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Gli invisibili che abitano la Storia. Epica Quotidiana, di Ilaria Grasso

La Storia sa essere ostile con le comparse, con le voci minori. A tal punto che una raccolta di fatti e personaggi memorabili sembra essere l’unica forma di narrazione ammessa. Eppure nella prefazione di Gente non comune Eric J. Hobsbawm dedica il libro «al tipo di persone i cui nomi sono di solito ignoti a tutti, se non a familiari e a vicini, nonché, nelle moderne organizzazioni statali, agli uffici che registrano nascite, matrimoni e decessi. Qualche volta quei nomi sono conosciuti dalla polizia, o da giornalisti in cerca di «storie vere». In altri casi, invece, sono ignoti e inconoscibili, come quelli di coloro, uomini o donne, che cambiarono il mondo introducendo nel Vecchio continente specie vegetali scoperte da poco nelle Americhe.
[…] Questi uomini e queste donne formano la gran parte della specie umana. Le discussioni degli storici sull’importanza degli individui e delle loro decisioni non li preoccupano. L’espunzione delle loro biografie dall’esposizione dei fatti non lascerebbe traccia sul piano narrativo della macrostoria.
[…] La loro vita è interessante quanto la vostra e la mia, anche se nessuno l’ha messa per iscritto».

Alla letteratura, e ancor più alla poesia, ci si affida per rendere in qualche modo più abitabile la Storia. Ed è con questa vocazione che la raccolta Epica Quotidiana (Macabor editore, 2020), esordio poetico di Ilaria Grasso, con prefazione di Aldo Nove, prende forma.
Nelle intenzioni di Grasso è poesia il «fare poesia», narrazione fattuale, rigorosa del quotidiano. Dall’omaggio ai padri dichiarati – da Fortini, Ottieri, Scotellaro a Majakovskij – allo scorrere sequenziale di una raccolta dalla forte coerenza tematica, la voce poetica esplora con urgenza la realtà del lavoro e dei lavoratori, la dignità e la rassegnazione, il meccanismo incontentabile della modernità. I volti della raccolta, resi protagonisti collettivamente e singolarmente, sono ammalati di provvisorietà, costernati dalla ripetitività come unica misura del tempo trascorso. All’orizzonte che si allontana secondo un ordine precostituito, visibile ma inavvicinabile, oppongono la resilienza come «mestiere del vivere».

Grasso
Ilaria Grasso

I versi, concordi con la narrazione e la visione, svelano la necessità di una detonazione. Distanze e dislivelli vengono aboliti, dove è poesia essere millimetricamente vicini, nello stesso luogo e tempo di coloro che cessano di essere i «non visti». La materia prima viva che l’autrice osserva è quindi equidistribuita, particellare e di dominio umano. E per questo non viene esercitata nessuna forma di estraneità o distacco.
«Al mattino l’incrocio è un garbuglio/ di monumenti e radiazioni./ Sveglia quanto basta per tenermi verticale/ ho una giornata da mandare avanti/ e tre semafori di una lentezza disarmante […]» scrive Grasso, nella poesia che dà il titolo alla raccolta. L’epos diventa il perdurare a dispetto delle circostanze «in compagnia di tanti dove sempre/ per dovere o per fame sempre tocca ritornare», il quotidiano un’arena perpetua dove la vittoria riportata è la non-resa.

Al campo semantico del lavoro si aggiunge quello del disarmo e della battaglia obbligata («Arroccata sul sedile mi tengo stretta di lato/la borsa quasi fosse un fucile» e ancora «Ogni tanto un incidente prova a rompere le righe/ di questo schieramento quotidiano» oppure «È un bagno di sangue ma al momento siamo tutti salvi»), in un non-luogo dove è guerra tutti i giorni, il fronte comune e persino gli avversari apparenti rimangono sconfitti dal sistema (e per questo, accolti dalla voce poetica).
Ed è con precisione e ferocia che il distico del lavoro («Il lavoro stanca/ anche quando manca») giunge a mettere a fuoco il dubbio fondamentale – insito nella stessa etimologia labor, laboris – della reale necessità dell’equivalenza tra lavoro e fatica.

L’indignazione di Grasso, percorrendo anche la storia recente del mondo del lavoro, snaturata dal mito del progresso, non si concede di diventare cinismo, ma contrasta l’aridità con pratiche di premura verso l’altro, l’asetticità con una contaminazione lucida. Insistendo su dignità e comunanza come virtù cardinali.
Fino ad arrivare alla conclusione del percorso enunciando un assioma vitale: «Siamo stanze vuote da coibentare/ per proteggerci dal male». Accogliendo la lezione del Brecht delle Poesie politiche e Pasolini, innestando le rivendicazioni esplosive di Majakovskij, il noi raccontato da Grasso prova a dimostrare come tutto vibra, si agita, persiste.
A dispetto del processo istituzionalizzato che trasforma i ciascuno in chiunque, la voce plurale della raccolta protegge quell’indomabilità che continua ad essere l’assicurazione collettiva per un futuro condiviso. Per ricordarci che la «gente minuta» lo è solamente quando non vista e raccontata con uno sguardo pari. E che l’esistenza di ognuno è indimensionabile.

Epica Quotidiana

Al mattino l’incrocio è un garbuglio
di monumenti e radiazioni.
Sveglia quanto basta per tenermi verticale ho una giornata da
mandare avanti
e tre semafori di una lentezza disarmante.
Quando scatta il verde attraverso il volume delle cuffie per non
sentire la gazzarra dei motori.
La metro gonfia mi passa tra le gambe.
L’asfalto trema sotto le mie piante
dove l’inverno mi bagno e l’estate mi infuoco
in compagnia di tanti dove sempre
per dovere o per fame sempre tocca ritornare.

Ingorgo

Qui da dove scrivo la notte è uno schianto di vuoto.
Non conosciamo stelle, solo smog e pali della luce.
Ci comprimono ad arte alla maniera di Arman
tra pilastri di cemento gomme e incrostazioni.
Siamo fluire di carne snervata e non abbiamo nome.
Siamo massa che avanza.
Ogni tanto un incidente prova a rompere le righe
di questo schieramento quotidiano.
La processione avanza sempre nelle stesse direzioni
tra canini d’acciaio e il guarire dei motori.
Anche in tangenziale, sempre in mezzo al niente affollati.

Arroccata sul sedile mi tengo stretta di lato
la borsa quasi fosse un fucile.
Siete lì in piedi come arbusti
e ogni frenata prova ad abbattervi
come una raffica di vento.
Ma siete così stretti che non riesco
a distinguere tronco e rami.
Solo al capolinea ogni pianta
riprende il suo spazio vitale e ogni giorno
questo rituale agli occhi miei appare
sempre diverso e sempre uguale.

Abbiamo bisogno di persone buone
e pane fresco da mangiare
e di sorrisi allegri e rassicuranti.
Abbiamo bisogno di luce
che mostri vasti orizzonti e di mare.
Abbiamo bisogno di sentieri
e di alberi
e di radici
e di innesti per nuove foglie e nuovi rami.
Abbiamo bisogno di coerenza
e pacche sulla spalla
e di dogmi di bene
per non lasciare spazio a tristi pensieri.
Siamo stanze vuote da coibentare
per proteggerci dal male.
















Photo credits:
George Tooker: The Subway 1950  Whitney Museum of American Art, New York; purchase, with funds from the Juliana Force Purchase Award 50.23. 

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