Camera Obscura

Le guerre stellari eversive. Il western politico di The Mandalorian



Il politically correct può entrare anche nell’universo di Star Wars? Domanda retorica: certo che può. Ci è entrato fin dal primo episodio nel 1977, con la rutilante multietnicità del bar di Mos Eisley e di tutto l’universo di creature concepite dalla fantasia di George Lucas. E ha provocato esilaranti dibattiti dopo la famosa riedizione del 1997, in cui il dialogo e la susseguente sparatoria fra Han Solo e il cacciatore di taglie Greedo vengono modificati per non mostrare l’eroe, Han, che spara per primo; da cui il famoso slogan “Han Shot First” con il quale i fan della saga rivendicavano la giustezza della prima versione.
Insomma, anche dentro Star Wars si sta da sempre attenti alle etnie e alle identità sessuali dei personaggi; e del resto già il primo film (l’Episodio IV) sfoggiava un’eroina combattiva, indipendente e linguacciuta come la principessa Leila. Non sorprende, quindi, che le istanze politiche del presente abbiano fatto irruzione anche dentro The Mandalorian, il prodotto più recente della saga. Nel mese di febbraio è uscita la notizia del licenziamento di una delle interpreti, la campionessa di arti marziali Gina Carano. Questa attrice/atleta texana, figlia di un ex quarterback dei Dallas Cowboys, non era nuova a uscite controverse sui social. Molto attiva su Twitter, ha ironizzato pubblicamente sull’uso delle mascherine durante la pandemia e denunciato le presunte frodi elettorali a favore di Joe Biden. Il tweet che ha fatto traboccare il vaso – subito rimosso, ma si sa che nei social network tutto rimane – sosteneva, citiamo da un articolo di Hollywood Reporter, «that being a Republican today is like being Jewish during the Holocaust»: paragone ardito, che ovviamente ha fatto arrabbiare i democratici, la comunità ebrea americana e molte persone di buon senso. Essere trumpiani e negazionisti del Covid-19 non è ovviamente un reato; tirare in ballo la Shoah in modo incongruo forse lo è… sta di fatto che, dopo questi tweet, l’hashtag #fireginacarano è diventato popolarissimo e la Disney, che è proprietaria di tutto il franchise di Star Wars, si è sentita in obbligo di licenziarla.
È giusto? Probabilmente no. Ma viviamo in tempi complicati, nei quali offendere qualcuno, sia a destra sia a sinistra, è assai più rischioso che in passato.

The Mandalorian

Pensare che il personaggio di Gina Carano in The Mandalorian è un paladino della giustizia! La trama di questa splendida serie è nota: il cacciatore di taglie Din Djarin, che tutti chiamano “il Mandaloriano” o più brevemente “Mando”, viene incaricato dai capi della sua Gilda di recuperare un “bene prezioso” per conto di un misterioso (e cattivissimo) Cliente, superstite dell’Impero sconfitto. Quando rintraccia il bene, scopre che è una versione bambinesca di Yoda, lo Jedi più famoso (molti hanno erroneamente pensato che fosse proprio Yoda da piccolo, ma la storia si svolge dopo la saga narrata nei film, più precisamente – secondo le note di produzione – cinque anni dopo la fine del capitolo VI, Il ritorno dello Jedi). Affezionatosi al piccolo, decide di non consegnarlo e di tenerlo con sé, impegnandosi a cercare la sua gente. Le due stagioni seguono quindi Din/Mando in giro per la galassia, impegnato in rocambolesche avventure nelle quali trova aiutanti insospettati: uno è proprio il mini-Jedi, che ovviamente ha poteri mirabolanti; un altro è l’ex soldato ribelle Cara Dune, una guerriera interpretata appunto da Gina Carano. Il Mandaloriano ha invece il volto – o meglio nasconde il volto, perennemente coperto da un elmo – di Pedro Pascal, cileno naturalizzato statunitense. Uno dei colpi di genio della serie è il Cliente interpretato da Werner Herzog, il grande regista tedesco. La serie è multietnica: lo showrunner – scrittore e talvolta regista – Jon Favreau è di origini franco-canadesi e italiane, le originalissime musiche sono dello svedese Ludwig Göransson e nel cast ci sono attori afroamericani (il veterano Carl Weathers, l’Apollo Creed di Rocky), asiatici (la star di origini cinesi Ming-Na Wen) e ispanici (la splendida portoricana Rosario Dawson). Per non parlare, appunto, di Herzog: che giunto alla rispettabile età di 78 anni sembra avere un futuro come villain dal sinistro accento teutonico, un nuovo “man you love to hate” come il mitico Erich von Stroheim.

The Mandalorian
Werner Herzog in The Mandalorian

Chi scrive non è un fan delle serie: non ha il fisico, non regge il binge-watching, non ha la pazienza per attendere le nuove stagioni. Ma per The Mandalorian ha fatto un’eccezione. È una serie straordinaria. Attualmente attestata su due stagioni e in ovvia attesa della terza, si distingue per la sobrietà delle sceneggiature (pochi dialoghi, lo stretto necessario), la linearità dell’azione, la varietà delle storie raccontate nei singoli episodi e naturalmente il fortissimo tirante narrativo costituito dai due protagonisti, il nerboruto e scintillante Mandaloriano (sempre bardato con un’armatura metallica) e il graziosissimo Yoda junior. Quest’ultimo in realtà si chiama Grogu: il nome viene rivelato nella seconda stagione, capitolo 13, quando la Jedi Ahsoka Tano (interpretata dalla Dawson) riesce a comunicare telepaticamente con lui. Secondo un’antichissima legge narrativa (il personaggio sa meno cose di noi spettatori) l’identità Jedi del piccolo è inizialmente ignota al Mandaloriano, e viene pian piano rivelata nello svolgimento della trama. Quando si parla di Star Wars, è impossibile non ragionare anche in termini di merchandising e bisogna dire che l’invenzione di Grogu è un colpo di genio: un personaggio così piccolo e tenero è il miglior giocattolo che la serie abbia creato dai tempi del robot R2-D2, quello che noi italiani (all’uscita del primo film) abbiamo imparato a conoscere come C1-P8. Non osiamo pensare a quanti bambolotti si stiano vendendo mentre scriviamo.

C’è, a nostro parere, un doppio livello che rende The Mandalorian una serie affascinante. Il primo è assolutamente evidente sin dalla lettura della trama: l’idea del cacciatore di taglie non può che rimandare all’universo western, e lo stesso Pedro Pascal ha più volte dichiarato di essersi ispirato ai personaggi interpretati da Clint Eastwood nella “trilogia del dollaro” di Sergio Leone e in un paio dei suoi western da regista, Lo straniero senza nome (1973) e Il cavaliere pallido (1985). Di fatto, il personaggio di Din/Mando è l’estremizzazione degli eroi solitari di tanti western, e si potrebbero citare alcuni personaggi di John Wayne e il pistolero misterioso interpretato da Alan Ladd in Il cavaliere della valle solitaria. Si ha a che fare, in questi casi, con veri e propri archetipi: e il Mandaloriano è un archetipo che cammina, reso ancora più iconico dall’assenza di tratti somatici. L’idea di non fargli mai scoprire il volto è notevole, e rende ancora più emozionanti i due momenti della serie in cui è costretto a farlo, e Pascal può finalmente mostrare la sua faccia. Sarebbe fin troppo facile riciclare la battuta (quasi sicuramente mai pronunciata) di Leone, secondo la quale Clint Eastwood avrebbe avuto due espressioni, «con il cappello e senza»: in questo caso è verissimo che Pascal ha due espressioni, con l’elmo e (raramente) senza, ma credere in questo calembour significherebbe ignorare che un attore recita con tutto il corpo, e prima di ogni cosa con la camminata. Se si accetta questa elementare regola, si arriva alla conclusione che Pascal è bravissimo e che anche i più lievi spostamenti dell’elmo risultano straordinariamente espressivi: esattamente come i gesti di attori ingiustamente sottovalutati come i citati Wayne e Ladd, e di altri westerners come Gary Cooper, Robert Mitchum, Joel MacCrea e Robert Redford.

The Mandalorian
Grogu e il Mandaloriano

I primi 16 episodi pescano a piene mani nella mitologia del West. Il capitolo 4, Il rifugio, è un piccolo (e riuscitissimo) remake di I magnifici sette, quindi di I sette samurai di Akira Kurosawa, a riprova che un grande soggetto può essere infinitamente rifatto con variazioni minime. Diverse sparatorie avvengono in locali simili a saloon, o in villaggi su pianeti desertici che ricordano le haciendas di tanti western ambientati ai confini con il Messico. Insomma, è legittimo affermare che The Mandalorian è una serie cripto-western travestita da fantascienza, esattamente come il vecchio, notevole film Atmosfera zero (diretto da Peter Hyams nel 1981, e interpretato da Sean Connery) era un remake spaziale di Mezzogiorno di fuoco. I rimandi al genere hollywoodiano per antonomasia sono sicuramente un gancio utilissimo per conquistare spettatori in qualche misura nostalgici, e poco amanti delle serie (peraltro la serialità televisiva è il luogo dove il western, ormai poco frequentato dal cinema, sopravvive alla grande). Ma, come si diceva, c’è un secondo livello più sommerso che rende The Mandalorian molto interessante. Ed è, tanto per tornare all’inizio, un livello politico.
Star Wars è politico da sempre, dal ’77. George Lucas ha concepito la saga nei tempi politicamente aspri del Watergate (1974, impeachment di Nixon). Da bravo radical, ha trasferito in un mondo fantasy le istanze dei movimenti degli anni ’60 e ’70. Star Wars è la storia di una Resistenza liberale che lotta contro un Impero repressivo e violento. La Resistenza è fatta di gruppuscoli che vivono in clandestinità su pianeti remoti, difficili da scovare: partigiani, insomma. E basa le proprie fondamenta democratiche sulla vecchia Repubblica, poi trasformatasi in Impero. Che questa Repubblica/Resistenza sia guidata da una setta di cavalieri saggi, i Jedi, dovrebbe far capire quanto sia importante per Lucas la filosofia di Platone. The Mandalorian è la lenta scoperta, da parte del cacciatore di taglie, di questo sistema filosofico che è alla base della galassia: inizialmente Din/Mando non sa cosa siano i Jedi, mentre noi spettatori intuiamo immediatamente che dietro quello Yoda in miniatura si nascondono i maestri della Forza. Quindi The Mandalorian è, di fatto, una riscrittura in forma di western e di action-movie di tutta la filosofia alla base della saga. Non sfugge a nessuno che questa filosofia, come in Platone, è strettamente legata alla politica. Se si avesse la pazienza di ripercorrere i nove film del canone – ma soprattutto i primi sei, le prime due trilogie davvero scritte e controllate da Lucas – si scoprirebbe che gli “spiegoni” politici sono centrali nelle sceneggiature. Personaggi come Palpatine, Darth Vader, Obi-Wan Kenobi e tanti altri sono in tutto e per tutto politici che si contendono il dominio della galassia. The Mandalorian è la scoperta di tutto ciò partendo dal basso, da un personaggio che è un guerriero ma soprattutto è un profugo, perché la sua famiglia e quasi tutta la sua gente sono state sterminate dai cattivi. Questo profugo percorre un cammino di autocoscienza e di formazione politica nella quale il piccolo Jedi è un maestro involontario. L’arrivo di Luke Skywalker nell’ultimo episodio della serie è, a tutti gli effetti, un’agnizione e una riaffermazione di potere. La cosa interessante è che questo potere si connota come anti-tecnologico: nella scena finale (attenzione: spoiler!) Luke combatte da solo contro un esercito di super-droidi enormi, ferrosi e invincibili per chiunque non abbia il controllo assoluto della Forza. Ironicamente – ma è una sana contraddizione in seno al popolo – la scena è super-tecnologica, perché Luke appare giovane, come in Il ritorno dello Jedi (come si diceva, sono passati cinque anni!): il volto giovanile di Mark Hamill è sintetico, realizzato al computer, e l’attore – oggi settantenne – gli dà soltanto la voce, doppiando un se stesso digitale.
A livello di contenuti, ogni episodio lancia temi e appelli libertari: fuggendo ai nostalgici dell’Impero che vogliono impossessarsi di Grogu, il Mandaloriano e coloro che lo affiancano raddrizzano torti qua e là per la galassia, aiutando i deboli e combattendo i forti, rubando i ricchi per dare ai poveri. Sono gli eredi di Robin Hood, di Zorro, dello zio Zeb, di Jack Reacher: sono dei giusti. The Mandalorian sembra, qua e là, una serie “comunista”. Sicuramente è la cosa più anti-establishment che l’industria americana dello spettacolo abbia realizzato negli ultimi anni, pur essendo un prodotto dell’establishment più aggressivo e monopolistico che esista: il colosso Disney/Pixar/Marvel/Lucasfilm, l’onnipotente trust della fantasia. Come dicevamo: le contraddizioni in seno al popolo.