto da Il ladro di orchidee di Spike Jonze, scritto da Charlie Kaufman)



Sto pensando di finirla qui. Sì, ma cosa? Una storia d’amore, forse. La storia di Lucy e Jake, che ora sono in auto, verso la casa dei genitori di lui, mentre la neve scende pesante e i dialoghi s’intrecciano con i pensieri non detti (ma perché lui sembra sentirli, i pensieri di lei? Perché le parole pronunciate sono in overlapping con quelle taciute?). È una storia che dura da poco, che sta facendo un piccolo passo importante, che di fronte a questo esita, tentenna: Lucy sta pensando di finirla qui, questa storia, perché la meraviglia dell’essere ciechi di fronte alla «brutale verità» è già finita, perché è caduta l’ideologia di quel sentimento, perché l’amore – che, diceva qualcuno, è una questione di fantasmi – è sotto troppa luce, e Lucy ora sì, lo vede quel grumo di saliva che si secca all’angolo della bocca di Jake, e quel che non vede è un futuro con lui. O forse no. No. Forse – e lo scopriamo alla fine del film – non è questo che vuole finire qui. Forse è la vita di un uomo prossimo alla pensione, di un bidello in una scuola in cui i giorni sono tutti uguali mentre il tempo passa, le persone entrano, attraversano i corridoi, le aule, i laboratori di teatro, e poi escono, e lui è sempre lì, sempre al lavoro e sempre immobile, a immaginare quello che avrebbe potuto, a ripassare i ricordi e a riscrivere la memoria, a provare a vivere vite che non sono la sua. Come quella di Lucy (o Luisa? O Lucia? O Ames? O Amy?), la cui voce, il cui pensiero, abbiamo seguito per tutto il film. Come quella di Jake. Che forse sono la stessa persona. E che forse sono lui (e forse sono ancora il Caden Cotard interpretato da Philip Seymour Hoffman in Synecdoche, New York: entrambi gli attori, Jesse Plemons e Jessie Buckley, nomi propri che si pronunciano alla stessa maniera, gli somigliano, e Plemons è stato suo figlio in The Master…). Forse sono una storia d’amore mai vissuta, le strade perdute, una, due, tre, quattro professioni sognate e abbandonate, le ipotesi di quel che sarebbe potuto, e invece.

È di questa sostanza, quella di cui sono fatti i sogni, certo, ma soprattutto i rimpianti e i rimorsi, che è fatto Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, adattamento dello scheletrico, spettrale romanzo omonimo di Ian Reid, una cosa che fa tendere la lettura post-moderna statunitense verso l’asciutto deserto di fantasmi di un Pedro Páramo. «Non puoi fingere un pensiero. Un pensiero può essere più reale, più vero, di un’azione». Ed è in questa realtà, che si muove l’autore, sceneggiatore, regista, da sempre. Al livello di un’identità che si disgrega, si frantuma e si perde, in un surreale che è quello della trilogia di Beckett, in filmcervello che nascono dal cinema di Alain Resnais, ma non conoscono la catarsi dell’eleganza formale, della grazia geometrica, dell’umorismo sottotraccia. Solo l’agonia: una ricerca statica, involuta, disperata, dentro personaggi che sono pretesti per non venire all’atto come Molloy, paludi di rimuginìi, io deboli, sfiniti, morenti, annullati dall’eccesso di possibilità, paradossalmente tanto stremati (come in Synecdoche, New York) dal proprio ego ipertrofico da farsi personaggi minori nella propria storia di ma, se, forse. O da sentirsi solo come irritanti interferenze (quelle apparizioni veloci, quelle voci lontane…) nel crogiolo delle ipotesi, emersioni improvvise e indesiderate del reale, telefonate a cui nessuno – nemmeno tu, che ti stai chiamando, come succede nel film – vuole rispondere. «La brutale verità», si dice in Synecdoche, New York. Lucida e insostenibile. «Qualcuno deve pur essere un maiale infestato dai vermi». Ma non solo: Kaufman usa il romanzo di Reid (limitato al vagare tra le ipotesi di possibili sé contrattati in rapporti di coppia, di famiglia, o con il consesso sociale, segnatamente scolastico) come la griglia d’un palinsesto da riempire con immagini e letture, citate e recitate d’improvviso, dai protagonisti: da Oscar Wilde a William Wordsworth, da Tolstoj a Hanna Kavan, da Una moglie di Cassavetes a una finta commedia romantica che Zemeckis non girerebbe mai, da uno spot cartoon di un gelato al musical Oklahoma!, fino al monologo finale di A Beautiful Mind... Sono prodotti culturali che parlano i personaggi, che ci sono e letteralmente ci fanno: «Non c’è niente di più raro in un uomo di un atto che sia suo», diceva Ralph Waldo Emerson.

Kaufman

A Kaufman interessano i fantasmi, di queste immagini e di queste letture, il lavorio che producono nel lettore e nello spettatore, i modelli possibili che gli propongono, l’orizzonte di senso, i mattoni di un immaginario fatto di ruoli improbabili e parole impossibili, di un essere che finisce comunque per citare o recitare, e forse finisce lì, letteralmente. Gli interessa come le cose ci pensano. La società dello spettacolo, la mcdonaldizzazione (i fast food hanno un ruolo importante, in Kaufman), serialità e serializzazione. E tutte queste cose, tra l’abbandono emotivo del verso lirico (la lunga performance di Bonedog di Eva HD) e l’analisi critica e autoriflessiva (le parentesi dedicate a Guy Debord, David Foster Wallace, Pauline Kael…), lascia che attraversino elettricamente, animino e disaminino, i suoi personaggi e il suo cinema, non permettendo requie a loro e a se stesso. «Alle persone piace pensare di essere punti che si muovono attraverso il tempo. Ma, secondo me, è il contrario: noi siamo fermi e il tempo passa attraverso di noi». Ed è qui che sta il punto (instabile, struggente) del film: il principio che struttura Sto pensando di finirla qui è un io narcisistico, ovvero un io per cui ogni cosa intorno è immagine di sé (come in Anomalisa), ma anche e soprattutto un io che vorrebbe e potrebbe essere ogni immagine possibile, che potrebbe essere tutto (una gerontologa, una critica cinematografica, una fisica, una pittrice, una poetessa… Bergman rivisitato da Baumbach, un sequel di Hereditary, un musical di Broadway, una versione redneck di 2001:Odissea nello spazio, un cartone animato con protagonista un maiale…) e finisce per essere un dolorosissimo niente, un nero, un vuoto, un palinsesto da riempire, una casa di ossa. Attraversato da tutti questi fantasmi (le parole che avresti potuto dire, la battuta perduta, la scelta sbagliata, il ruolo mai interpretato…) non si riesce a trovare l’immagine giusta. Fino a che il tempo non si consuma. E il film (sentiamo Kaufman porsi gli stessi problemi dei suoi personaggi: «di cosa sono fatte le mie immagini? Da dove da chi da cosa vengono? Dove vogliono andare? Possono – come si chiede anche un film incompreso come madre! di Darren Aronofsky – dare voce a un personaggio femminile?») smette di pensare di finirla qui.
E lo fa.
Plus rien. Ma anche plus rien è una cit.