Comma 22

Midcult e Masscult. La coscienza morale dei malati di binge watching

Noi consumatori di serie tv del Ventunesimo secolo saremo condannati all’inferno? A sentire le parole di Dwight Macdonald a proposito dell’arte di massa, severe e «surcigliose» come le ha definite Umberto Eco, sembrerebbe quasi di sì. Masscult e Midcult, il saggio uscito sulla rivista americana Partisan Review nel 1960 e ritradotto e ripubblicato da Piano B nel 2018, fu infatti una requisitoria contro l’arte di massa dal tono fortemente morale. Che cos’è l’arte di massa? Quella che oggi possiamo chiamare di largo consumo, commerciale, fatta appositamente per vendere e generare capitali: Macdonald la chiama Masscult. L’ispirazione gli viene dal filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno e dalla sua distinzione tra arte alta e bassa. L’arte alta (Beethoven, Goethe e Omero per intenderci) è capace di aprire spazi di libertà al soggetto, non si esaurisce nel divertimento ed è occasione di vera e propria esperienza estetica o, in altre parole, della percezione del bello. Per Macdonald ha essenzialmente un carattere elitario: è destinata a un pubblico colto ed elevato. Il Masscult invece uniforma, è puro intrattenimento ed è caratterizzato dal cattivo gusto, come per esempio il rock’n’roll o parte del cinema hollywoodiano.

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Ma la Commedia dell’arte, le favole, i proverbi e i canti popolari non sono sempre esistiti? Non erano proprio forme artistiche pop ante litteram, diffuse tra il volgo ben prima della nascita del capitalismo moderno? Certo, risponde Macdonald, ma quella era arte creata dal popolo per il popolo. Il Masscult invece è prodotto da un ceto di imprenditori, che detengono il potere economico e politico, per dominare e sottomettere gli individui fino a renderli massa amorfa: «Il Masscult scende dall’alto. Viene concepito e prodotto da tecnici al servizio di imprenditori». Questa è dunque la differenza tra Masscult e arte popolare, che comincia a manifestarsi in uno scrittore come Walter Scott nell’Inghilterra nel Diciannovesimo secolo, primo esempio di editoria “industriale”. Tuttavia, secondo Macdonald tra i due poli sembra aggiungersi  un terzo gruppo di opere d’arte: canzoni, libri, film che si ricoprono di una patina culturale, riprendendo temi (argomenti universali come amore e morte) e stili dell’arte alta, scimmiottandola. Lo scopo ancora una volta è vendere: strizzare l’occhio a critici e far sentire il consumatore d’arte arricchito, colto. Esempio ne sono i libri di Ernest Hemingway, Jack Kerouac e tutti gli scrittori della beat generation, Bruce Chatwin, le opere del compositore John Cage e le terze pagine dei giornali. Questo figlio bastardo della vera bellezza, in realtà, fa tutt’uno con il Masscult: è un prodotto ancora una volta ideato per controllare le masse.

È importante sottolineare il tono morale dell’autore (che era comunista, seppur non allineato con il partito di allora): l’arte di massa e l’industria che la produce sono paragonati al nazismo per la loro efficacia nell’impoverire di significati l’esistenza delle persone e nel renderle automi. Proviamo, con un esperimento mentale del tutto opinabile, a chiederci che cosa Macdonald chiamerebbe Masscult oggi: probabilmente How I met your mother, i romanzi di Moccia, Taylor Swift e Stranger things. E che cosa chiamerebbe Midcult? Probabilmente tutti gli inserti culturali dei quotidiani italiani, le canzoni di Francesco Guccini (come La canzone dei dodici mesi con la citazione di T. S. Eliot «ma nei tuoi giorni dai profeti detti nasce Cristo la tigre»), i romanzi di D’Avenia con le sue citazioni dantesche e e il cinema di Sorrentino con i rimandi nella Grande Bellezza al Fellini della Dolce vita. È senz’altro vero che Macdonald non identifica un colpevole vero e proprio, tuttavia il tono del saggio si avvicina spesso all’accusa, alla denuncia severa, quasi fosse proprio un errore morale consumare prodotti culturali. 

E quindi che cosa dovrebbero fare tutti i malati di binge watching? Tornare a casa la sera, dopo una giornata di lavoro, e mettersi a leggere James Joyce o Marcel Proust per cercare di liberarsi dalle catene che l’industria culturale ha forgiato per farci schiavi del potere? Ogni volta che guardiamo Game of Thrones dobbiamo quindi sentirci parte di quel congegno capitalista che fa girare l’economia della creatività? Per dare una risposta è utile richiamare il saggio di Umberto Eco posto in fondo al volume, uno stralcio di Apocalittici e integrati (uscito nel 1964) che dedicava proprio alcune pagine al saggio di Macdonald. Scrive Eco:

«In tante surcigliose condanne del gusto massificato, nell’appello sfiduciato a una comunità di fruitori intenti solo a scoprire le bellezze riposte e segrete del messaggio riservato della grande arte, o dell’arte inedita, non  viene mai lasciato uno spazio per il consumatore medio (per ciascuno di noi in veste di consumatore medio) che alla fine della giornata chiede a un libro o a una pellicola la stimolazione di alcuni effetti fondamentali (il brivido, la risata, il patetico) per ristabilire l’equilibrio della propria vita fisica o intellettuale».

Quindi, così si potrebbe interpretare la citazione di Eco, la fruizione di opere d’arte di massa non esclude che si possa accedere comunque anche a un’esperienza estetica diversa. Consumare prodotti dell’industria culturale non imbarbarisce necessariamente il gusto: l’importante è essere sempre consapevoli della differenza tra una grande opera d’arte e un prodotto mediocre e creato solo per vendere. «Il problema di una equilibrata comunicazione culturale non consiste nell’abolizione di questi messaggi, ma nel loro dosaggio, e nell’evitare che vengano venduti e consumati come arte», continua Eco. Decisivo è riconoscere sempre il tipo di prodotto che si sta consumando, essere consapevoli della differenza tra Dante e Federico Moccia. Allora, in ultimo, si potrebbe proporre proprio una provocazione in forma di domanda. È possibile che anche l’arte alta, Dante Alighieri per intenderci, diventi un vero e proprio prodotto industriale acquistato e fruito dalle masse? E se sì, come può avvenire ciò? Come è possibile aprire varchi nella vita, nel tempo libero, di ogni cittadino del Ventunesimo secolo in cui l’arte alta possa entrare? Una possibile risposta è che forse proprio il Midcult, che tanto Macdonald disprezzava, potrebbe svolgere questa funzione. Proprio questo figlio illegittimo dell’arte alta potrebbe avvicinare le parole e le immagini dei grandi scrittori e artisti alla vita quotidiana delle persone. Questi prodotti, almeno alcuni, possono contenere, come sosteneva Macdonald, semplificazioni, manierismo e forse anche cattivo gusto; ma possono comunque contribuire attraverso le loro citazioni colte ad arricchire i significati, le immagini e le parole che ciascuno di noi usa.