Il gioco di ruolo (GDR, o in inglese Role Playing Game abbreviato in RPG) è un gioco nel quale ogni giocatore assume i panni di un personaggio specifico e, tramite la conversazione, l’uso di regole prestabilite e l’inserimento in un contesto geopolitico definito ambientazione, dà vita a una storia. Ciò che avviene nello scambio dialettico fra i giocatori e il master (ossia colui che tiene le redini delle sessioni di gioco) è una vera e propria esperienza narrativa, fatta di incipit, svolte, climax, cliffhanger e conclusione.
E cosa si è appena descritto in queste poche righe se qualcosa che somiglia alla stesura di un romanzo, di un racconto, di una sceneggiatura?
In questa serie di articoli dal titolo Role Play Write, andremo a parlare di come il GDR abbia diversi elementi caratterizzanti in comune con la scrittura creativa, e di come la pratica dell’uno possa influenzare l’altra (o viceversa).
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In questo articolo, un dialogo con lo scrittore italiano Vanni Santoni.
David: Negli ultimi anni, complici serie TV come Stranger Things e The Big Bang Theory, ma anche il grande ritorno di Magic, interessi che tradizionalmente erano appannaggio dei nerd sono diventati mainstream – e su questi concetti di “nerd” e “mainstream” si sofferma anche Leonardo. Mentre content creator parlano delle loro esperienze di gioco, il pubblico dei GDR si sta ampliando e forse anche noi stiamo cavalcando l’onda parlandone.
Se una volta il pubblico durante le campagne era protetto, erano tutti amici, ora che se ne può parlare “fuori” perché il gioco di ruolo è social, si possono condividere le avventure con più persone. Questo cambia la storia che si racconta con i GDR? Il fatto cioè che si sia passati da un pubblico ristretto, quasi clandestino, a uno mainstream, ha cambiato anche il modo in cui si raccontano le storie?
Bella domanda, molto interessante la questione. Io personalmente sono rimasto abbastanza stupito nel vedere la diffusione, il successo delle dirette su Discord, su Twitch di partite di GDR, perché anche quando si giocava – e si giocava da grandi appassionati – era più o meno opinione comune che i GDR fossero bellissimi da giocare ma noiosi da vedere dall’esterno. Tant’è che se qualcuno diceva «Posso venire a vedere?» gli si diceva sempre «Fa’ un personaggio, vieni, gioca, altrimenti non venire». Evidentemente non era così: una partita può avere interesse anche per chi la guarda e non solo se questo spettatore è a sua volta un giocatore e quindi si immedesima in quello che succede.
In presenza di spettatori, non c’è dubbio che il contenuto cambi in qualche misura, magari in maniera involontaria. Non ti dico che chi fa una partita di GDR sapendo di essere filmato prepara i propri comportamenti come un attore o si forza a comportarsi in modo diverso, ma è indubbio che la presenza di un pubblico esterno implica un cambiamento che potremmo dire proprio ontologico, nel senso che non c’è più soltanto il giocatore che interpreta il personaggio assieme agli altri personaggi e al master, ma c’è anche il giocatore che interpreta il giocatore agli occhi di un pubblico. C’è quindi un doppio sdoppiamento.
David: Secondo te anche nel Master avviene un cambiamento?
Certo, anche da parte del Dungeon Master vengono più o meno consciamente messi in atto determinati accorgimenti. Come sappiamo, un buon Dungeon Master deve tentare di dare lo stesso spazio a tutti i giocatori: se c’è un giocatore ultra estroverso, che parlerebbe per ore, lui lo deve limitare; se c’è invece un giocatore un po’ più chiuso che prende meno iniziative lo deve coinvolgere, eccetera. Questo ha sempre fatto parte del modo di gestire una campagna, ma nel momento in cui c’è anche un pubblico emergonoquelle che potremmo definire nuove esigenze drammaturgiche: non voglio arrivare a definirle “esigenze televisive”, la spontaneità c’è ancora, ma un po’ si riduce per forza.
David: E cosa ne pensi di questo “revival”?
Mi stupisce abbastanza, perché sappiamo tutti che il giocare di ruolo è caratterizzato dal fatto che gli eventi dell’avventura o della campagna si svolgono nella mente dei giocatori, quindi assistere a una diretta in cui delle persone giocano è quello che noi potremmo definire un “meta-show”, perché noi non vediamo ciò che loro immaginano, bensì vediamo come reagiscono agli stimoli dell’ambientazione e degli altri e come interpretano i personaggi. Quindi si aggiungono livelli su livelli, il che dal punto di vista della natura di questi contenuti è decisamente interessante.
In ogni caso sono tutti segni della bellissima stagione che stanno vivendo i giochi di ruolo. Quando scrissi La stanza profonda, tra il 2015 e il 2017, già si annusava questo ritorno, ma penso che si sia andati anche oltre.

David: C’è stato un momento in cui sembrava dovesse essere la fine per i giochi di ruolo?
I giochi di ruolo furono dati per morti varie volte. Una prima volta quando ci fu l’avvento di Magic: the Gathering, e non solo perché il gioco di carte collezionabile fissò anch’esso un nuovo paradigma ludico… Quando Magic esplose, diventando a metà anni Novanta una vera mania, trovò il proprio primo ambiente di sviluppo in quei negozi, quelle librerie, quei circoli e quei gruppi di amici dove già si praticavano i GDR, e come è ovvio attinse il proprio primo pubblico proprio dai giocatori di ruolo. Va da sé che la gente ‒ soprattutto quella più adulta, e molti giocatori anni Novanta erano grandicelli ‒ non aveva tempo di fare due cose, e per un po’ si buttò su Magic, dando l’impressione che i GDR fossero in una fase di grave recessione. Qualcuno si spinse a ritenerli già una cosa del passato.
Tra l’altro ci fu anche un’azione estremamente forte a livello simbolico: la Wizard of the Coast, con i soldi guadagnati da Magic comprò la TSR, la Tactical Studies Rules. Comprò cioè la compagnia che produceva Dungeons & Dragons.
In quel momento finiva, anche per altre ragioni io credo, quel periodo di estrema prosperità e varietà di produzione che avevamo visto fra metà anni Ottanta e metà anni Novanta in cui c’erano decine di piccole case editrici indipendenti che producevano giochi ed espansioni di ogni tipo, inclusi nuovi sistemi di regole.
David: Mi soffermerei un istante sui mondi alternativi a D&D. Vuoi parlarcene un poco?
Oggi chi scrive per i giochi di ruolo tendenzialmente o inventa sistemi nuovi, che però cercano in genere di ridurre la quantità di elementi in campo, oppure lavora a sourcebook per D&D quinta edizione. Pensiamo ad esempio a due grandi successi italiani in kickstarter come Brancalonia o Inferno: pur originalissimi nei contenuti, a livello di regole non sono altro che dei sourcebook per D&D. In qualche modo si stava già andando verso un tentativo di unificare i regolamenti, anche perché uscivano nuovi sistemi che pur di essere diversi cambiavano qualcosina ma poi in fondo erano sempre ascrivibili al modello del d20 system, a quello della Chaosium o più tardi al modello White Wolf legato a Vampire: The Masquerade con l’uso dei d10. Probabilmente il pubblico aveva smesso di sentire bisogno di ulteriori nuovi sistemi, ed era finita anche l’epoca dei manualoni enciclopedici in stile Rolemaster, che avevano una tabella per qualunque situazione ma rallentavano il gioco e limitavano la componente interpretativa. Questa fine dell’ossessione per i nuovi regolamenti portò con sé dei vantaggi – ad esempio fece percepire il mondo dei GDR come meno “esoterico” e “difficile” – ma portò anche a una riduzione della creatività perché più cose diverse si fanno, anche se alcune magari sono poco utili, più è probabile che dalla sperimentazione nasca qualcosa di nuovo.
David: Torniamo alle varie “morti” dei giochi di ruolo. Eravamo rimasti al periodo di Magic.
Sì, ci fu un’altra volta, non molto tempo dopo l’avvento di Magic, in cui giochi di ruolo vennero dati per morti, e fu quando arrivarono i GDR online. Ricordo benissimo quando arrivarono i primi accessi ai primissimi server di Ultima Online. Era ancora tutto estremamente rudimentale ma era comunque sconcertante. Appariva proprio come un cambio di paradigma, anche molto emozionante… Poi, però, abbiamo visto com’è andata. L’ho scritto nella Stanza profonda e mi sa che lo dico anche nel film che è uscito su Rai 4, Nella tana del drago: se parlate con un giocatore di ruolo “in presenza” vi parlerà della scoperta dei giochi di ruolo come di un’esperienza psichedelica, qualcosa che gli ha aperto le porte della percezione, lo ha reso migliore, lo ha portato a conoscere nuovi mondi. Se invece vi rivolgete a qualcuno che viene da un periodo passato a giocare a World of Warcraft o altri MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Game) vi parlerà come un tossicodipendente da droghe pesanti che dice «No, voglio smettere assolutamente, non ce la faccio più, ho le occhiaie, anche l’altro giorno ho fatto l’alba, devo trovare un modo di smettere», perché evidentemente il gioco di ruolo online non solo non soddisfa determinati piaceri ‒ la socialità tipica dell’esperienza in presenza è ridotta al minimo ‒, ma in realtà funziona per micro stimoli dopaminergici, cioè il “grind”, il continuo “livellare”, il continuo abbattere mostri e accumulare oggetti o denaro (o quello che serve a seconda del gioco) non è diverso dal tipo di stimolo che ci danno, ad esempio, i social, dove a ogni una nuova notifica avvengono minimi stimoli dopaminergici che sono esattamente il modo in cui funzionano le sostanze che danno dipendenza.
I MMORPG sono strutturati in questo modo. Tutti sanno che in questi giochi devi prima “livellare”, oppure ti puoi comprare un personaggio già livellato e anche questo, se vogliamo, è una bella stortura. Ci sono proprio delle funzioni al loro interno che sono molto lontane dal tipo di soddisfazioni che invece il gioco di ruolo in presenza dà a un giocatore: l’incontro, l’interpretazione e soprattutto la dimensione immaginativa. In un GDR in presenza, la narrazione collettiva genera un mondo immaginario condiviso, che “esiste” nelle teste e nella memoria dei giocatori. In un gioco di ruolo online, il computer non svolge semplicemente le funzioni del master ‒ forse lo faceva, un poco, ai tempi in cui c’erano i giochi di ruolo testuali, che potrebbero essere visti come un’evoluzione telematica del play by mail ‒ ma, nel momento in cui c’è una grafica che ti fa vedere, in modo univoco, il mondo, i mostri, i PNG, ti fa vedere come siete tu e i tuoi eventuali compagni, evidentemente l’aspetto più importante del gioco di ruolo, quello proiettivo, decade. Dunque alla fine, anche se ci sono personaggi, ambientazioni, livelli, oggetti, abilità speciali, talenti, tutto quello che c’è in un gioco di ruolo, si tratta di qualcosa di differente. E infatti neanche l’avvento del gioco di ruolo online ha ucciso il gioco di ruolo: i GDR sono tornati con forza, e sono tornati anche nuovi sistemi più semplificati per far giocare la gente subito, senza perdersi troppo in sottigliezze di regolamento. Insomma, sono passati cinquant’anni e Dungeons & Dragons non è mai stato così in buona salute.

David: Assolutamente. Si può notare una differenza sostanziale tra chi inizia a giocare online e chi inizia a giocare con D&D. Per esempio i giocatori online parlano di farmare (ossia di accumulare esperienza combattendo contro nemici di livello inferiore prima di affrontare una sfida impegnativa) anche quando si gioca dal vivo. Quando bisogna affrontare il boss propongono di andare a farmare, una cosa che una persona vera non farebbe mai nella vita reale: incontrare altri nemici, con il rischio di farsi uccidere, per combattere il nemico più forte. Questa è una dinamica tipica del videogioco che si trascina all’interno del giocatore di ruolo e che trascina proprio fuori dalla sessione.
Si rompe di fatto la sospensione dell’incredulità perché tu non interpreti più ma sei portato per forza a ragionare da player e non da personaggio.
Esatto: è inconcepibile che per battere un nemico ne debba combattere altri. Non ha senso, dovresti essere pieno di forze e di energie per poter combattere un nemico.
Nicole: io vengo dal mondo del GDR testuale, che è una situazione particolare, nata dall’esigenza di molte persone di trovare un gruppo con cui giocare, vivendo in contesti periferici, ad esempio, quindi sono nate queste piattaforme online dove si cercava di fare la stessa cosa ma tra sconosciuti.
Parlando con Marta Zura-Puntaroni, con la quale ho fatto una chiacchierata sul GDR in quanto anche lei giocava su una di queste piattaforme, e collegandoci anche a La stanza profonda, il cui sviluppo della trama è proprio legato alla clandestinità del gioco ‒ cioè i protagonisti giocano in un seminterrato profondissimo che sembra esso stesso il dungeon ‒ sorge una domanda: com’è stato per te uscire dalla metaforica stanza profonda come narratore e poi come scrittore?
Tutte le metafore e tutte le chiavi allegoriche che sono state trovate per il titolo di quel romanzo ci stanno tutte, quindi sono contento di averlo trovato. Ma se l’ho trovato è perché i “fondi” di casa dei miei sono davvero dei sotterranei: è una casa di campagna, i fondi erano in comune con l’attigua casa dei nonni, quindi di fatto c’è un intero piano sotterraneo, molto vasto, con sgabuzzini, depositi, passaggetti, scale… Quando la gente nuova veniva a giocare di ruolo e doveva andare in bagno, capitava spesso che si perdesse nel buio… Dato poi che si era abbastanza in campagna, il dungeon era anche infestato di ragni, scolopendre, calabroni e simili, quindi negli anni, nel nostro gruppo, era nato tutto uno sketch sul fatto che stavamo giocando a D&D all’interno di un vero dungeon. Ecco perché La stanza profonda.
Inoltre sappiamo bene che nell’esperienza di quasi tutti i giocatori di ruolo, il luogo in cui si gioca è un garage, una taverna, una cantina, un luogo di questo tipo. Perché? Beh, intanto perché magari i giocatori sono un gruppo, mangiano patatine, lasciano briciole, fumano, bevono, quindi se vivi coi genitori – in genere si comincia a giocare da ragazzini – non è che puoi metterli in salotto… Inoltre se la partita va per le lunghe serve anche un po’ di isolamento acustico… Né possono essere messi in cameretta dato che occorre un tavolo grande, sei-sette sedie (se non di più). Ne consegue che il garage, la taverna, i “fondi”, insomma la stanza profonda, è il luogo naturale del GDR.
Questo è estremamente affascinante perché l’invenzione stessa di giocare di ruolo avviene dentro a un garage, anzi dentro a due garage: come racconto dettagliatamente nel libro, nei rispettivi garage Arneson e Gygax avevano inventato separatamente due degli aspetti dei giochi di ruolo destinati poi a fondersi in Dungeons & Dragons. Ma non solo: c’è proprio tutto un mito del garage come luogo inventivo, pensiamo a quella che è diventata poi la cultura della Silicon Valley. Chi inventava novità informatiche negli anni Ottanta molto spesso metteva il laboratorio nel garage, perché si trattava di persone che vivevano in villette suburbane piccoloborghesi, nelle quali il luogo dove si poteva metter su un piccolo laboratorio era inevitabilmente il garage. Se ci pensate, qualcuno che decide di mettersi a fare l’incisore o il falegname dove se lo costruisce il laboratorio se non nel garage o nei “fondi”?
La cosa però ancora più interessante è che Dungeons & Dragons significa letteralmente “sotterranei e draghi”, cioè anche il gioco stesso si svolge in un sotterraneo. Ora, sappiamo bene che un’avventura di D&D non deve per forza svolgersi in un sotterraneo e sappiamo benissimo che nel momento in cui si cambia ambientazione i dungeon possono diventare ben più rari: se siamo in un’ambientazione futuristica magari c’è un combattimento interno, ad esempio in un gioco cyberpunk può esserci una sparatoria all’interno del grattacielo di una multinazionale finanziaria, quindi, certo, un “interno”, ma comunque un luogo molto diverso da un dungeon. Eppure prima o poi al dungeon si torna sempre…
Nicole: Vero: il dungeon ha un fascino tutto suo, o sbaglio?
Il dungeon è un’ambientazione privilegiata per il gioco di ruolo, specialmente quando il gioco è di tipo più tattico che interpretativo, perché il dungeon, ovvero il sotterraneo, è una sorta di diagramma di flusso, cioè un luogo in cui gli eventi vengono organizzati secondo degli schemi maggiormente codificati che trasformano anche le sfide in scelte non semplicemente binarie però più controllate. Il livello di strategia è maggiore rispetto al gioco di ruolo che va nel totale “open space”, perché se giochi in open space non ti metti a immaginare ogni singola radura. Ad esempio, se i personaggi sono all’aperto per raggiungere una città lontana e vengono attaccati dai briganti, dai lupi o da dei draghi d’oro – fate voi – il Dungeon Master cosa fa? Improvvisa una radura, disegna sulla mappa un po’ di alberi, due rocce a seconda della conformazione del terreno e parte lo scontro. In un dungeon invece le stanze sono state tutte preparate dal master, ci possono essere le trappole, è un vero e proprio labirinto in cui sono valorizzati tutta una serie di aspetti sia tattici che esplorativi.
Nicole: La profondità in senso lato ha un significato psicologico?
Certo. Proviamo a pensare a dei sogni abbastanza frequenti, quelli ambientati in un labirinto o in una serie di stanze, o in un luogo familiare solo all’apparenza. O ancora al perché sono così evocativi gli interni di Escher, con quelle scale che portano in luoghi impossibili, o le carceri di Piranesi. Non è un caso se la cantina da piccoli ci fa paura: il sotterraneo è l’inconscio, la discesa, la catabasi, è evidentemente una discesa nel proprio inconscio. È in qualche modo un topos del fantastico fin dai tempi di Enea: si scende agli inferi e gli inferi tendenzialmente sono un sistema di caverne, un labirinto, un sistema di gironi, delle miniere come Moria…
David: Vorrei richiamare una cosa che Leonardo Ducros dice nel suo articolo. Mentre secondo me c’è una somiglianza fra il master di D&D e lo scrittore, lui sostiene che è più l’editor la figura che si avvicina al master, in quanto l’editor accompagna lo scrittore facendo le domande giuste ed estrapolandone il potenziale. Secondo lui il master ha questa funzione, mentre secondo me invece il master è più uno scrittore che porta al lettore qualcosa, un’ambientazione una trama eccetera. Qual è la tua opinione al riguardo?
A me sembra molto lontano da entrambe le figure e lo dico da rappresentante di entrambe. Volendo trovare un termine di paragone, si potrebbe parlare di un misto fra un arbitro e un regista teatrale d’improvvisazione, ma la verità è che il Dungeon Master è una figura del tutto specifica: un po’ imparentata con lo scrittore, un po’ con l’editor senza dubbio, ma anche un po’ affine a un arbitro, a un regista e anche a un giocatore perché anche lui gioca e si diverte – ad esempio interpretando i vari PNG. Ma il paragone con l’editor mi piace, perché ad esempio a volte il Dungeon Master assomiglia allo psicanalista e gli psicanalisti assomigliano molto agli editor, nel senso che tirano fuori qualcosa, compiono un’azione maieutica tale da far venire fuori un contenuto potenzialmente interessante, che è già lì da qualche parte ma fatica a uscire.
Però c’è anche il world building, c’è lo scrivere una campagna che funzioni e qua, sebbene le esigenze siano diverse, il master effettivamente allo scrittore gli somiglia molto: quando siamo in quella fase lì, è chiaro che io devo inventare un mondo, popolarlo, inventare dei personaggi rilevanti con cui i giocatori interagiranno. E quella è scrittura, pur al servizio di esigenze diverse.
Quanto fossero diverse tali esigenze, lo vidi bene quando scrissi il dittico di Terra ignota, che poi è diventato una trilogia con quel prequel che è L’impero del sogno… L’impero del sogno però è già uno urban fantasy, laddove Terra ignota invece era proprio un fantasy puro, era pensato per essere quasi una riflessione sugli stilemi classici del fantasy. Ecco, quando cominciai a scrivere Terra ignota pensavo che la mia lunghissima esperienza di Dungeon Master, peraltro sempre autore delle mie avventure, delle mie campagne e anche dei miei sistemi di regole, mi avrebbe reso semplicissimo scrivere ottocento pagine di fantasy. Per niente. In alcune cose sono stato facilitato, intendiamoci, ma erano in fin dei conti questioni minori: personaggi e situazioni che funzionano benissimo in un GDR non funzionano necessariamente bene anche in un romanzo. Inoltre il GDR ha più “tolleranza” per gli stereotipi, dato che possono esser messi lì per giocarci sopra, per parodiarli o anche per reinventarli in base alle azioni dei personaggi, mentre in un romanzo uno stereotipo… è solo uno stereotipo.

David: Secondo te è possibile tradurre in romanzo ciò che accade in una campagna di gioco di ruolo?
Il fantasy come genere funziona benissimo nei GDR perché è fortemente archetipico, radicato com’è in mito e fiaba, e molto presente nella nostra cultura popolare. Per capirci, chiunque riesce benissimo a immaginare dieci cavalieri medievali completamente diversi l’uno dall’altro. Prova invece a immaginare dieci samurai diversi: è un pochino più complicato. Prova a immaginare dieci agenti segreti MI6 diversi: ci riuscirai solo se sei un grande lettore di Ian Fleming… Per questo, nonostante siano state ideate migliaia di diverse ambientazioni, spesso anche bellissime, quelle fantasy continuano a essere le più giocate.
Lo stesso vale per i romanzi, ma un romanzo ha sempre bisogno di qualche grado in più di originalità, a prescindere dal genere. Facciamo un esempio. Se io ti dico: «Guarda David, tu sei un mago, Nicole tu sei una guerriera, c’è un drago qua dietro, sta appollaiato sopra a un pozzo nel quale è nascosto un tesoro»… Da qui si può già cominciare a giocare e ci divertiremmo anche! Questa stessa storia in un romanzo fantasy sarebbe invece del tutto risibile. Poi c’è il fatto che nel gioco di ruolo anche i giocatori inseriscono le loro idee e generano situazioni. Quindi anche una situazione di partenza abbastanza risaputa può svilupparsi in direzioni interessanti. In un romanzo, le direzioni interessanti deve pensarle l’autore, e farle tornare con le premesse…
Pensa per esempio a quello che è stato fatto nel film più recente di Dungeons & Dragons, L’onore dei ladri, Honor Among Thieves. Non dico che sia un granché, ma il concetto dietro è interessante. In quel film la si butta in vacca – e infatti è una commedia fantasy – per trasmettere il modo in cui i giocatori tendono a trovare soluzioni bizzarre o balorde al di là della serietà che il Dungeon Master mette nell’ambientazione. Questo è tipico dei giochi di ruolo ed è una delle cose più divertenti che avvengono durante le partite. Una buona campagna tiene insieme con una certa facilità l’epica e il cazzeggio, e a volte dalle sue premesse possono nascere situazioni memorabili in modo del tutto casuale, in base a cosa scelgono di fare i giocatori… E infatti, quando ho costruito il dittico di Terra ignota capii abbastanza alla svelta che avrei dovuto rifare tutto dall’inizio. Non ho usato praticamente niente dei materiali delle mie campagne e delle mie ambientazioni, anzi alla fine ho riscritto anche cose che in sé potevano pure andar bene, come il sistema magico, perché me ne occorreva uno più aderente alle esigenze del romanzo.

David: C’è una serie TV, La leggenda di Vox Machina, nella quale l’assurdità delle situazioni è l’elemento centrale. È una campagna in tre stagioni – credo ce ne sarà una quarta a breve – fatta da Critical Role, un gruppo di giocatori che sono anche doppiatori e attori. Tra l’altro la chierica è doppiata da Ashley Johnson, che dà la voce a Ellie nel videogioco di The Last of Us. Parliamo dunque di questo livello di attori. La leggenda di Vox Machina è una campagna basata su un party classico: ci sono il chierico, il barbaro, il ladro, il ranger. La campagna è anche molto cruenta, con draghi malvagi, morti continue, ci sono scene violentissime. Eppure persiste un elemento di cazzeggio costante, che è tipico delle sessioni di gioco e contrasta a volte anche con la volontà del master.
Nicole: Tu hai detto, Vanni, che per scrivere i tuoi romanzi hai provato a utilizzare il materiale delle tue esperienze da master ed è stato molto difficile. Pensavi che la tua esperienza decennale di master ti potesse essere utile per scrivere e invece ti sei dovuto ricredere. Ma in generale, al di là del fatto di non poter utilizzare quel materiale per la scrittura, in che modo l’esperienza da master e da giocatore ha influenzato la tua scrittura? Leonardo Ducros, ad esempio, dice che il suo essere editor e il suo essere giocatore di ruolo sono andati di pari passo. Non ha riscontrato un’influenza di una sull’altra, quanto piuttosto una correlazione. A me è successo l’opposto: di essere prima giocatrice e poi autrice. C’è stata una grande una grande influenza [del gioco di ruolo sulla scrittura]. Nel tuo caso, invece?
Quando ho cominciato a scrivere Terra ignota, avevo già pubblicato diversi romanzi. Ne avevo pubblicati almeno due: Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza, 2011), più il mio esordio Personaggi precari (RGB, 2007), che non è un romanzo ma è comunque narrativa. [E c’era anche il romanzo breve Tutti i ragni, duepunti edizioni, 2012]. E ne avevo scritti pure un altro paio, che erano rimasti inediti prima che riuscissi a esordire. Quindi c’era una certa esperienza di scrittura, di più o meno otto anni e sei libri di cui quattro editi, ma dall’altro lato l’esperienza di Dungeon Master era più che ventennale. E come ho detto prima, mi accorsi molto rapidamente che di quei materiali non avrei potuto fare un grande uso. Al massimo potevo mettere degli omaggi, tipo dei camei, degli ammicchi a qualcosa che i miei giocatori avrebbero riconosciuto. O magari riprendere un piccolissimo concept, come un oggetto magico che mi era venuto bene e dunque era inseribile nel libro. Ma parliamo di qualcosa d’importanza minuscola, proprio perché, appunto, le esigenze di un buon romanzo, foss’anche un fantasy avventuroso classico che ha per protagonista un’eroina o un gruppo di eroi, come è il caso di Terra ignota, sono completamente diverse da quelle di un gioco di ruolo.
Basta guardare, ad esempio, uno dei casi più emblematici. Pensiamo allo scarso valore letterario [eufemismo] della saga di Dragonlance, che è tratta da una campagna di gioco: non sono bei romanzi, eppure è chiaro che quell’ambientazione era una gran figata, di certo giocarla con un buon master deve essere stato bellissimo.
Ciò detto, la prima volta che ho tirato un dato a venti facce avevo sei anni: è chiaro che una cosa del genere ti condiziona. Esiste pertanto un condizionamento profondo, che riguarda il fatto di aver confidenza col creare delle storie e muoverci dei personaggi dentro, che sicuramente mi ha influenzato come scrittore. Ma non lo sopravvaluterei, ecco. Alla fine sono stato influenzato da alcuni scrittori, dai libri che ho letto, molto più che dai giochi di ruolo che ho scritto, diretto e giocato. L’immaginario può arrivare da altre cose: per esempio, io riverbero un’evidente influenza anche da alcune carte di Magic.
David: Magic però è un gioco di carte, ha ben poco di narrativo.
Magic non è per niente narrativo, specialmente le primissime edizioni. Io ho cominciato a giocare tra le Unlimited e le Revised [1993-1994], quando ancora non c’era una “lore” strutturata. Poi hanno iniziato a creare dei personaggi ricorrenti, dei quali si veniva a scoprire chi erano e cosa avevano fatto. E per me le cose sono peggiorate. Le carte hanno perduto quel feel esoterico, iniziatico. Quando aprivi un pacchetto di carte Magic ti chiedevi «L’angelo di Serra, che cos’è? Cos’è, chi è Serra? Il vampiro di Sengir, cos’è Sengir? Un luogo? Un arconte vampiro?». Le prime Magic avevano un potenziale fortemente evocativo, che veniva proprio dal fatto che parevano attingere piccolissimi elementi da una “lore” immensa (il fatto che ancora tale “lore” non esistesse non aveva importanza). Assomigliavano più ai tarocchi o all’I-Ching. Sembravano oracoli. E tutto questo mi influenzò molto a livello di immaginario. Ricordo per esempio di essere andato a cercare Rabindranath Tagore dopo aver letto una sua citazione che era messa come esergo nella carta Sogni del mondo sotterraneo. Quello mi lasciò un segno davvero profondo. Ovviamente, poi, quando sono arrivato a scrivere La stanza profonda è cambiato tutto. La stanza profonda è un libro che può essere scritto soltanto se hai giocato tantissimo ai giochi di ruolo. Fa storia a sé.

Nicole: C’è una domanda che in realtà avrei dovuto fare prima, però mi è venuta adesso. Secondo te il GDR è ancora una controcultura?
Grande domanda. Per certi versi sì, nel senso che il gioco di ruolo continua a essere non competitivo, in una società che invece premia molto la competizione. Continua a essere potenzialmente non commerciale in una società totalmente consumistica. Certo, se vuoi giocare “da consumista” a D&D, loro non aspettano altro e ti riempiono di manuali, sourcebook, dadi, miniature, gadget e tutto quello che vuoi. Però la verità è che se tu compri i manuali, puoi giocare per tutta la vita senza mai comprar nient’altro. Questo è evidentemente in contrasto con l’ideologia consumistica in cui viviamo.
Dall’altro lato si inizia a capire che il “nerdom” è diventato solo una parte del mainstream, e anche una parte del mainstream fra le più sgradevoli: è diventata una vasta sottocultura che non di rado presenta tratti “tossici”, anche se ci sono ancora dentro un sacco di persone molto intelligenti. Certamente però il nerdom oggi è qualcosa che non ha più niente di controculturale, dato che i nerd hanno letteralmente vinto: molti uomini, anche alcuni tra i più ricchi del mondo, di quelli che influenzano negativamente la politica mondiale, hanno delle affinità con quel mondo là; e ci sono in genere altre degenerazioni che in qualche modo sono collegate a tutto quel nerdom che si è anche un po’ destrificato. Però è normale: quando una sottocultura si fa mainstream, non può che perdere la sua accezione sovversiva. Però il gioco di ruolo in sé, senza guardare la comunità che si è formata attorno, ormai è un fatto così “macro” che non è più valutabile in questo senso. È come parlare della gente in senso ampio. Nel momento in cui i giocatori sono decine, centinaia di milioni, non c’è più la nicchia, quindi non ha più neanche senso fare le tassonomie. Bisognerebbe giudicare gruppo per gruppo, sottosezione per sottosezione.
Nicole: Questo discorso secondo te vale anche per l’immaginario fantasy?
Un buon esempio ce lo mostra il mondo di Warhammer 40k, la cui estetica ultramilitarista nasce in Inghilterra in chiave fortemente parodica, ironica e antimilitarista. L’idea era proprio di un mondo orrendo in cui c’è sempre la guerra e che per questo è tornato una sorta di protofascismo ipertecnologico con mega armature esageratamente bombate. E invece oggi molta gente quell’immaginario lo prende sul serio. Non vede l’aspetto ironico. Però, secondo me, non bisogna neanche mettersi a indicare. Questi sono piccoli esempi, ma restano anch’essi esempi di qualcosa che non è più catalogabile all’interno di categorie come controcultura, sottocultura, perché molto semplicemente i giochi di ruolo e tutto il nerdom sono la cultura mainstream di oggi.
David: Personalmente sono contento perché a me come giocatore non cambia nulla, se non il fatto che posso farlo e dirlo alla luce del sole, cosa che quando ero piccolo non riuscivo a fare. E poi scopro sempre più persone ‒ come in questa occasione ‒ con cui parlare di cose che prima erano quasi segrete, massoniche. È un caso specifico, forse raro, di una cosa che nonostante sia in possesso di tutti non toglie niente a nessuno. È una cosa molto bella secondo me.
Sì, sì, è vero.
Nicole: Un’ultima domanda. Abbiamo chiesto a Leonardo se pensava che una persona che gioca di ruolo scriva meglio degli altri. Lui ha risposto di no, specificando però che, se qualcuno gioca di ruolo e scrive già, si vede. La mia domanda, sulla base di questo ragionamento che ha fatto il nostro collega è: pensi che, se un autore ha la voce, la capacità di narrare, di immedesimarsi e quindi di entrare nel personaggio, si vede dal gioco di ruolo?
Sicuramente i giochi di ruolo sono un’attività creativa e dunque fare un’attività creativa in qualche modo riverbera nelle altre attività creative che fai. Però mi sembra un po’ come chiedersi: qualcuno che va a un sacco di mostre di arte di buona qualità poi diventa uno scrittore migliore? Chi lo sa. Forse un pochino sì, nel senso che magari viene un po’ influenzato da quelle armonie. Qualcuno che va tantissimo a teatro diventa uno scrittore migliore? Probabilmente sì, ma dire quanto, è difficile. Una persona che studia musica classica ‒ come dimostrano Thomas Bernard o Thomas Mann ‒ avrà una prosa più armonica, d’accordo? Ma quanto? Non si sa. Dipenderà anche da cosa sceglie di scrivere se questa influenza sarà forte o leggera. Potrei portare molti esempi di giocatori che sono buoni scrittori e giocano in uno stile molto diverso da quello che ci si aspetterebbe. Non è detto che un buono scrittore debba per forza giocare un personaggio basato, per esempio, sull’eloquenza. Magari uno è bravo a scrivere e poi gioca un barbaro con zero carisma che tira soltanto le spadate in faccia al nemico. Del resto, nel gioco di nuovo si riversano diverse esigenze. C’è il giocatore a cui piace parlare, per il quale l’interpretazione è la cosa principale; e c’è il giocatore a cui piace l’aspetto tattico, quindi che non aspetta altro che ci sia un combattimento; c’è il giocatore che vuole semplicemente fare “power play”, livellare, avere il personaggio più forte possibile; c’è il giocatore a cui piace cazzeggiare e che viene innanzitutto per scherzare o per essere una sorta di trickster all’interno del gruppo e buttarla apposta in vacca; c’è il giocatore a cui piace semplicemente essere parte di una grande storia collettiva. E poi in realtà ogni giocatore è un mix di questi archetipi a diversi gradi, no?
Dunque per me non è detto che si veda se un giocatore scrive bene o scrive male da come gioca. Si può vedere magari se un Dungeon Master scrive bene riguardo a come crea o caratterizza i PNG o le ambientazioni, però di nuovo anche qua attenzione: non è detto. È uno strato di scrittura troppo superficiale per poter giudicare, perché la creazione di un buon villain o di una buona ambientazione, di quelle che poi rimangono nelle teste dei giocatori per sempre, non è detto che dipenda dalla sua scrittura. Mi è capitato di scrivere dei PNG che i giocatori ricordano ancora (o odiano ancora) dopo trent’anni, però se si va a guardare il motivo per cui sono ricordati così tanto, dipende da quello che ci hanno fatto i giocatori. Da cosa successo con quel PNG, da come ha influenzato la storia. È l’interazione con i giocatori che lo rende memorabile o meno, e questo secondo me è un piano proprio differente.
In copertina, illustrazione di Anna Volpi