Camera Obscura

La leggenda di Kenneth Anger, inventore di vasti regni immaginari



Secondo una sua stessa occulta previsione Kenneth Anger sarebbe dovuto morire nel 2008, così come annunciò durante un panel all’ICA di Londra pochi anni prima. È una fortuna che così non sia andata perché anche se Anger aveva già quasi del tutto interrotto la sua produzione, in realtà la sua presenza anche a distanza è stata preziosa fino alla fine per molti motivi.
Appena lo scorso 24 maggio la notizia della sua scomparsa è stata resa nota, travolgendo non tanto il mondo dell’arte e del cinema ma più curiosamente un pubblico trasversale che nelle decadi è arrivato ad Anger risalendo più o meno consapevolmente il fiume carsico della sua opera: cinefili, certamente, ma anche fotografi, filmmaker, feticisti, stilisti, musicisti, occultisti, accademici dei queer studies, satanisti, esegeti della storia del cinema e del gossip e molti altri ancora. Già soltanto l’eterogenea e improbabile composizione di tale pubblico può in parte restituire la complessità ma anche la paradossalità di una figura così centrale eppure apparentemente così distante da un vero e proprio riconoscimento pubblico. Kenneth Anger, che era nato a Santa Monica nel 1927, era in realtà già morto l’11 maggio in una casa di cura per anziani dalle parti di San Bernardino in California.

Chi è stato dunque Kenneth Anger? Cercando per un attimo di scansare le molteplici definizioni che negli ultimi giorni hanno affollato i suoi necrologi e tentativi di riassumerne la carriera, Anger, come lui stesso affermò già nel 1966 durante la proiezione dei suoi lavori, era un “mago” praticante della religione di Thélema fondata dall’occultista inglese Aleister Crowley (1875-1947), che impiegava il cinema come “arma magica” per invocare forze occulte. Sebbene oggi tutto questo possa suonare persino ingenuo o a tratti cialtronesco, bisognerebbe invece abbandonarsi un attimo alla suggestione e al mito, ma soprattutto provare a fare lo sforzo di comprendere quanto la determinazione di Anger (e altri come lui, a partire da Harry Smith) nell’iscriversi al di fuori di qualsiasi sistema ufficiale, muovesse da una profonda esigenza di riformulare radicalmente la propria esistenza abbracciando valori ed esperienze diametralmente opposte a quelle di un maschio bianco americano come lui, nato sul finire degli anni Venti. In questo, come vedremo, Anger non era solo ma concorse a quella silenziosa eppure radicale ribellione alla quale approdarono migliaia di individui alla disperata ricerca di una nuova identità spirituale, culturale, sessuale, soprattutto dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, il coraggio di Anger nell’autodeterminare la sua visione al di fuori di ogni circuito e gerarchia attraverso il medium del cinema fu effettivamente qualcosa di magico.
Anger, nato da una famiglia presbiteriana con antenati sia tedeschi che inglesi (il suo vero nome era Kenneth Wilbur Anglemyer), inizia a incarnare il ruolo di outsider praticamente fin da subito, rompendo e allontanandosi dai genitori e dai due fratelli maggiori e trovando nella figura della nonna Bertha un punto di riferimento sia affettivo che culturale: è lei ad assecondare nel giovane Kenneth il piacere dell’immagine in movimento, a guidarlo al cinema e in seguito a portarlo fisicamente a vivere a Hollywood in una casa dove la nonna viveva con un’altra donna, “Miss Diggy”.

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Kenneth Anger, anni Ottanta

C’è qualcosa di leggendario nei cenni biografici che descrivono i primi passi di Anger dentro e fuori il cinema: da enfant prodige che debutta come attore nel 1935 nei panni del principe “scambiato alla nascita” nel film in bianco e nero Midsummer’s Night Dream, ad aver fatto parte del corpo di ballo di un musical con Shirley Temple: entrambe queste prime performance a tutt’oggi rimangono sospese in quella zona ambigua tra realtà e mito che ammanterà per tutta la vita piccoli dettagli o macroscopici elementi nella narrazione della sua carriera, e che apparentemente ancora oggi nell’epoca del fact-checking non possono essere del tutto chiarificati.
Che fosse lui o no a indossare i panni del changeling prince (più verosimilmente era un’attrice bambina di nome Sheila Brown), non vi sono dubbi che quelle immagini così artefatte e scintillanti del film di William Dieterle e Max Reinhardt ebbero un’enorme eco nella sua educazione visiva. Nemmeno due anni dopo dall’uscita di Midsummer’s Night Dream, Anger ad appena dieci anni sfrutta una cinepresa amatoriale reperita in ambito familiare per iniziare a tradurre la sua immaginazione e i suoi sogni in pellicola. Ecco, a questo proposito: tutti gli studiosi a vario livello di cinema underground e chi nelle ultime ore ha dovuto compilare coccodrilli sull’autore, citano come un dato filologicamente incontestabile la precocissima produzione di Anger. Consultando tutte le fonti e gli studi più accurati, dalle informazioni custodite nel volume di Adriano Aprá New American Cinema (1986, Ubulibri) a quelle contenute nella biografia non autorizzata di Bill Landis (1995, Harper Collins) per arrivare alla esaustiva monografia di Alice L. Hutchinson (2004, Black Dog Publishing) e in molte altre sedi, si ricostruisce una filmografia che comincia con Ferdinand The Bull (1937) girato in 16 mm in bianco e nero con dei ragazzi di un campo estivo a Big Bear Lake e ispirato all’omonimo racconto per bambini di Murno Leaf, per proseguire con circa altri sette tra corti e mediometraggi che coprono il periodo tra il 1937 al 1947: il problema è che la fonte originale che ha cristallizzato questi primi prototipi è lo stesso Anger, in un articolo pubblicato nel numero 31 della rivista Film Culture dell’inverno 1963-64. In realtà nessuno ha mai potuto apprezzarne le qualità o semplicemente testimoniarne l’esistenza giacché tutte queste pellicole risultano perdute, distrutte o comunque non disponibili.

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Kenneth Anger, Fireworks, 1947, C-Print, courtesy Sprueth Magers

Che quei titoli (tutti dettagliatamente descritti dallo stesso Anger nel pezzo su Film Culture) fossero stati effettivamente girati, oppure solo “immaginati”, poco cambia nella prospettiva di un autore che poi avrebbe comunque manifestato ampiamente e compiutamente le sue visioni. Ciò che possiamo pacificamente asserire è che il “primo” film che Anger porta a compimento è il seminale Fireworks (1947), che realizza in totale autonomia artistica e che rappresenterà per sempre una pietra miliare del cinema sperimentale e modello visivo continuamente visitato della queer culture, ma non solo: Fireworks nel suo individualismo condivide se non esattamente gli stessi temi, medesime forme e sentimenti in gestazione già durante i primi anni Quaranta nella West Coast, partendo dai film della vestale della sperimentazione, Maya Deren: Meshes of the Afternoon (1943), che mostrò negli ambiti del cinema segreto la possibilità di uno sguardo psicanalitico e di una restituzione dell’io anni luce distante dalle trame dei protagonisti dei film hollywoodiani coevi. Altri film come Fragment of Seeking (1948) di Curtis Herrington confermano una simile sensibilità verso ciò che poi verrà definito come trance cinema: il cinema come uno stato di trance, la macchina da presa come medium per catturare e restituire agli altri le proprie pulsioni oniriche. Fireworks, che vede per la prima volta Anger come protagonista di un suo film, racconta grazie solo alle immagini i travagli di un sognatore omosessuale.
Nella descrizione che lo stesso autore allega sul programma di proiezioni dedicate ai suoi film nel 1966, dichiarerà laconicamente: «Il film è tutto quello che ho da dire sull’essere un diciassettenne, la Marina degli Stati Uniti, il Natale Americano e il 4 luglio». E in una successiva nota: «Dedicato a Denham Fouts, il primo che “mi ha fatto eccitare”».

Fireworks è insomma un vero e proprio coming out col quale l’autore ventenne si sbarazzava una volta e per tutte di ogni indugio circa la sua identità e sfidava (almeno nel sogno) i segni e i simboli dell’America, mettendo in scena visioni di sesso e morte, attrazione e repulsione che, se certamente non erano nuovi in assoluto, lo erano nella storia degli audiovisivi americani. Se Fireworks deve molto a Le sang d’un poète (1930) di Cocteau, bisogna attendere fino al 1949 per vedere rappresentati da un altro autore, con altrettanta efficacia e sprezzo per ogni vincolo morale, il desiderio omoerotico con Un chant d’amour, unica opera cinematografica dello scrittore francese Jean Genet.
Con Fireworks a tutti gli effetti comincia la seconda vita di Anger. E qui bisogna subito sgombrare il campo dal cliché che vorrebbe Anger come la quintessenza oscura di Hollywood e del landscape losangelino: perché se da un lato Los Angeles è indubbiamente nel dna dell’autore, è l’Europa a segnare nell’intimo lo stile di Anger. Non potendo mostrare apertamente Fireworks in America, il regista inizia il suo grand tour che lo porterà a inviare la sua creatura al “Festival del cinema Maledetto” di Biarritz organizzato proprio da Jean Cocteau nel 1949: nella stessa sede verrà anche mostrato lo scandaloso film di Genet. Cocteau fu così colpito dal film di questo sconosciuto ragazzo americano da invitarlo vibratamente a migrare in Francia commentando così Fireworks:

«[Il film] emerge da una meravigliosa notte, quella da cui tutte le vere opere provengono. Tocca l’anima nel vivo e questo accade molto raramente».

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Rabbit’s Moon, 1950

Dal 1950 al 1953, e poi dal 1955 al 1962, Anger vivrà in Francia e in Italia. Non è un caso quindi che film come Rabbit’s Moon (o La lune des Lapins) del 1950 appaiano come la diretta emanazione e appropriazione psichedelica della commedia dell’arte filtrata da registi come Marcel Carné, o che l’altrettanto psichedelico Eaux d’Artfice (1953), girato nella Villa D’Este a Tivoli, incarni fedelmente un’estetica barocca e decadente sconosciuta ai registi americani, amplificando però lo sguardo allucinatorio su giochi d’acqua con un approccio già totalmente da New American Cinema, dove gli zampilli d’acqua diventano improvvisamente eruzioni di luce, ricche di sottotesti sessualizzanti, decostruendo ogni tentativo narrativo a favore di un immaginario visivo che da lì in poi non avrebbe più abbandonato lo stile di Anger.
Nel mezzo, avviene poi l’incontro che più di ogni altro segna l’arte del regista: non si sa esattamente quando e in che modo, ma Anger inizia a interessarsi alla filosofia del left-hand path, e in particolare alle teorie di Aleister Crowley conosciuto come il padre del satanismo moderno e ancora oggi continuamente equivocato nella ricezione e nella comprensione di quanto l’occultista inglese sia stato determinante nella cultura del Novecento e in particolare negli sviluppi sperimentali e pop dopo la sua morte. Dire di più significherebbe perdersi in una tale mole di riferimenti che invece il lettore potrebbe iniziare a scoprire proprio grazie ai film di Kenneth Anger, che per il regista-mago non fu solo un remoto riferimento culturale ma un vero e proprio modello di vita. Nel 1955 giunge in Sicilia, a Cefalù, dove Crowley aveva fondato la sua Abbazia di Thélema, in realtà quasi una comune, dove Crowley visse con accoliti, amanti e praticanti di una way of life che oggi di “satanico” avrebbe ben poco di diverso da un qualsiasi agriturismo preso in affitto da turisti inglesi con la passione per il sole, lo yoga e sessualmente disinibiti.
Di quel poco che già nel 1955 rimaneva di quel luogo (Crowley e i suoi furono espulsi dal regime fascista e da allora Thelema è un rudere abbandonato) Anger, dopo aver eseguito con fatica e pochi mezzi un’operazione di restauro della tempio, gira Thelema Abbey (1955) un documentario in bianco e nero di 30 minuti, dove oltre a mostrare ciò che rimaneva degli affreschi erotici dipinti da Crowley intervistava anche Alfred Kinsey, il biologo e sessuologo statunitense che sconvolse la sua nazione con la pubblicazione sulla vita sessuale degli americani. Thelema Abbey, quasi mai citato, rappresenterebbe in tal senso un unicum della sua produzione; perché l’autore non lavorò mai più con quel genere e non girerà più lavori “parlati”. Cosa ancor più rara: il film era inteso come un lavoro commerciale per un’emittente del Regno Unito, prodotta dalla rivista britannica Picture Post che sfortunatamente perse l’unica copia del documentario dopo l’unica messa in onda. Come spesso accadrà nella travagliata cronaca delle produzioni di Anger, la conservazione e la “vita” fisica di quelle immagini è consegnata alla sola memoria e alle poche ma suggestive foto sul ‘set’ di Thelema scattate da Fosco Maraini. 

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Anger fotografato da Maraini esamina una delle opere di Crowley rimaste nell’Abbazia di Thelema, 1955

Anger a Parigi frequenta e collabora con il mondo della Cinematheque, e diventa a tutti gli effetti uno di quegli “agenti di collegamento” tra la cultura cinematografica dei Cahiers du cinémae la scena nascente negli Stati Uniti, tra la già citata Film Culture e la neonata Village Voice, dove è l’amico Jonas Mekas a scrivere di cinema e dove tra l’altro Anger pubblicherà un memorabile annuncio mortuario.
A Parigi tuttavia, con un altro expat eccellente come Stan Brakhage, Anger non è in condizioni di vivere e lavorare serenamente. È proprio l’amico regista a testimoniarlo nella celebre intervista che fa parte del volume di Film Culture dedicato a Brakhage Metaphors on Vision (1963) commentando l’effige di Anger che compare nel suo film The Dead dello stesso anno:

«Eravamo seduti in un caffè; quindi ho preso l’immagine di Kenneth. È stato solo quando ho rivisto quel filmato che mi sono reso conto che QUEL livello di ciò che intendevo per THE DEAD era come vedevo Kenneth e in cosa era imprigionato. L’ho visto come un concetto. Vedendolo come uno dei morti, ho avuto una grande preoccupazione, cura e amore per lui in quel momento. Da anni non lavorava, intrappolato da concetti ottocenteschi senza possibilità di evasione, quasi un uomo distrutto, eppure ancora vivo… quella era la cosa importante».

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Kenneth Anger in uno still da The Dead di Stan Brakhage

Anger in più non aveva soldi: condizione che purtroppo lo accompagnerà per tutta la vita, anche quando raggiungerà il pieno riconoscimento da parte di tutte le più grandi istituzioni culturali del globo. Anche per cercare di sanare le sue finanze, nel 1959 Anger pubblica quella che per tanti è la sua opera più nota: non un film ma un libro, lo scandaloso Hollywood Babilonia, che prima di essere un best seller tradotto in inglese (e in moltissime altre lingue) s’intitola Hollywood Babylone, pubblicato a Parigi da J.J. Pauvert.
Il volume meriterebbe talmente tante considerazioni da rappresentare un capitolo autonomo e per molti versi ancora non del tutto compreso dell’arte di Anger. Il suo autore ancora una volta mette insieme a modo suo un immaginario, quello apparentemente edulcorato e aspirazionale della Golden Age di Hollywood, ma con uguale malignità e tenerezza eviscera, mettendoli in fila uno dopo l’altro, tutti i misfatti di quelle divinità che costruirono l’Olimpo del cinema americano. Il testo apre con una citazione di Crowley, «Ogni uomo e ogni donna è una stella». E mai come oggi, in un mondo post-warholiano e post-social network, questa affermazione risuona in tutto lo spettro di possibili interpretazioni. Anger mostra la qualità dell’intrattenitore, e apparentemente sembra compiacersi con il suo black humor di cosa abbia rappresentato quella Sodoma e Gomorra senza regole prima del Codice Hays, quella stessa Babylon portata l’anno scorso al cinema nella modesta pellicola di Damien Chazelle che, peraltro, ha completamente omesso la paternità angeriana di quell’intero immaginario.

Chi attraversa le pagine di Hollywood Babilonia pensando di utilizzarlo come un documento storico-scientifico a prova di fact-checking può risparmiarsi la fatica: del resto, i recenti tentativi da parte di esperti di cinema e di morale nel produrre analisi narcisistico-revisioniste all’opera sono solo riusciti a dimostrare quanto sia intrinsecamente impossibile scalfire un ecosistema narrativo e visivo talmente perfetto da rappresentare ancora oggi un topos tutto suo tra letteratura, cronaca e visione.
Hollywood Babiliona (ripubblicato nel 2021 in una nuova edizione da Adelphi) rappresenta soprattutto un nostalgico atto d’amore del suo autore verso un’era, che quando il volume fu scritto era già lontana anni luce dalle trasformazioni dell’industria del cinema americano (e mondiale). Anger ha sempre ribadito il suo totale disinteresse per il cinema dopo il muto, e la sua ammirazione per la magia di tutto quel momento del pre-cinema, dalla “lanterna magica” in poi, strumento al quale dedicò il suo Magick Lantern Cycle mettendo insieme i suoi nove film più rappresentativi. L’immagine, il montaggio, ma soprattutto la luce sono gli elementi che più stanno a cuore ad Anger; non è un caso che nell’economia simbolica delle sue opere si stagli la figura divina di Lucifero (che il maestro si tatuò fieramente in pieno petto); Lucifero non come il diavolo incatenato nell’inferno della tradizione cristiana ma come signore della luce. Per Anger, Lucifero oltre a essere il prototipo del ribelle è il santo patrono delle arti visive. Colore, forma, tutte le opere si manifestano grazie a lui.
Nel saggio firmato da Anger per la mostra “Il Grande Occhio della Notte” che si tenne nel 1992 al Museo Nazionale del Cinema a Torino, scrive:

«Il problema per ogni artista è di mantenere il riflesso del fuoco divino dell’ispirazione nella direzione e nell’essenza del suo lavoro, dal momento che sa bene quanto questo fuoco sia fugace, questo barlume di luce che appare nella notte e deve essere espressione e a volte ha la forza incandescente di un vulcano. È una cosa fragile: la luce di una strega, il fuoco di sant’Elmo che Ejzenstejn chiamava “prima visione”. Quale strano paradosso è poi insito nel linguaggio cinematografico, quale strumento magnifico e terribile, figlio del nostro tempo, con il quale tentare e torturare la nostra immaginazione creativa. Senza sminuire in ogni caso il nostro entusiasmo per esso come forma artistica, non penso che ci sbagliamo, noi figli di quest’epoca, nel chiamarlo linguaggio imperfetto… imperfetto e terrificante».

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Inauguration of the Pleasure Dome, 1954-2014, C-Print, courtesy Sprueth Magers

Puce Moment (iniziato nel 1949 e terminato nel 1970) e le varie versioni di Inauguration of the Pleasure Dome (dal 1954-56 alle successive versioni ufficiali del ’58, ’66 e ‘74) evocano davanti agli occhi dello spettatore un mondo di sogni e visioni fantasmagoriche, dove la liturgia dell’apparire e lo scomparire dell’immagine umana e divina sono consegnate alla pura meraviglia di chi guarda. Inauguration of the Pleasure Dome è un sabba, il primo e più compiuto dei film esoterici di Anger che usa qui l’arte del technicolor come strumento magico e iniziatico. La versione del 1958 fu presentata a Bruxelles con il sonoro di Harry Partch su una triplice proiezione: ancora una volta Anger, senza davvero rendersene conto, aveva aperto a quello che molto dopo avremmo iniziato a definire come cinema espanso prima e poi come videoarte. Non è difficile del resto capire perché il mondo dell’arte abbia così a lungo ignorato o rimosso Anger dai suoi spazi ufficiali: la visione senza compromessi di Anger non assicurava nessuna restituzione economica al mercato dell’arte, e certamente per molti anni il suo profilo di omosessuale “satanista” non incontrava i favori dell’art-world fondamentalmente borghese, allora come oggi.

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Inauguration of the Pleasure Dome, 1954-2014, Single-channel split screen digital projection, courtesy Sprueth Magers

In buona compagnia con altri giganti come Harry Smith e Jack Smith, il percorso di Anger è quello di un pioniere fedele alla sua arte che, anche se fortemente caratterizzata da segni così precisi, è tuttavia paradossalmente capace di inglobare elementi assai distanti da essa. Negli anni Sessanta Anger torna in America per restarci definitivamente, e alla sua sperimentazione visionaria spetta anche il merito di aver fatto intravedere per la prima volta il potenziale di una colonna sonora pop. Una soluzione per noi oggi in fondo così scontata, quella di una soundtrack composta da tracce di brani celebri, uno in fila all’altro, che, per esempio, abbiamo apprezzato in tanti titoli di Tarantino. Fu Kenneth Anger, nei 31 minuti di Scorpio Rising (1963) ad anticipare l’evoluzione poi celebrata dai beatlesiani e lesteriani Tutti per uno (1964) e Help! (1965): un film sostenuto da una playlist composta da una decina di brani di Little Peggy March, Elvis Presley, The Randells, The Angels, Bobby Vinton, Ray Charles, The Crystals, Kris Jensen, Claudine Clark, The Surfaris. Ed è sullo sfondo di quelle note, che un qualsiasi ragazzo negli anni Sessanta poteva ascoltare accendendo la radio, che si svolge davanti allo spettatore l’anarchico collage di immaginario subculturale e queer, facendo della musica una sovrastruttura drammatica e insieme ironica-erotica, mostrando i garage e le camerette degli Hell’s Angels, tra cromature, svastiche, divise leather, tatuaggi, teschi, muscoli e rituali di vestizione che grondano di omoerotismo e ai quali Anger fa coincidere più o meno subliminalmente una filigrana di segni esoterici. In questo senso, Scorpio Rising è davvero un progetto che al tempo non trovava eguali né nel mondo del cinema né in quello dell’arte, semplicemente perché come tutti i suoi film precedenti andava liberamente verso la costruzione di formati che sarebbero stati ufficialmente intesi solo anni o decenni a venire, come i videoclip e i contemporanei fashion film.

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Kenneth Anger sul set con una motocicletta e uno scheletro vestito da Tristo Mietitore, 1963

In Scorpio Rising e nel successivo Kustom Kar Kommados (1965) Anger feticizza come nessun altro lo sguardo che si posa su qualsiasi oggetto o parte del corpo maschile, insinuando, tramite i colori e le stesse icone glorificate dalla Pop Art, che sotto sotto, in fondo, si celano splendidi sotterranei dalle porte segrete che accolgono solo gli iniziati di una più profonda visione, fatta di estremi che però incredibilmente convivono: dal Ku klux klan all’attivismo contro la guerra in Vietnam, da Ecate a Mickey Mouse, dall’egittologia agli ufo. In questo senso il capolavoro maledetto di Anger coincide proprio con Lucifer Rising, del quale iniziò le riprese già nel 1966-67: doveva essere l’opera più completa attorno al culto luciferino, ma come sempre in Anger l’aneddotica ci porta in direzioni e luoghi che hanno dell’incredibile. Gran parte del materiale originale fu rubato da uno dei suoi collaboratori nonché attori della pellicola, il musicista e criminale Robert Kenneth Beausoleil, “Bobby”, che lo avrebbe consegnato a Charles Manson, il quale tentò di rivenderlo ad Anger che però non accettò il ricatto. Nel frattempo, Beausoleil (che rivelò di aver nascosto i reel rubati sotto delle rocce nella Death Valley…) nel 1969 si macchiò di uno dei delitti riconducibili alla Famiglia Manson, uccidendo l’insegnante di musica Gary Hinman. Processato e condannato all’ergastolo, Beausoleil in una sorta di gesto di redenzione ha provveduto alla composizione della colonna sonora originale di Lucifer Rising (oggi diventata opera di culto e che detiene anche il primato di prima colonna sonora registrata in un carcere), scalzando quella che il più famoso Jimmy Page, anch’egli appassionato di esoterismo, aveva composto per il film di Anger ma poi mai ufficialmente utilizzata dal regista.

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Kenneth Anger, Lilith (Marianne Faithfull), 1970-81, C-Print, courtesy Sprueth Magers

Appare incredibile ancora oggi questa abilità di Anger di aver attirato a sé profili tra i più disparati durante la sua carriera, coinvolgendo in progetti senza alcun vero budget personalità come Mick Jagger, Page, ma anche figure del tutto straordinarie come Marjorie Cameron e Anaïs Nin, Marianne Faithfull e molte altre, utilizzando queste icone e nuove muse con modalità che trascendono completamente dal rapporto tra regista e attori e anticipando di fatto l’uso di icone come citazioni del mondo reale, così come faranno negli anni Novanta artisti come Matthew Barney.
Così Kenneth Anger è diventato un riferimento assoluto per alcuni tra i più importanti registi della New Hollywood: Martin Scorsese fu probabilmente il primo a trarne spunto, incarnando nei suoi film la figura del ribelle americano glorificato, quello che Anger definiva «lo specchio della morte messo dinnanzi alla cultura americana», una definizione che perfettamente sintetizza capolavori come Taxi Driver (1976). Ma sono davvero tanti i registi che più o meno consapevolmente hanno guardato ad Anger, chi con veri e propri omaggi, come Kathryn Bigelow in The Loveless (1981), o altri come David Lynch che pur dovendo tantissimo a Anger ha sempre evitato accuratamente di ammetterne l’influenza. Oggi, una generazione ancora più giovane di autori come Gaspar Noé e Nicolas Winding Refn ha studiato i lavori di Anger nelle scuole di cinema e nelle università, scoprendo le sue opere in formati vhs o dvd; da prodotti per iniziati sono diventati sempre più fonti dalle quali attingere, se non veri e propri tesori da saccheggiare con una certa leggerezza. Impossibile pensare ai film di Refn senza il filtro di Anger, carichi di citazioni letterali, talvolta ridotti quasi a superficiali estetismi. In questo c’è tutta la fortuna e la sfortuna di Anger: aver talmente anticipato il linguaggio del fashion film, del videoclip, mentre paradossalmente inseguiva la direzione meno commerciale e più ermetica possibile, mentre oggi sarebbe impossibile pensarli al di fuori dello sguardo feticizzante della moda e dei commercial (basti pensare allo spot Hennessy X.O: Odyssey girato da Refn nel 2016).

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Kenneth Anger fotografato da Floria Sigismondi, 2019

Fu interessante e in parte triste nel 2010 vedere come Anger, già ottantatreenne, acconsentì a girare il fashion film per il brand Missoni (Missoni by Anger), infrangendo così dopo tanti anni una sorta di voto contro la commercializzazione della sua opera. Ma le scelte dell’uomo, così come quella di essere di fatto vampirizzato dal sistema delle gallerie che solo negli ultimi dodici anni hanno iniziato a “vendere” gli still dai suoi film, sono l’epilogo di una vicenda umana e di un patto faustiano che Anger ha saputo tuttavia mantenere in equilibrio per un’intera esistenza. È ancora il mondo della moda ad averci fornito una delle ultime e quasi testamentali apparizioni del maestro: nel 2018 la rivista System Magazine in collaborazione con Gucci realizzò un fashion film che rappresenta in realtà anche un breve ma ricchissimo ritratto e intervista a Kenneth Anger: ammantato da sontuosi abiti disegnati da Alessandro Michele, l’ultra-novantenne mago si aggira tra gli spazi di un edificio del tutto angeriano: il leggendario Chateau Marmont, teatro di tante vicende narrate nei due volumi di Hollywood Babilonia. Il film, girato con grande stile da Floria Sigismondi, ha il merito di donarci un’ultima rappresentazione malinconica e insieme divertita di un colosso delle arti visive e della sperimentazione, ancora completamente cosciente di sé. Fino alle sue ultime apparizioni pubbliche in discussioni e celebrazioni del suo lavoro, come solo i grandi artisti fanno, Anger ha messo in discussione il suo intero essere, il suo viaggio spirituale. Ciò che ha cercato di emulare del suo punto di riferimento Crowley lo ha interpretato fedelmente per più di mezzo secolo, vivendo grazie al coraggio delle sue convinzioni. Qualunque siano state le conseguenze dovute all’aver imboccato quel “sentiero della mano sinistra”, Kenneth Anger le ha pagate pienamente.