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Giocare il reale. L’incubo magnetico di Cyberpunk 2077


Da diversi anni ormai una delle strategie marketing più efficaci messe in piedi dalle case di sviluppo e distribuzione di videogiochi è quella di presentare le proprie opere di punta come “il titolo definitivo”. Cioè quel gioco in cui, finalmente, i consumatori potranno muoversi in un ambiente virtuale perfettamente realizzato con un livello di immersività mai visto prima. Il “prossimo gioco” è sempre quello con il mondo più vasto, quello più ricco di personaggi con cui interagire, quello in cui ogni edificio, città, pianeta, galassia è esplorabile a piacimento, in cui ogni scelta di vita è possibile e l’identificazione con il protagonista è totale. Ovviamente un gioco del genere non solo non è realizzabile da un punto di vista tecnico (né tantomeno da quello delle risorse umane), ma non è neanche auspicabile da un punto di vista artistico.
Uno sviluppatore impegnato nella creazione di un gioco simile assomiglierebbe forse al protagonista di Synecdoche New York, intrappolato dal fatale fraintendimento che l’arte debba necessariamente rappresentare la totalità della realtà in scala 1:1.

Cyberpunk

Eppure, quando Cyberpunk 2077 fu annunciato nell’ormai lontano 2012, la comunità dei videogiocatori si ritrovò unita nella speranza che si trattasse del tanto atteso gioco definitivo. Le premesse, in parte, c’erano. Un gioco di ruolo open world (cioè un gioco in cui una fetta dello sviluppo narrativo dipende dalle scelte del giocatore, in una mappa completamente esplorabile senza restrizioni), ambientato in un mondo i cui riferimenti visivi spaziano da Blade Runner a Robocop, da Strange Days a Matrix; un gioco sviluppato da una compagnia – CD Projekt RED – che all’epoca si stava proponendo come tra le più interessanti del pianeta e che più avanti, con l’uscita nel 2015 di The Witcher III (un colosso da più di venti milioni di copie vendute), si affermò definitivamente come la casa di sviluppo più amata dai videogiocatori.
Otto anni dopo, dopo una miriade di annunci, rinvii e ritardi, Cyberpunk esce sul mercato, in un momento di transizione cruciale per l’industria videoludica. Gli hardware sono sul punto di passare ad una nuova generazione, più avanzata e performante, i videogiochi ad alto budget stanno virando nuovamente verso un’impostazione autoriale più marcata (come d’altronde accadeva fino a vent’anni fa) e i gamer sono ancora in attesa della venuta del gioco definitivo.

Cyberpunk 2077 non è certo il titolo che può mettere la parola fine all’evoluzione del videogioco. Rappresenta però sicuramente la conclusione di un lungo percorso di maturazione del gioco di ruolo. Con la sua scrittura di alto livello, un immaginario dettagliato e stratificato, un’attenzione maniacale alla colonna sonora e un impatto visivo da capogiro, Cyberpunk 2077 è un blockbuster adulto che utilizza un frullato di riferimenti socio-culturali (il cinema neo-noir, gli appuntamenti estetici di Blade Runner 2049, il paradosso della nave di Teseo declinato in un futuro in cui le “parti” da sostituire sono quelle del corpo umano) per immergere il giocatore in un mondo ricco di stimoli e idee, dove la storia principale fa da colonna portante per una miriade di altri spunti narrativi – collaterali, ma altrettanto fondamentali. Il risultato è un’opera che invita ogni giocatore a costruire una propria personale visione del mondo di Cyberpunk, in cui le combinazioni – di storie, emozioni e sensazioni – sono praticamente infinite.

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Racconti da Night City

A notte fonda il bagliore delle luci di Night City potrebbe sembrare quasi accogliente, se non fosse che ogni singola insegna al neon, ogni lampione, ogni faro puntato su un cartellone che pubblicizza l’ultima linea di dildo extra-large mi trafigge gli occhi come un ago affilato. L’emicrania mi sta facendo scoppiare la testa. L’impianto cibernetico che ho installato nel cervello continua a fare le bizze senza preavviso e io mi ritrovo con la vista annebbiata e il passo rallentato, a guardarmi intorno come un deficiente mentre i passanti mi osservano con un filo di compassione.
A peggiorare le cose c’è il ricordo di quella disgustosa Brain Dance, che mi ha lasciato un senso di disagio che non riesco a scrollarmi di dosso.
Quando hanno iniziato a pubblicizzare la nuova tecnologia dietro alle BD tutti ci siamo esaltati come ragazzini, pregustando l’ennesimo assaggio di futuro che le megacorporazioni stavano per regalarci. La possibilità di vivere i ricordi di qualcun altro, di provare esperienze sensoriali altrimenti impensabili senza mai muoverci dalla poltrona sembrava più che allettante. Non avrei mai immaginato che un giorno un’indagine mi avrebbe portato ad indossare un visore braindance e a rivivere i sogni di un serial killer, uno psicopatico che rapisce ragazzini per tenerli intrappolati in una stalla e nutrirli con gli stessi tubi che gli allevatori usano per il bestiame.
Cinque minuti di quella roba mi sono bastati.
Salgo in macchina, la mia Caliburn nera, coperta di graffi e ammaccature. Devo prestare più attenzione quando guido, con quello che vale questo ridicolo bolide.
Alla radio uno speaker sta parlando dei Nomads, i vagabondi che vivono oltre i confini della città. Avverte la popolazione di Night City che gruppi di Nomads sono stati avvistati nelle zone periferiche, pronti ad invadere la metropoli. Ci tiene a ricordare che sparare a un Nomad è legittima difesa, qualunque siano le circostanze.
Cambio canale. Sono tutte stronzate, fake news maliziose e fascistoidi che fanno leva sul razzismo e l’ignoranza dei miei concittadini, terrorizzati dal diverso, dall’indigente, dallo straniero. Io ne conosco tanti di Nomads. Sono loro che devono aver paura degli abitanti di Night City.
Su Royal Blue Radio gira un pezzo del secolo scorso. You don’t know what love is, Chet Baker.
Per un istante, fugace e inafferrabile, mi ricordo perché, mio malgrado, mi sono innamorato di Night City. L’ipnotica ragnatela di sopraelevate e sottopassaggi, gli ologrammi multicolore che animano le piazze del centro, i grattacieli impossibili che sfiorano le nuvole, i vicoli claustrofobici coperti di graffiti e traboccanti di spazzatura, i trailer park polverosi dove vanno a morire i sogni, gli scintillanti e asettici club dove giovani dagli impianti cromati si lasciano usare come marionette per soddisfare i desideri di clienti danarosi.
Night City è un incubo magnetico dal quale è impossibile distogliere lo sguardo. Una metropoli mostruosa e sublime, somma testimonianza dell’ingegno dell’uomo e della sua ferocia.

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Il mondo di Cyberpunk non è altro che una riproposizione in miniatura di una città iper-realistica nei meccanismi, quanto immaginaria nel contesto, in cui è possibile muoversi liberamente, incontrare personaggi con cui interagire, svolgere mansioni, o – semplicemente – vagare in macchina per ore, tra le luci abbaglianti di una metropoli curata nei minimi dettagli. Ed è proprio in quest’ultimo caso che veniamo più facilmente a contatto con quegli attimi illuminanti, che si manifestano in una manciata di momenti apparentemente innocui ma che, proprio come nella nostra vita quotidiana, nascondono un impatto emotivo quasi religioso nel loro essere letteralmente totalizzanti. Sono quei momenti in cui senti la necessità di fermarti un attimo, dimenticarti di tutto quello che hai intorno e respirare quel trionfo di vita che ti piomba addosso senza preavviso, ma con una dolcezza, ed al contempo una furia, straordinariamente disarmante.

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Il videogioco, esattamente come il cinema, la letteratura e – forse soprattutto – le arti figurative, è il linguaggio che forse più di tutti restituisce al fruitore la possibilità di godere della cosiddetta narrativa ambientale; vuoi perché è il giocatore stesso a controllare il ritmo delle azioni, vuoi perché alcuni degli artisti più talentuosi del mondo contemporaneo hanno scelto proprio il videogioco come principale forma di espressione. L’esempio più comune, che ci ha regalato e continua a regalarci migliaia di momenti analoghi, è quel Grand Theft Auto 5 che viene citato spesso come “videogioco diseducativo” da chi non lo ha mai visto da vicino, ma che oltre ad essere la satira più raffinata e stratificata della società contemporanea dell’ultimo ventennio – cinema e letteratura compresi – restituisce momenti semi-involontari da lacrime agli occhi. Si tratta ancora una volta di quei momenti in cui riesci a sentire, anche per un istante, la brezza sulla pelle, la sabbia sotto i piedi, la voglia di camminare per ore ed ore in una città che riconosci come tua, e che mischia ricordi d’infanzia e sensazioni inedite, per arrivare infine ad un qualcosa d’altro, qualcosa di trascendentale.

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Anche Cyberpunk, esattamente come l’opera di Rockstar Games, presenta le medesime caratteristiche, ergendosi a satira caricaturale di una società che si muove sempre più verso paradigmi pericolosi sul fronte socio-politico, ed analizzando in qualche modo il nostro contemporaneo attraverso la lente d’ingrandimento della pura interazione. L’opera polacca fa questo, e molte altre cose, con una grazia decisamente fuori dall’ordinario; impensabile per una grossa opera d’intrattenimento cinematografica da centinaia di milioni di dollari, ma ancora sostenibile attraverso un medium, quello del videogioco, che non viene ancora considerato dalle grandi masse.
Ed è proprio a causa di questa contraddizione che viene da chiedersi come mai questo incredibile mezzo di comunicazione sia ad oggi snobbato dai più; o meglio, da chi diffonde, giudica e vive ciò che da alcuni viene definita arte.
Certo, per vivere il mondo di Cyberpunk 2077 non basta recarsi in una sala buia, o acquistare un immediato feticcio fisico; c’è bisogno di una serie di supporti che costano dalle centinaia alle migliaia di euro, ed è quindi normale che in una società in cui il linguaggio videoludico non viene riconosciuto come paritario a quelli più sdoganati sia un risultato – ahimè – complesso da raggiungere. Eppure, la forza sconcertante di un titolo come quello dello studio polacco, potrebbe essere potenzialmente sotto gli occhi di tutti, pronta a far cambiare idea anche al più conservatore dei lettori, al più diffidente cinefilo da sala.

Cyberpunk 2077 non è chiaramente un videogioco in cui l’obiettivo ultimo è quello di emozionarsi davanti ad un’alba nel deserto, ma ci viene presentato come un action iper-moderno ambientato in un futuro distopico, in cui la missione è quella di distruggere una ricca corporazione che sta a sua volta distruggendo il pianeta. Ed è forse questa patina apparentemente machista a tenere alla larga un certo tipo di pubblico, ma mai quanto oggi la stratificazione dell’opera pop assume un ruolo fondamentale per raccontare storie ed immaginari rilevanti. È arrivato il momento di mettere una pietra sopra al concetto di opera elitaria, di arte alta che non può arrivare a tutti; spesso le idee più forti e rivoluzionarie passano proprio da quelle opere magne – cinematografiche e videoludiche – pensate per il grande pubblico, ed oggi più che mai è proprio il videogioco a farsi portabandiera di quello che vale la pena assorbire dal contemporaneo.

Parallelamente, bisogna smetterla di intimorirsi di fronte ad una tecnologia che viene troppo spesso associata erroneamente alle derive fantascientifiche di Black Mirror. Quest’anno di pandemia ci ha dimostrato che la tecnologia è non solo utile, ma addirittura necessaria – in tutte le sue sfumature – alla sopravvivenza della specie, alla ricerca e alla preservazione nell’arte e nella comunicazione. A tal proposito, non c’è alcun motivo per rimanere spaventati da un mezzo oggettivamente straordinario com’è oggi il videogioco, che non cerca mai, come alcuni credono, di sostituire la “vita vera”, ma vuole solo affiancarcisi raccontandoci storie da un punto di vista inedito, esattamente come tutte le arti narrative.

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Rimane il problema dell’accessibilità, che è stata comunque in buona parte abbattuta dai grandi colossi del web con i recenti servizi di cloud streaming. Dato che un videogioco necessita di un hardware performante per funzionare, in molti si sono lasciati spaventare dall’esoso biglietto di ingresso necessario ad entrare nel mondo del gaming. Oggi più che mai invece, chi vuole provare Cyberpunk 2077 può farlo su servizi come Stadia o Geforce Now, che permettono di giocare in streaming bypassando la necessità di avere una console o un computer di fascia alta. Un abbonamento mensile, esattamente come quelli per cinema e tv di Netflix, un controller da venti euro, una connessione dignitosa, e ci si apre davanti un mondo nuovo ed inaspettato. Fino all’anno scorso chi ostracizzava il videogioco aveva come scusa ultima quella legata alla barriera economica, oggi non ha neanche quella, e con l’uscita di una pietra miliare qual è Cyberpunk 2077 nessuno ha una ragione valida per perdersi un tassello fondamentale della narrativa moderna.

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