Camera Obscura

La redenzione impossibile. I 60 anni di Rocco e i suoi fratelli

Scoprire come invecchiano i film, come reagiscono al contatto con la nebulosa e sottile patina del tempo ha un fascino che diventa irresistibile nel momento in cui  a compiere un’età importante sono pellicole che non solo hanno fatto epoca, ma che possono esssere catalogate sotto la dicitura di capolavori.
Il 6 ottobre del 1960 si tenne, in seguito alla già discussa e criticata anteprima alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, la prima proiezione pubblica di Rocco e i suoi fratelli, il film  che Luchino Visconti stesso nella sua ultima intervista, rilasciata nel novembre del 1975, dichiarò essere tra i suoi lavori, quello a cui restava più legato. Rocco, come non fossero bastate le polemiche, le critiche e l’intervento della censura su La terra trema (1948) e Senso (1954), si era dimostrato fin dagli albori della lavorazione un progetto ostico, destinato a ingiusti trattamenti che ne avrebbero minato la realizzazione e la divulgazione, perché nuovo, perché contemporaneo, perché crudelmente vero. Una fotografia del suo tempo che Alberto Moravia non esitò a definire come il perfetto connubio tra tematiche sociali e decadenza umana e morale – due aspetti onnipresenti nella poetica viscontiana – che avrebbe trovato il suo posto nella Storia.

Rocco e i suoi fratelli

E allora torniamo indietro nel tempo di 60 anni, alla fredda sera in cui Rosaria Parondi (Katina Paxinou) insieme ai suoi quattro giovani, bellissimi ed ingenui figli  – il quinto lo avrebbero raggiunto a breve a Lambrate – scende dal treno che dalla Lucania li ha condotti a Milano, verso quella nuova vita che sognano di potersi costruire. Milano è un parco divertimenti, pieno di luci, palazzi, ragazze conturbanti, vizi e opportunità, Milano è l’emblema di una nuova epoca che si sta affermando, è la capitale economica del boom,  la El Dorado in cui i fratelli Parondi potranno fare fortuna. Da qui,  si snoda una vicenda divisa in atti – ognuno porta il nome di uno dei fratelli – che ad ogni fotogramma si allontana sempre più tragicamente dalla tanto agognata felicità rincorsa, sfiorata e mai saldamente afferrata. Vincenzo (Spiros Focas), il maggiore, diventa padre di famiglia, sposa la sua Ginetta (Claudia Cardinale) tra comuni disapprovazioni, Simone (Renato Salvatori) insegue la gloria di una carriera da boxeur, senza accettare la disciplina e il rigore che essa impone e preferendo in seguito il facile ed effimero piacere dello squallore e la violenza degli eccessi e del crimine. Rocco (Alain Delon) ottiene la fama che non insegue, ma che beffarda lo avvinghia facendolo prigioniero di un gioco perverso che si nutre del suo buon cuore e dei suoi saldi principi, e che lo sottrae brutalmente all’amore e alla serenità. Ciro (Max Cartier)  resta fedele a se stesso, studia, lavora, ottiene un posto da operaio all’Alfa Romeo, ma viene di riflesso fagocitato e trascinato dai sui fratelli nell’orrore del dramma, e infine Luca, il più piccolo – il vero figlio del boom- , il bambino che resta immobile ad osservare gli altri, diventa, involontariamente e a sua stessa insaputa, il barlume di speranza per la rinascita, per porre fine alle peripezie di un viaggio e di una storia che ha saputo solo regalare dolori e rotture irreparabili.

Rocco e i suoi fratelli, ispirato ai racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, è, e resta, la perfetta analisi di un’umanità che avrebbe voluto adattarsi ai cambiamenti sociali e che dalla stessa macchina che credeva di poter governare si è lasciata spremere, logorare e distruggere, una morale che ancora oggi ci suona parecchio familiare. La decadenza, instillata con il contagocce dilaga, quasi esplode, a contatto con le fragilità e le instabilità dei protagonisti, fomentata dall’asfissiante e ingombrante presenza di una madre castrante che non sa stare al suo posto e dall’assenza di una guida illuminata, capace di ricondurre i fratelli sulla “retta via”. Insoddisfazione, senso di sconfitta, incomprensione, incapacità di stare al passo con i tempi, al ritmo di un mondo che cambia ancora prima che ce ne si renda conto, si accumulano e scaturiscono in violenza rude e depravata, incontenibile e necessaria. Proprio perché necessaria – incontenibile e liberatoria per Simone – deve essere mostrata in tutta la sua autentica atrocità, e Visconti la mostra in un climax che annega ogni lampo di lucidità in disperazione. Lo stupro di Nadia (Annie Girardot), la prostituta per cui Simone perde le testa e di cui Rocco si innamora, e la sua uccisione, diventano atti culminanti di un percorso tortuoso a senso unico. La censura, come è noto, intervenne aspramente proprio sulla divulgazione di queste scene – di rara bellezza formale e stilistica – ordinandone il taglio. É proprio nello scontro fisico alla Ghisolfa che si delineano definitivamente, con precisione lapidaria, i caratteri dei personaggi: la totale e paralizzante dipendenza di Rocco da principi arcaici che mettono la famiglia al primo posto, e l’efferatezza dell’animo corrotto e criminoso di Simone. Il pianto convulso di Rocco, la barbarie di Simone, le grida e le suppliche di Nadia riecheggiano in un teatro di orrori ”metropolitani” che si impone sulla scena. L’uccisione di Nadia all’idroscalo, scena che Visconti  dovette girare a Roma, vista la mancata concessione da parte delle autorità milanesi, si innalza con teatralità a “quadro conclusivo” di una redenzione impossibile. Accostando sacro, Nadia che come un Cristo in croce attende Simone per poi avvolgerlo, e profano, ovvero la violenza dell’omicidio portato in scena nella sua folle crudezza, Visconti segna il definitivo punto di non ritorno, la dipartita di ogni scampolo di salvezza rimasto. Una scelta troppo audace, una voglia di raccontare e mettere in scena la realtà nei suoi aspetti più reconditi era troppo per il pubblico ben pensante del 1960, è, invece, per noi una limpida testimonianza di una cronaca che ogni giorno scandisce la nostra quotidianità.

Rocco e i suoi fratelli

Come se tutto ciò non bastasse, i dettagli rimasti immutati nel tempo si sprecano: la derisione verso lo straniero, il guardarlo con sospetto, lo sfruttamento del più debole, della sua ingenuità, della sua gentilezza, il ricorrere ad ogni mezzuccio pur di raggiungere i propri obiettivi sono solo una manciata di aspetti che anche a uno spettatore poco attento risultano lampanti. Cambiano le situazioni, i nomi, le provenienze, i desideri e le aspirazioni, ma la visione archetipica, che sta alla base di un racconto sociale e antropologico quale è Rocco e i suoi fratelli non risente dell’accavallarsi dei decenni.

Il fascino di un passato ormai lontano, la ricchezza di uno sguardo attento e aperto sul mondo e sulle sue mille varietà, uno stile regale capace di impreziosire tutto ciò che racconta, dal crimine più torbido all’amore più struggente, sono invece i tratti irripetibili di un cinema che a noi viene tramandato come regalo, come strumento per leggere e interpretare il nostro presente, perché se per Rocco che guarda dritto in macchina tremante e sofferente, stringendo a sé il piccolo Luca, «Tutto è finito, adesso», per noi, che vorremmo poter essere eredi di Luca che ha un destino ancora tutto da scrivere, tutto deve ancora cominciare.