Search
Close this search box.

Cento libri per un cambiamento. I consigli letterari di David Bowie


Nella storia della musica pop, pochi artisti hanno fatto affluire la letteratura nei propri dischi come David Bowie. Sin dagli esordi di fine anni Sessanta, David Robert Jones ha saputo portare le proprie letture, le tensioni filosofiche e le fascinazioni letterarie e poetiche fra le righe dei propri testi, nelle interviste e nelle tournée mondiali, riempiendo di riferimenti la propria discografia e, di fatto, diventando un vero maestro per i propri fan, un suggeritore di titoli e percorsi da seguire.
Per Bowie la musica è sempre stata una faccenda più complessa di un disco da ballare. «Una canzone deve acquisire un carattere, una forma, un corpo e influenzare la gente al punto che ognuno la possa usare per i suoi scopi. Deve toccarli non come una semplice canzone, ma come uno stile di vita. Le rock star hanno assimilato ogni sorta di filosofia, stile, storia, scrittura, e buttano fuori quel che hanno raccolto da tutto questo» raccontava nel 1974 allo scrittore William Burroughs nel suo appartamento londinese in una storica intervista per Rolling Stone. Questa concezione ampia della musica, intesa come messaggio culturale più esteso, è a ben pensarci uno dei tratti caratteristici di Bowie e del suo pensiero, rintracciabile negli evidenti riferimenti all’odissea spaziale di Arthur C. Clarke nel tema di Space Oddity, nella filosofia nietzschiana che pervade canzoni come The Man Who Sold The World e The Supermen, nel calembour Jean Genie/Jean Genet inserito all’interno di un disco, Diamond Dogs, che è di fatto l’impensabile punto d’incontro tra 1984 di George Orwell e i Ragazzi Selvaggi dello stesso Burroughs, negli striscianti riferimenti esoterici alla poesia di Aleister Crowley e alla Cabala ebraica che costruiscono il viaggio iniziatico di Station to Station, nel videoclip di Look Back in Anger ispirato a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, nella geniale decostruzione di Alabama Song di Bertolt Brecht e nel rapporto con autori contemporanei come Hanif Kureishi e William Boyd, sono per citare i più evidenti.

Una costellazione di riferimenti letterari che Bowie stesso, nel 2013, decise di mettere nero su bianco, donando ai propri fan la lista dei 100 libri che più avevano influenzato la propria carriera. Una vera e propria eredità che diventava un neanche troppo implicito invito alla lettura, ad un’immersione capace di toccare non solo il piano letterario ma piuttosto in grado di azionare un processo di trasformazione creativa grazie alla letteratura. Un incredibile testamento che, a distanza di cinque anni dalla morte dell’artista avvenuta a New York il 10 gennaio 2016, fa tappa nelle librerie italiane grazie al volume Il Book Club di David Bowie (Blackie Edizioni, 2020) scritto dal giornalista John O’Connell, nella traduzione di Fabrizio Coppola e con le illustrazioni di Luis Paadín, un viaggio che inizia dall’ultraviolenza di A Clockwork Orange di Anthony Burgess (1962) e termina con ll gabinetto delle meraviglie di Mr. Wilson di Lawrence Weschler (1995).

Bowie

David Robert Jones non era uno studente modello. Nel 1963 aveva abbandonato gli studi, probabilmente per un’avversione al mondo della scuola e dell’apprendimento dentro i binari dei programmi scolastici. Mentre prendeva forma in lui l’artista, attinse da autodidatta a tutto ciò che lo affascinava e lo incuriosiva, provando inoltre «un piacere immenso nel trasferire ad altri ciò che aveva appreso: quando apprezzava un libro, ricordano gli amici dell’epoca, lo consigliava a tutti con grande passione». Negli anni Settanta, di tournée in tournée la mole delle sue letture cresce a dismisura e nel 1975 arriva sul set di The Man Who Fell to Earth di Nicolas Roeg con una biblioteca portatile di circa millecinquecento titoli, come annota il Sunday Times: «Bowie odia l’aereo, quindi in genere attraversa gli Stati Uniti in treno, trasportando la sua biblioteca portatile in speciali bauli che contengono i libri ordinatamente disposti su piccole mensole. Nel New Mexico le sue letture si sono incentrate principalmente sul mondo dell’occulto, la sua ultima passione».

Bowie
David Bowie, 1975

Alla luce di ciò, la lista dei cento titoli diventa una bussola per addentrarsi nella vita e nella carriera artistica di Bowie, tra piste e falsi indizi, in una chiave borgesiana che non sarebbe dispiaciuta al Thin White Duke. Se da una parte è possibile rintracciare i diversi elementi culturali che hanno plasmato la sensibilità artistica di Bowie, dall’altra troviamo, disseminati nell’elenco, titoli che riconducono alla sua biografia cronologica: dall’infanzia all’adolescenza, dalla rockstar in preda agli eccessi all’artista in fuga verso l’essenziale, dalla decadenza alla rinascita, in un percorso di continui vertici e abissi che hanno contraddistinto la sua carriera. Riferimenti che spesso sono riconducibili alla cultura mod: opere come On the Road di Jack Kerouac, Lo Straniero di Albert Camus o La terra desolata di T.S. Eliot rappresentavano dei must per i beat degli anni Sessanta e il giovane Bowie vi attinge, insieme ai già citati Orwell, Burgess e a Lolita di Vladimir Nabokov. Bowie si rivela inoltre un avido lettore dei grandi classici: spuntano così nella lista l’Inferno di Dante, l’Iliade di Omero, Madame Bovary di Flaubert, L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, Mentre morivo di William Faulkner, Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, in una panoramica che guarda molto all’antica Europa ma sa direzionarsi anche in America e nelle letterature più lontane.
Questa componente, quella della scrittura come conoscenza del mondo, conferma l’amore di Bowie per la letteratura di viaggio. Ne sono la prova la presenza dei titoli A Grave for a Dolphin di Alberto Denti di Pirajno (1956) e All the Emperor’s Horses di David Kidd (1961), mentre il fascino per l’oriente emerge anche nella presenza di Il sapore della gloria di Yukio Mishima (1963), un autore che ha attraversato l’ossessione di Bowie per il Giappone, come dimostrano le influenze del teatro Nō, la lunga collaborazione con il fotografo Masayoshi Sukita e lo stilista Yamamoto, e il bellissimo pezzo strumentale Crystal Japan.

Bowie
In aeroporto, 1995

Ma Bowie sa anche spiazzare, spolverando titoli che colpiscono. Tra questi, spiccano le presenze di La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Dìaz (2007) che racconta di un ragazzino che si rinchiude in uno scenario sovrannaturale, i Selected Poems di Frank O’Hara (2009) dominati da una poetica languida e ironica, Money di Martin Amis (1984) sugli eccessi degli anni Ottanta, L’outsider di Colin Wilson (1956) con il suo esistenzialismo nel quale le generazioni degli anni Sessanta si sono identificate, Herzog di Saul Bellow (1964) con il suo battito jazz, Una banda di idioti di John Kennedy Toole (1980) sul tema della follia, Mystery Train di Greil Marcus (1975) sui fantasmi del rock’n’roll, Metropolitan Life di Fran Lebowitz (1978), la rivista The Beano fondata nel 1938 o l’ormai dimenticato Octobriana and the Russian Underground di Petr Sadecky (1971), che Bowie provò addirittura a trasporre sul grande schermo con Amanda Lear (uno dei tanti progetti non andati in porto, come il film nel quale avrebbe dovuto impersonificare Egon Schiele).

Leggendolo in trasparenza, Il Book Club di David Bowie assume dunque i connotati di una biografia laterale e non dichiarata, eppure di grande forza. A descrivere il contesto nel quale l’artista si è mosso sono i libri, gli autori, i sottotesti dei volumi citati, sempre nell’ottica di un cambiamento possibile, di una trasformazione e di una rivoluzione interiore. In un’intervista del 2002, Bowie ha dichiarato: «Ho trascorso una parte enorme della mia vita in cerca di me stesso, tentando di capire per quale motivo esistevo, cosa mi rendeva felice, chi ero esattamente e quali erano le parti di me stesso da cui stavo cercando di nascondermi». In questa ricerca, il ruolo ricoperto dai libri ci appare oggi in una inedita limpidezza, ricordandoci che la letteratura è un modo per rimettere insieme quelle parti di sé che erano sparse ovunque, come ci ha mostrato sino all’ultimo David Bowie attraverso la musica e la sua biblioteca da viaggio.

categorie
menu