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La vita senza le parti noiose: Alfred Hitchcock in dodici ritratti



Se, da appassionati di cinema e di cinema hitchcockiano, siete alla ricerca di rigore scientifico, contenuti inediti e originalità d’analisi, evitate il libro di Edward White, Le dodici vite di Alfred Hitchcock (il Saggiatore). L’autore scrive cose come queste: «Il suo enorme ego era eguagliato solo dalla fragilità della sua autostima: la sua capacità di provare disgusto verso se stesso solo dalla propria considerazione di sé»; o come queste: «Orgoglioso della propria raffinatezza e sofisticazione, al tempo stesso doveva lottare per controllare i propri appetiti»; o, ancora (saltando alle ultime pagine, e con l’attenuante del punto di domanda): «Poteva trovare la forza di dire al proprio confessore cose di sé che gli era impossibile ammettere a uno psichiatra, a un amico, ad Alma o persino a se stesso?».

Ma Alfred Hitchcock, si sa – l’uomo, il regista, anzi prima il regista e poi, in cerca di cause, l’uomo –, è da sempre una trappola pericolosa, un inciampo interpretativo perfettamente congegnato, il film thriller in più, fatto – come tanti altri che egli ha diretto nell’arco di più di cinquant’anni di carriera – di scambi di persona, sviste, prove insufficienti, accuse infondate, conclusioni affrettate. Un giallo insidioso al quale Hitchcock ha lavorato a lungo e con grande finezza, disseminando di intervista in intervista (e non è stato esattamente avaro di sé) racconti, menzogne, sogni, aneddoti, risposte frettolose e distratte, semplificazioni ed esagerazioni (intrattenimento, insomma). Non solo: di questo giallo che lo riguarda direttamente ha offerto, con sadica furbizia, i contenuti ma anche lo svolgimento, giocando a sottolineare eccessivamente le responsabilità dell’uomo sul regista, il fardello dell’autobiografia, il meccanismo del trauma (che per uno che maneggia sangue, suspence, assassini e folli…). E come può, un giovane biografo-giornalista come Edward White non immergersi – ultimo di una lunga schiera – fino in fondo in questa seducente messa in scena, esattamente come Hitchcock sperava che accadesse agli spettatori dei suoi film che erano “la vita senza le parti noiose?”. Solo i francesi, da François Truffaut a Raymond Bellour, autore di sofisticatissime analisi, hanno saputo davvero trattare Hitchcock.

Alfred Hitchcock

Detto questo, e cioè chiarito che lo studio di Alfred Hitchcock e del suo cinema ha partorito nel tempo un vero e proprio genere del tipo “biografia hitchcockiana”, in cui il biografo finisce quasi sempre per giocare il doppio ruolo dell’autore di gialli (ad alto tasso psicoanalitico) e dello spettatore più o meno inconsapevolmente trascinato per gli occhi là dove è stato deciso che debba guardare (si comincia già negli anni Settanta), il lavoro di White è assolutamente perfetto. E cioè: un libro di genere in cui c’è tutto (ricostruzione storica, setaccio biografico, informazioni sulla lavorazione dei film, tentativi di analisi), in cui tutto funziona perfettamente, mescolandosi agilmente, e in cui l’autore ha la buona idea supplementare di serializzare la formula partorendo una sequenza di ben dodici ritratti del regista inglese: eterno bambino, assassino, autore, donnaiolo, grassone, dandy, padre di famiglia, voyeur, intrattenitore, pioniere, londinese, uomo di Dio. I luoghi comuni, la manipolazione romanzesca dei dati, la drammatizzazione conflittuale ecc. ci sono tutti – il genere è ampiamente influenzato dal più ampio modello della “biografia all’americana” –, e questi dodici capitoli, come si dichiara nell’Introduzione, servono di fatto a ingrandire altrettante ossessioni hitchcockiane – come se l’arte, anzi la grande arte, debba essere per forza un malfunzionamento emotivo e psicologico, eventuale risarcimento di una condizione di malessere.

Alfred Hitchcock

Ma la scomposizione cubista contribuisce a tenere alto l’intrattenimento, a variare il registro (a volte più storico, altre più psicoanalitico, altre ancora più gossipparo) e a non confondere troppo i piani – il “voyeur”, per dire, resta opportunamente separato dal “londinese”. Più di tutto, l’idea della divisione e moltiplicazione – una volta messo da parte qualsiasi dubbio di legittimità metodologica: il genere lo autorizza – consente di percorrere più agevolmente il sentiero che dalla biografia porta al cinema, dal vissuto al girato, e di non svilire del tutto la logica del mistero (della vita e dell’opera): se di Hitchcock ce ne sono stati dodici, difficile stabilire senza ombra di dubbio chi sia il colpevole.


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