Oltre la Soglia

Comunarde: dietro le barricate con utopia e disincanto



C’è una leggenda, fra quelle che concorrono nella creazione dell’aura attorno alla Comune di Parigi, che più di tutte è riuscita a riunire e racchiudere tutti gli elementi che hanno conferito a quei mesi un’immagine di caligine quasi mitologica, imperscrutabile e densa di contraddizioni: la leggenda che circonda la nascita di Proust. Venuto alla luce il 10 luglio del ’71, nel bel mezzo delle repressioni e del bagno di sangue che calarono il sipario sull’esperienza comunarda, a oggi si assume che il temperamento saturnino dello scrittore fosse dovuto alle condizioni di estrema tensione a cui la madre Jeanne Weil, residente nel territorio di Auteuil, fu sottoposta nei mesi di gravidanza.

Non solo tra i contemporanei, il fascino della Comune esercitò un certo ascendente in letteratura. Basti pensare ai versi di Rimbaud sulle pétroleuses, ai componimenti di Verlaine e alla Louise Michel descritta come angelo vendicatore dalla penna di Hugo. Anche nel Novecento, secolo in cui l’avvento dei totalitarismi e di una nuova società di massa diedero una scossa alle lotte proletarie, Brecht dedicò alla Comune un’intera pièce, e persino il Simonini di Eco, caustico antieroe di Il cimitero di Praga, si ritrova coinvolto nella caotica pluralità dei tumulti parigini. Se tuttavia in letteratura è possibile tracciare un percorso lineare tra le interpretazioni, le iterazioni e le sfaccettature della Comune sul piano della finzione, ben diversa è la difficoltà che si trovano davanti storici e storiche come Mariuccia Salvati, che nel volumetto La Comune di Parigi. Storia e interpretazioni, uscito per Edizioni dell’Asino, tenta di sbrogliare la pluralità degli sguardi che si intrecciano sulle barricate.

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La Comune presenta a oggi un’enorme varietà interpretativa dal punto di vista politico e storiografico, ma il costante rinnovamento del metodo d’indagine, anche a fronte della storia più recente del movimento operaio, assume la forma di una sfida continua sulle pieghe del possibile, su una riflessione in comune fatta di furia e gioia e sulla praticabilità di nuovi modelli d’azione. Scrive infatti Salvati:

«Definire il problema storiografico della Comune è già quindi calarsi in un dibattito che a ogni svolta storica della lotta tra movimento operaio e società capitalistica sembra rinvigorirsi anziché spegnersi, a conferma dell’acuta e spesso citata previsione di Trockij: “Ogni volta che noi studiamo la storia della Comune, la vediamo sotto un nuovo aspetto grazie all’esperienza acquisita con le lotte rivoluzionarie successive”.»

Anche all’interno della storiografia e del recupero postumo delle lezioni della Comune, però, esiste un punto cieco, ed è quello dell’esperienza femminile. Trascurate dalla ricerca storica, emarginate dagli stessi compagni e private della concretezza militante da una trasfigurazione mitizzata e disincarnata in poesia, le comunarde presentano a oggi una lezione di rivolta collettiva gioiosa e appassionata, al di fuori dell’eccezionalità di simboli, sante e virago prive della consistenza materiale delle lotte. A raccontarle è stata Federica Castelli, che con il suo Comunarde. Storie di donne sulle barricate rompe con la storiografia tradizionale per offrire un testo radicale, «situato, imperfetto, appassionato» che riflette le pratiche e i legami di «una città intera che si è fatta organismo vivente», chiedendoci che cosa, oggi, le nostre barricate possono imparare dalla lezione parigina di centocinquant’anni fa.

La particolarità del testo di Castelli sta infatti nella sua collocazione liminale, né perfettamente ascrivibile alla storiografia tradizionale né all’analisi sociale, che riesca a intessere una genealogia politica in grado di stimolare una riflessione sulla continuità delle lotte e sui futuri possibili. Se infatti l’esperienza della Comune era «un momento di pura invenzione politica, segnato dalla spontaneità, […] dall’assenza di una direzione eteronoma, dal rifiuto della guida ideologica», la rielaborazione del ’48, caratterizzato da una riflessione su lavoro, cittadinanza e trasformazione sociale del concetto di lavoro subordinato, fu un’esperienza politica radicalmente diversa.

«Il rifiuto di prendere il potere senza metterne in discussione le logiche sottostanti – quelle della sovranità moderna –, la volontà di creare istituzioni differenti,  fondate su una diversa concezione della politica e su una diversa idea di cittadinanza, ha portato a definire la Comune come una rivolta contro l’idea stessa di rivoluzione e contro le sue contraddizioni.»

La Comune aggira il problema dell’Assoluto, come lo chiamava Arendt, mettendo al centro «la dimensione relazionale, estetica, corporea», immaginando politiche improntate all’associazione e all’autogestione che non prescindessero dalla questione sociale, ma che favorissero anzi una contaminazione tra militanze dal basso oltre l’idea di un progetto politico unitario – una realtà ben lontana dagli Stati-nazione europei.

Perfino la gioia della militanza orizzontale, però, nasconde le sue aporie. La maggior parte degli studi sulla Comune glissa sulle esperienze femminili, relegate all’irrilevanza della nicchia, e fu solo grazie al recupero femminista che si resero possibili «nuove piste d’indagine, sfaldando gli approcci codificati e i saperi patriarcali […] alla ricerca di ciò che non è stato nominato». È così che Castelli indaga «tra le pieghe della storia» e si sottrae agli errori comuni della storiografia contemporanea, da un versante focalizzata sull’eccezionalità di poche figure assurte a simbolo a scapito della collettività di donne impegnata nei clubs e negli spazi comuni, e dall’altro impegnata a sovrapporre le istanze della lotta comunarda al femminismo odierno. Lo sguardo di Castelli si sofferma sui rapporti di genere, sull’intreccio tra l’esperienza di classe e quella sessuata dalla sollevazione di Montmartre fino ai giorni nostri.

«Durante la Comune, in tutta la città, le donne incarnano, ispirano, teorizzano e guidano la rivolta. […] Formano clubs politici e comitati di vigilanza, infiammano le pagine dei giornali radicali, creano associazioni di donne lavoratrici, organizzano l’istruzione femminile, marciano nelle strade; sulle barricate sono infermiere, cantiniere e combattenti.

Perché, allora, le donne non godevano dello stesso status come cittadine e comunarde? Castelli sceglie di orientare la sua ricerca su diversi piani, dalla presa in esame delle idee dominanti di donna, che nonostante l’eterogeneità della presenza comunarda variava in base alla classe di appartenenza, alla misoginia di alcuni dei teorici contemporanei: è il caso degli scritti di Proudhon, secondo cui l’emancipazione femminile fosse in grado di insidiare la società, e degli uomini della Prima Internazionale di Londra, che riprendendo le idee proudhoniane finirono per perpetuare la divisione borghese tra il pubblico, arena della politica e delle lotte, ça va sans dire, maschili; e il privato, spazio chiuso e riservato, locus femminile per eccellenza.

«Rispetto a questo diffuso e pervasivo immaginario, tuttavia, le comunarde agiscono una rottura totale, sfidano le gerarchie e le ideologie di genere dominanti […]. Per la prima volta denunciano che la diseguaglianza e l’antagonismo tra i sessi costituiscono le basi del potere.»

Infatti, a dispetto dell’apporto che molte donne diedero all’esperienza comunarda (Castelli menziona figure emblematiche dei diversi approcci alla lotta, dall’anarchismo della differenza di Paule Mink al collettivismo concreto di André Léo, passando per il marxismo associazionista di Elisabeth Dmitrieff e l’impegno multiforme della più nota Louise Michel), le pratiche di lotta e di sorellanza rimasero e rimangono tuttora pressoché inesplorate. L’alienazione dalla vita politica e dalla lotta armata, la derisione e lo iato tra gli ideali comunardi e la realtà quotidiana dei rapporti di genere restano, a oggi, una ferita ancora aperta. E – purtroppo – anche la memoria letteraria, avviluppatasi tra le sublimazioni opposte di vergine armata e incantatrice ferina, non fa eccezione.

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Ritratto di Louise Michel (1830-1905), Parigi

È possibile, quindi, essere comunarde oggi? Quale lezione possiamo imparare fuori dal mito? È vero che la memoria funziona come un limite, oltre il quale non è concesso immaginare cose più grandi di noi, o si può ancora sognare un agire diverso? Castelli è ottimista: l’insegnamento delle comunarde ha ancora molto da dirci sulle contraddizioni delle lotte, sulla praticabilità dell’inclusione anche negli obiettivi comuni, sugli spazi di libertà che si possono ancora guadagnare e da cui possiamo imparare molto. A offrire l’apertura è la scelta di orientarsi verso «il conflitto anziché lo scontro, verso la forza anziché la violenza». E se nei confronti della violenza femminile c’è ancora un certo perbenismo refrattario, è ancora l’eredità del pensiero sulla violenza del Novecento a venirci incontro: dall’idea denaturalizzata e critica della violenza come possibilità umana, si arriva a una riflessione più profonda sull’esposizione all’alterità e sulla vulnerabilità, rivelando ancora una volta il patto sotteso che lega cura e giustizia.

Che fare, allora? Dall’immaginario politico senza compromessi di Vera Pavlovna, la domanda non ha mai perso d’importanza. All’alba di nuove istanze che richiedono un approccio in grado di difendere la memoria storica, è necessario rimettersi a quella che Magris chiamò «l’utopia unita a disincanto»: un’utopia che anche a fronte del fallimento degli ideali riesce ad accrescere la loro forza fuori dal mito, nella consapevolezza che il mondo debba e possa essere cambiato; e un disincanto, «forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza», che può correggerla e sorreggerla. Lungi dal fornire risposte, il libro di Castelli pone domande che schiudono le promesse del possibile, a ribadire ancora la forza del sogno oltre – o forse proprio grazie a – quelle lotte che più di tutte sembrano essere le più rischiose.