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Le nostre anime di notte. Costruire un futuro in scena

«Chi riesce ad avere quello che desidera? Non mi pare che capiti a tanti, forse proprio a nessuno. È sempre un appuntamento al buio tra due persone che mettono in scena vecchie idee e sogni e impressioni sbagliate».

Sono misteriose e disorientanti, le epifanie. Ci si lascia sorprendere da un istante di grande appagamento, ma anche da un piccolo senso di colpa, quando si avverte che la chiave è sempre stata in bella vista, e (forse) non ce ne eravamo accorti. È quello che è accaduto sentendo, su un palcoscenico, queste parole dalla bocca di Addie Moore, la protagonista di Le nostre anime di notte di Kent Haruf.

Sembra improvvisamente evidente, e persino ineludibile, la vocazione teatrale dell’ultimo, intenso romanzo di Kent Haruf, pubblicato da NN. E più lo si sfoglia più l’impressione si conferma, ascoltando risuonare parole che sembrano scritte per essere pronunciate, col tono soffuso e intimo delle confessioni. Il tono di chi sa che si sta congedando dalla vita (il romanzo uscì postumo: lo scrittore di Pueblo stava già facendo i conti con la malattia) e l’urgenza di chi, per questo motivo, vuole solo fare in tempo a dire quel che gli spinge le dita. Un inno alla vita senza niente di retorico e di melenso, e perfidamente irresistibile come sono solo le cose ultime (“È stato il suo modo di tenermi legata a lui per sempre: chi altro puoi cercare, dopo il dono di una storia così?” scherzerà l’ultima moglie di Haruf, Cathy, a cui il libro è dedicato). La contestualizzazione temporale della genesi del romanzo, che segue la trilogia della pianura, che ha fatto di Haruf un autore culto anche in Italia, è utile per decodificare la lingua, dell’autore dei romanzi ambientati nell’immaginaria Holt, in Colorado. Una lingua ancora più asciutta ed esatta dei romanzi precedenti, che qui si vena di un lirismo dimesso ma sensibile, e di cui il traduttore, Fabio Cremonesi, ha voluto conservare il senso di impellenza.

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Fatta questa premessa, però, vale la pena di dimenticarla. Dalle pagine abitate da Addie Moore e dal suo vicino Louis Waters, che la donna va a trovare per chiedergli di passare insieme le notti che verranno, è lontano anni luce qualsivoglia orizzonte finale. Non solo perchè, è ancora la signora Haruf a dirlo “Quando si parla non si hanno rimorsi”. Ma quella di due settantenni, vedovi entrambi, che scelgono di “attraversare insieme la notte” è una parabola non solo straordinariamente vitale, ma in cui la stessa lente dell’anagrafe può rivelarsi fuorviante. Addie e Louis non sono due anziani spinti dall’affanno di godersi l’ultimo tempo della vita. Hanno sentito, piuttosto, arrivare quella chiave di volta dell’esistenza in cui matura il tempo di scegliere per sé, in cui si trova – non senza timori e battute di arresto – il coraggio della felicità. Un tempo che non ha anagrafe. Addie e Louis hanno il volto, la voce e la grazia di Lella Costa ed Elia Schilton – commuoventi e magnetici, tra la leggerezza di una danza e la verità con cui solo il teatro, fingendo la vita, riesce a essere più vero del vero. Non si potevano pensare due protagonisti più azzeccati e meglio assortiti, nella timidezza dell’uno e nella intraprendenza dell’altra, dei protagonisti della messa in scena prodotta dal Teatro Carcano e che, dopo aver debuttato nella sala milanese a fine 2022 è in viaggio per una lunga tournèe.

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Un lavoro in cui Emanuele Aldrovandi, che firma l’adattamento conserva quasi come un calco il testo originale, concedendosi solo di puntare l’occhio di bue sui due protagonisti, laddove Haruf inserisce un contorno abbozzato ma evocativo. Un testo però che dalla maturazione in scena e dall’acume degli attori esce arricchito: si prenda la citazione in apertura: la apparentemente minima e invece sostanziale differenza che passa tra “incontro alla cieca” (nella traduzione di Cremonesi) e “appuntamento al buio”, si deve a Lella Costa. Nel farsi carne della parola (Giovanni Testori scriveva che solo in teatro la parola si “inossa”) anche le didascalie diventano parte integrante della messa in scena, si fanno a loro volta voce per trasformarsi in azione teatrale. Qualora ci fosse bisogno di un’altra dimostrazione della radice profondamente scenica di questo romanzo, in cui Haruf si concede qualche divertita autocitazione ai romanzi precedenti e lievi incursioni nel metateatro “Non siamo improbabili, siamo noi”: segue, solitamente, l’applauso a scena aperta. Addie e Loius hanno attraversato il dolore e la fatica, quelli delle debolezze umane e del destino che si accanisce ma anche quello tremendo, inenarrabile, che sovverte l’ordine delle cose in un istante di tragedia. Ed è nella parola condivisa che trovano una forma se non di cura, di senso. Ma, soprattutto, è nel reciproco desiderio di raccontarla che trovano un modo per prendersi cura, l’uno dell’altra. E quello che ne sorge non è, soltanto, una quieta e affettuosa prossimità, ma – ed a ben guardare è molto più significativo che sia così, amore che porta con sé tutta la dirompenza di un sentimento nuovo. Al di là delle forme nelle quali si esplicita. Quella di Addie e Louis, allora, non è una storia di quello che Lidia Ravera ha chiamato il “terzo tempo”, ma, nella sua pura sintesi, una costruzione di felicità: la “costruzione di un amore che non ripaga del dolore”, canterebbe Ivano Fossati, ma che offre una possibilità di orizzonte. Che fa scoprire il tempo che è dato di trascorrere all’interno di questo corpo fisico, migliore di quanto – ammette Louis, in un sussurro “Avrei pensato di meritare”. È evidente allora come non abbia nulla a che spartire con l’età, la fame di quella che in un celebre racconto Raymond Carver ha chiamato “Una piccola, buona cosa in un momento come questo”. La vita che vince anche nel fondo dell’abisso, nel momento della resa, sia essa detonante come in Carver o arrivata per consunzione. È l’incontro, è la parola, è l’accoglienza di una mano che si cerca sotto le coperte e non si sposta, è il calore di una voce che ci suggerisce “Tu meriti di essere felice, non credi?”. Soprattutto di fronte a chi non è disposto a capire. Anche quando sembra di dover cedere all’idea che altri hanno di noi. Gene, il figlio di Addie, crudele come solo chi è profondamente ferito sa essere, si spingerà al ricatto pur di cercare di ricondurre quel che non sa comprendere alla propria ragione. Se l’amore, da dentro, costruisce, da fuori – l’idea registica di Serena Sinigaglia, che scompone lo spazio faticosamente costruito un pezzo alla volta – è dirompente. Ma quando tutto è perduto che si scopre la forza di rivendicarsi, in un ultimo bacio anche prima di andar via. Ed è quando la si è perduta che la casa si svela sì guscio di sicurezze perduto, ma anche la gabbia del già conosciuto. C’è ancora qualcosa da rompere, per poter di nuovo rivendicare se stessi, aggrapparsi al bisogno più profondo e autentico: c’è ancora a un’idea di futuro, che aspetta soltanto di essere afferrata.

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