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Da 5 Bloods di Spike Lee: fare pace col passato

Mentre la coscienza dell’America è scossa dalla furia iconoclasta contro i simboli di quel razzismo che è peccato originale della Nazione e ferita ancora costantemente riaperta, latente piaga mai sanata e volutamente ignorata da un establishment che preferisce voltare la testa, negando l’evidente complicità nella conservazione dell’odierno status quo, il cinema di Spike Lee si dimostra nuovamente bussola intellettuale ideale per comprendere il fermento del Paese.

Spike Lee

Il nuovo Da 5 Bloods – Come fratelli, uscito a due anni dal fortunato BlacKkKlansman, segue la scia del film precedente inserendosi in un più ampio intento di riscrittura della storia afroamericana per mano dell’intellighenzia nera, una riappropriazione del passato collettivo per rileggerlo in chiave alternativa rispetto a quella canonica dell’industria culturale mainstream. Si tratta di una coscienziosa azione intellettuale che non fa mistero dell’intento politico e contestatario a essa connessa, ma rifiutando piuttosto il facile revisionismo, consacra e onora eventi e personaggi poco noti, se non dimenticati, anche all’interno della comunità stessa, al fine di costruire una nuova mitologia nera di modelli che travalichino la color line facendosi esempi di una possibile alterità statunitense. È questo l’intento che accomuna romanzi come Non dimenticare chi sei (Yaa Gyasi, 2016), La ferrovia sotterranea (Colson Whitehead, 2016), i saggi Al calore di soli lontani (Isabel Wilkerson, 2010), Un conto ancora aperto o Una lotta meravigliosa (Ta-Nehisi Coates, 2014 e 2018) e film quali The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo (Nate Barker, 2016), Mudbound (Dee Rees, 2017), Marcia per la libertà (Reginald Hudlin, 2017), Harriet (Kasi Lemmons, 2019) o gli ultimi lavori di Lee.

Spike Lee

Da 5 Bloods è difatti il primo film a raccontare l’impegno degli afroamericani in Vietnam, celebrando quel 32% dei soldati statunitensi di stanza nello stato asiatico sino ad oggi ingiustamente esclusi dalla cultura popolare nazionale. Prima d’ora infatti Hollywood aveva affrontato il disastroso conflitto bellico dall’esclusivo punto di vista maggioritario, facendo di combattenti o reduci bianchi gli unici simboli e vittime di quell’american way of life irrimediabilmente tradita.

Lee aveva già compiuto un’operazione simile nel 2008 con lo sfortunato Miracolo a Sant’Anna, sui Buffalo Soldiers impegnati durante la Seconda Guerra Mondiale contro il nemico nazifascista in nome di valori e diritti di cui i neri non godevano su territorio nazionale, contraddizione simile a quella dei militari impegnati nei primi Duemila in Afghanistan e Iraq. Da 5 Bloods riprende il medesimo impianto, sviluppando però un discorso ben più maturo e direttamente connesso all’oggi, ambientando la vicenda nel presente, in una Paese ormai colonizzato culturalmente dall’America (il club Apocalypse Now, Pizza Hut, McDonald’s) e in cui la guerra è un lontano ricordo che vive solo nella memoria di ex-combattenti e dei familiari delle vittime. Diversa è invece la condizione dei quattro veterani protagonisti, lì recatisi per compiere un’ultima missione: rintracciare il corpo del quinto commilitone Norman e recuperare un tesoro allora nascosto al fine di distribuirlo alla comunità nera a guerra conclusa. Ognuno porta il trauma di quell’episodio nefasto per sé e per il Paese che rappresentavano, una guerra immorale combattuta – ancora una volta – per diritti a loro negati da una patria che non li riconosceva come propri cittadini. Tutti convivono con i loro fantasmi, cercando di farci conti che inesorabilmente non tornano mai. Esemplificativa, in questo senso, la scelta di non ringiovanire artificialmente i personaggi nei flashback – dunque veri e propri ricordi, più che estrapolazioni narrative da un presunto flusso pregresso – a sottendere che dall’esperienza bellica non si esca: essa resta un indelebile marchio che segna il corpo come lo spirito di chi l’ha vissuta. Similmente fa anche la colonna sonora. L’impiego di classici della black music anni Settanta (in particolare Marvin Gaye e Curtis Mayfield) sul continuo alternarsi dei piani diegetici, sottolinea ulteriormente quanto quel trauma sia ancora vivo nei quattro compagni, accompagnandoli nella ricerca di quanto lasciato lì anni addietro, sé stessi compresi, incapaci come sono altrimenti di affrontare il presente, coi problemi e le sfide che la vita pone loro innanzi.

Come sempre, infatti, il viaggio non è mai un semplice spostamento da una meta all’altra, ma si fa processo di esplorazione esterna che, compiuto consciamente, diventa indagine sull’interiorità del viaggiatore medesimo. Anche in Da 5 Bloods, che non a caso cita a piene mani il capolavoro di Coppola ambientato in Vietnam, i quattro camerati si trovano a esperire nuovamente l’oscurità del proprio io, ancora eternamente combattuto tra il bene per sé e quello per gli altri. Il film si fa così ennesimo realistico ritratto leeano della pluralità di voci e pensiero della comunità afroamericana, di cui evidenzia pregi e difetti sdoganandola dalla diffusa immagine stereotipata di insieme massificato e unilaterale.

Spike Lee

A dar vita al contrastante dialogo interno è l’oro che i quattro vanno cercando, MacGuffin hitchcockiano che funge da pretesto rivelatore delle reali intenzioni dei protagonisti. Smarrita la coscienza di gruppo che li accomunava – impersonificata da Norman, non a caso deceduto sul campo di battaglia e lì abbandonato, mostrato più volte intento a frenare i rabbiosi impeti dei ragazzi ed educarli alla storia e al pensiero nero – ognuno ha le sue ragioni per non rispettare il patto col caduto e impiegare la propria parte di bottino per fini personali. È la stessa sete di ricchezza che travolge Humphrey Bogart ne Il tesoro della Sierra Madre, portandolo a sospettare di tutti e cercare di accaparrarsi una parte maggiore di quanto stabilito. Nel film di Lee questa brama si fa metafora dell’America trumpiana, dove avidità e prepotenza stanno pericolosamente minacciando il già precario equilibrio sociale nazionale – non a caso il veterano Paul, il più colpito dalla febbre dell’oro, è un convinto sostenitore del Presidente. La seconda parte di Da 5 Bloods diventa allora un gioco al massacro, che mina il senso di “famiglia, amicizia e fraternità” appena ritrovato dai commilitoni. Si manifesta così la sconfitta degli alti ideali della causa nera degli anni Settanta, ormai cancellati dal sistema fagocitante del sogno a stelle e strisce che ha inglobato anche le voci critiche, eliminando quelle non assimilabili.

Ma non tutto è perduto, pare dire Spike. La battaglia finale, che vede i superstiti combattere uniti per salvarsi da morte certa per mano di intermediari doppiogiochisti, è il segno di un indissolubile legame di sangue che supera le divergenze e i tempi per farsi vero unico motore della fratellanza nera. Lo dimostra bene la donazione a una sezione del Black Lives Matter del denaro del veterano Eddie, il solo a credere ancora nei valori e negli ideali storici della sua comunità, ponte ideale tra passato e presente finalmente conciliati in nome di un’America che, come scriveva il poeta nero Langston Hughes in Let America Be America Again (1935) citato in chiusura del film, “Non è mai stata America per me/ Eppure sono pronto a giurarlo/ America sarà”.

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