Camera Obscura

Hayao Miyazaki. La ferita dell’airone



Un ricordo indelebile dell’infanzia di Miyazaki risale al 19 luglio 1945, quando i bombardamenti raggiunsero la città di Utsonomiya, dove l’anno precedente la sua famiglia si era trasferita da Tokyo in una grande tenuta di campagna vicina all’azienda del padre e dello zio, specializzata nella costruzione di componenti per aerei da guerra. Il regista, che allora era un bambino di quattro anni e mezzo, ricorda il cielo infuocato nel cuore della notte, il piccolo camion aziendale dello zio, sul quale salì assieme ai genitori e al fratello maggiore Arata, le strade circondate dalle fiamme, e infine l’arrivo di un gruppo di persone in cerca di riparo.

«Non ricordo benissimo questo episodio, ma sono certo di avere sentito la voce di una donna che diceva: “Per favore, fateci salire”. Non so se sia un ricordo mio o se l’ho sentito dai miei genitori ma ho come l’impressione di averlo visto. Era una donna con una bambina, qualcuno del quartiere che correva verso di noi dicendo: “Per favore, fateci salire!” Ma il veicolo proseguì. E quella voce si è insediata nella mia testa, come è tipico degli eventi traumatici.»
(Susan Napier, MondoMiyazaki, Dynit 2020, p. 31)

Sappiamo che Arata ricorda l’episodio in modo differente, parlando non di una donna ma di un vicino di casa, e di un camion troppo piccolo per poter accogliere altre persone. A prescindere da come si sono svolti i fatti, tuttavia, il racconto di Miyazaki e le sue riflessioni sono state oggetto di attenzione da parte di biografi e studiosi, che hanno evidenziato il senso di colpa del bambino per il benessere dalla sua famiglia in anni di guerra e miseria, il risentimento contro i genitori, accusati di non aver prestato soccorso, e ancora la curiosa comparsa della donna con la bambina, un probabile ricordo di copertura considerato da alcuni sintomatico del ruolo che nei suoi film avrebbero assunto le figure materne e femminili. Un ultimo elemento degno di nota riguarda il pensiero che le cose avrebbero potuto andare diversamente, connesso all’idea di una responsabilità che in modo paradossale ma significativo investe il bambino: «Se fossi stato genitore e mio figlio mi avesse detto di fermarmi, io credo che mi sarei fermato» osserva Miyazaki. «Ci sono molte ragioni per cui non si poteva fare… ma penso comunque che sarebbe stato meglio se avessi detto loro di fermarci. O se l’avesse detto mio fratello maggiore.»

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Nel nuovo film di Miyazaki, Il ragazzo e l’airone, questo tragico vincolo di responsabilità lega il ragazzo protagonista alla madre, che nella prima scena, ancora bambino, tenta invano di soccorrere durante un incendio divampato nel cuore della notte nell’ospedale in cui si trova la donna. Dopo la morte della madre, Mahito si trasferisce con la sua famiglia in una grande tenuta di campagna, verosimilmente modellata sui ricordi autobiografici di Utsonomiya. Il padre si è risposato con la sorella minore della defunta moglie, ma il ragazzo continua a sognare la madre avvolta dalle fiamme. Il processo di rielaborazione creativa delle memorie dolorose della propria infanzia ha insomma spinto il regista ad ambientare a Tokyo la “scena primaria” del trauma, e soprattutto a trasformare la donna del suo ricordo nella madre di Mahito, richiamandosi anche ai ricordi dell’immediato dopoguerra, quando sua madre malata di tubercolosi trascorse lunghi periodi di ricovero in ospedale. Miyazaki non si è però limitato ad amplificare in questo modo l’effetto del trauma e il senso di colpa del ragazzo per la madre che non ha saputo soccorrere: scegliendo di rappresentare Mahito come un ragazzo di undici anni ha anche posto le condizioni perché il suo alter ego fosse pronto a superare il dolore della propria infanzia, affrontando un viaggio che segna per lui l’ingresso in una nuova età della vita.

Nell’immensa tenuta di campagna Mahito abita una cameretta isolata, nella quale la sollecitudine delle sette domestiche rischia di trattenerlo in balia dell’angoscia infantile per proteggerlo da minacce più oscure, che coinvolgono l’imminente parto della matrigna e una strana torre abbandonata, dove un tempo abitava il prozio. Il ragazzo è quieto e taciturno, ma nel suo sguardo corrucciato e nella sua stanchezza è facile indovinare l’accumulo di emozioni che faticano a manifestarsi, come il risentimento nei confronti del padre industriale e la vergogna della propria estraneità rispetto ai compagni di scuola, appartenenti a famiglie di estrazione sociale molto più umile. Dopo una lite coi compagni, rimasto solo, Mahito si colpisce la testa con una pietra: è il momento in cui la sua rabbia trova per la prima volta espressione, e come negli antichi riti di iniziazione dà origine a una ferita simbolica. Durante la convalescenza, poi, il ragazzo trova un romanzo che la madre gli ha lasciato in dono, E voi come vivrete? (1937) di Genzaburō Yoshino, con una dedica che dal passato osa evocare il futuro – «Quando sarai grande» –, convocandolo dunque nel momento presente.

Lo spirito guida del viaggio che attende Mahito è un airone cenerino, emissario dell’altro mondo nel folklore giapponese, che al suo arrivo nella casa scende in volo verso di lui. L’ultima scena di Si alza il vento (2013) vedeva la flotta dei caccia giapponesi destinati alla morte salire nell’immensità del cielo, fino a diventare i tanti puntini luminosi di uno stormo. Dieci anni dopo, questo uccello solitario appare come il messaggero di un nuovo cielo deserto, sgombro dagli aerei come dalle contraddizioni che nel film precedente opponevano ai sogni creativi del progettista la realtà distruttiva della guerra. Il tempo non ha dissolto le tensioni e il dolore, ma ne ha depositato i resti in una dimensione subliminale, che dall’oscurità dell’inconscio, per non sommergere e schiacciare il protagonista, chiede di essere integrata nella coscienza. Quando Mahito comincia a conoscere l’airone e impara a tenergli testa, scopre così che in realtà si tratta di una creatura ibrida, che unisce in sé l’ambiguità del daimon e del trickster, e sotto le spoglie animali svela grotteschi tratti antropomorfi. Ed è ancora una volta una ferita simbolica a stringere il loro legame nel passaggio all’altro mondo: il ragazzo colpisce l’airone con una freccia incantata dalle sue penne, e in seguito sarà lui stesso a medicargli la ferita, consolidando un vincolo reciproco più forte dell’ingannevole rivalità.

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Il mio vicino Totoro, Hayao Miyazaki, 1988
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La tomba delle lucciole, Isao Takahata, 1988

L’esperienza dei rapporti che uniscono gli esseri viventi rappresenta uno dei principali aspetti del viaggio iniziatico. Nel mondo sotterraneo Mahito impara a cacciare e a sfamare, esponendosi anche al rischio di diventare una preda, osserva i legami di interdipendenza tra specie animali diverse e comprende la necessità di onorarli mediante alleanze e riti. Un viaggio diurno in barca attorno all’isola dei morti, poi la visione delle anime che spiccano il volo per rinascere nel cielo notturno, estendono questa riflessione agli elementi naturali e alla sfera del sacro. Miyazaki adotta qui un sincretismo che coniuga molti riferimenti iconografici, dall’antichità classica ai più celebri film dello Studio Ghibli, dalla pittura europea alla letteratura per l’infanzia, ma le fondamenta della storia sono radicate nella tradizione fiabesca giapponese, come mostra in particolare il rapporto tra Mahito e le varie figure femminili che lo accompagnano nel suo viaggio.

Il ragazzo sprofonda nell’altro mondo assieme all’airone e a una domestica, in una sala circolare della torre del prozio dove sul pavimento è raffigurato un grande sole (simbolo femminile nella mitologia giapponese). Mahito sta inseguendo la madre defunta e la matrigna scomparsa misteriosamente, e l’impulso della sua ricerca consiste nell’ingresso in un luogo proibito, che nel corso del viaggio assume varie forme e connotazioni: dallo stretto passaggio ai piedi della torre all’imponente tomba di pietra protetta dal cancello d’oro, fino alla stanza del parto, sulla quale è stato posto un esplicito tabù. Come attestano gli studi dello psicoanalista Hayao Kawai, nelle fiabe giapponesi il motivo della stanza proibita riguarda tipicamente personaggi maschili che rompono un divieto legato a figure femminili semidivine, destinate a scomparire a seguito dell’infrazione, mentre nelle fiabe occidentali i ruoli sono spesso rovesciati e la conclusione molto diversa. Assieme ad altri motivi caratteristici, questa situazione è interpretabile come traccia di un processo di sviluppo psichico che non culmina con l’emergere della coscienza, ma si fonda su un’immersione nell’inconscio. Prima del ritorno alla realtà quotidiana, l’incontro soprannaturale e la visita all’altro mondo rappresenterebbero l’esperienza di una totalità in cui le differenze coesistono armoniosamente, e possono dunque essere integrate.

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Arnold Böcklin, L’isola dei morti, 1883
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Giorgio De Chirico, La torre rossa, 1913
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René Magritte, La freccia di Zenone, 1964

Nei suoi rapporti col femminile, Mahito compie un percorso di formazione che lo porta a essere un aiutante al seguito della pescatrice Kiriko, poi un avventuriero tanto coraggioso quanto improvvido, che ha bisogno dell’aiuto della maga Himi per non soccombere, infine un eroe che rinuncia a uscire dalla torre per riportare in vita la matrigna Natsuko. È interessante notare come Mahito non si trovi solo a confronto con diversi volti del femminile, ma anche con figure che assumono ruoli ed età differenti nelle varie dimensioni in cui è ambientata la storia. L’integrazione del femminile implica infatti per il ragazzo un’esperienza della molteplicità e un percorso di formazione del sé basato in primo luogo sui rapporti interpersonali, non sull’affermazione identitaria dell’io. Verso la fine del viaggio, ciò gli consente di affrontare a viso aperto l’ambivalenza emotiva di amore e odio e di riconoscere anche in Natsuko sua madre, maturando una consapevolezza della figura materna come archetipo che travalica i legami di sangue. L’elaborazione del lutto per la morte di sua madre lo porta quindi a considerare la sua scomparsa sotto una luce diversa, mentre il commovente abbraccio con Himi gli farà sentire l’amore sincero della ragazza che in un altro tempo diventerà sua madre, più forte di qualsiasi sofferenza.

Al divieto di entrare in una stanza, in alcune fiabe giapponesi, corrisponde però il divieto di abbandonarla. Allo stesso modo, l’ultima prova a cui è sottoposto Mahito è una difficile fuga dall’altro mondo che sta collassando, possibile solo per chi ritrova la strada e la forza di assumere la responsabilità della propria vita. Il ragazzo-eroe si destreggia ora assieme all’airone in un viaggio labirintico e frammentario, fra distorsioni spaziali, visioni oniriche e paradossi temporali. Si mette alla ricerca di Himi, rapita dai parrocchetti guardiani della torre, e dopo averla trovata affronta il fantasma del prozio, sovrano del regno. Rifiuta l’eredità da discendente che gli viene proposta, infine porta con sé solo una piccola pietra raccolta da terra. Una densa simbologia coinvolge in questa decisione l’immagine della torre e quella delle pietre, connesse con la ferita simbolica di Mahito e col potere demiurgico del prozio. La torre è un luogo spettrale, abbandonato dagli uomini perché associato a disgrazie e maledizioni, ma prima ancora è un pilastro divino che funge da raccordo fra dimensioni differenti e garantisce la loro stabilità. Rifiutando l’offerta del prozio, Mahito rinuncia a prendere il comando di un mondo in rovina, ma portando con sé una singola pietra dimostra di essere pronto a dare il proprio contributo per un’altra creazione, o almeno a custodire il ricordo di ciò che altrimenti, nel passaggio al suo mondo, sarebbe destinato all’oblio.

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Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, illustrazione di John Tenniel, 1865
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Biancaneve e i sette nani, Walt Disney, 1937

Il volo degli uccelli torna a riempire il cielo nella splendida scena finale. Più volte, nel corso del film, la loro difficoltà a volare, che è propria anche delle anime in procinto di rinascere nel mondo superiore, è messa in relazione a ferite e a squilibri profondi dell’ecosistema. Come scopre Mahito, infatti, la convivenza di specie diverse si è gradualmente trasformata nell’altro mondo in una disperata lotta per la sopravvivenza, con pellicani che hanno cominciato a perdere i propri istinti naturali e parrocchetti che sono diventati ghiotti consumatori di carne umana. L’intuizione di una torre “a cavallo fra i mondi”, che può essere vista come una metafora dell’arte, ci induce allora a riflettere sulle cause di questa situazione di crisi, e in particolare sul legame di questo mondo parallelo, che a tratti sembra il volto decadente di una lontana utopia, con un’effettiva realtà di guerra.

Ripensando alle riflessioni di Miyazaki sul ricordo doloroso della propria infanzia, sembrerebbe paradossale guardare al bambino come al soggetto di una responsabilità, specialmente in un mondo di adulti distratti, avidi o fanatici, e in un paese posseduto da fantasmi distruttivi. Miyazaki evoca con sguardo impietoso la delusione di Mahito nei confronti dell’indifferenza del padre, troppo concentrato sul proprio status e sui propri interessi per comprendere il suo dolore, e sembra fare in modo che il ragazzo aspetti di essere finalmente visto da lui per sbattergli in faccia la porta dell’altro mondo, prima della riconciliazione finale. Pensando al viaggio che il bambino compie per diventare un ragazzo, tuttavia, è naturale vedere in questa assunzione di responsabilità, che all’inizio della storia è un vincolo doloroso, il segno benaugurante di un futuro migliore, affidato a persone capaci di confrontarsi col passato e coi propri demoni, o di attraversare un labirinto di contraddizioni come orfani sperduti nelle antiche fiabe di magie, alla ricerca della vita.

Due riedizioni moderne del romanzo di Edogawa Ranpo, La torre spettrale (1939), e del racconto di Kenji Miyazawa, Un ristorante pieno di richieste (1924)
Genzaburō Yoshino, E voi come vivrete? (1937)

Il titolo originale del film, Kimi-tachi wa dō ikiru ka (E voi come vivrete?), è anche il titolo del romanzo che Mahito ha ricevuto in dono dalla madre. Scritto in un’epoca di guerra, alternando la storia di alcuni studenti di scuola media a riflessioni su vicende storiche e insegnamenti morali, il libro di Genzaburō Yoshino mirava a infondere in ogni ragazzo la voglia di realizzare il proprio destino, riconoscendo al contempo quanto esso fosse legato a quello delle altre persone in una trama di relazioni che si estende all’intero mondo, all’intreccio delle culture e alla totalità delle epoche. È commovente pensare che questo libro ricco di digressioni, lettere e dialoghi, in un’età di morte, ha parlato del valore della vita a molti studenti, compreso un ragazzo di nome Hayao. Ispirandosi alle emozioni provate da lettore e all’idea di lasciare un dono al nipotino, prima di passare all’altro mondo, Miyazaki ha creato con Il ragazzo e l’airone una delle sue opere più ambiziose, complesse ed evocative, attingendo con coraggio e generosità al linguaggio universale del sogno e del mito. Scavata e attraversata la ferita, alla fine del viaggio, il respiro della vita pronta a rinascere può accogliere la gioia del volo ritrovato.