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Vivere nel reale e vivere nelle pagine. Intervista a Jonathan Bazzi



Di Jonathan Bazzi la narrativa italiana aveva un gran bisogno, e questi ultimi tre anni lo dimostrano. Febbre, il suo esordio, è stato, tra le tante cose, finalista al premio Strega 2020 e libro dell’anno 2019 di Fahrenheit Radio Tre. Corpi minori, edito a febbraio da Mondadori, è l’affermazione di uno scrittore che sta rivoluzionando la letteratura contemporanea.

Un romanzo onesto e schietto, in cui la memoria è messa a nudo da una penna capace di raschiare la superficie del mondo narrato per scendere fino al fondo di sentimenti intimi e insieme universali. I ricordi di Rozzano e il presente di Milano, il sesso con gli sconosciuti incontrati sulle App e l’amore per il nuovo compagno, la facoltà di Filosofia e lo Yoga. Jonathan Bazzi ha scritto un libro che ha il grande pregio di dialogare con le corde più sensibili di questo nostro contemporaneo avulso, dandosi senza remore.

Dopo un esordio come il tuo, tornare in libreria non dev’essere stato tanto facile. Com’è andata, e come sta andando?
Direi bene, sono molto soddisfatto. Dopo Febbre, mi premeva dimostrare di saper scrivere. Non solo di avere una storia personale interessante, ma anche di essere capace di scrivere, di avere una penna valida. Ci tenevo parecchio e, sotto questo punto di vista, credo stia andando bene.

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Perché era così importante?
Perché con Febbre ho patito certi fraintendimenti, tra me e i lettori – ma pure tra me e parte della stampa, nati da alcune scelte linguistiche che ho operato. Ho come avuto l’impressione che in tanti abbiano pensato che lo stile usato in Febbre fosse la mia sola possibilità di scrittura, il mio limite. Ma così non è, e volevo dimostrarlo. La lingua scarna del mio primo romanzo è stata vista, presa come la sola cosa che fossi capace di fare, e mi è dispiaciuto un po’.

Be’, d’altra parte la lingua si adegua alla narrazione.
Sì, appunto. In Febbre da una parte, nei capitoli su Rozzano, c’era il racconto di un adolescente e in quelle pagine volevo riprodurne mimeticamente i suoi pensieri frammentati. Dall’altra, nei capitoli sulla febbre, c’era il racconto di un corpo fuori controllo – richiedeva una lingua spezzettata pure quel caso ma per altri motivi. Scrivendo quel libro, quindi, sentivo di non poter indugiare in autocompiacimenti stilistici perché il risultato avrebbe frizionato. La lingua doveva essere aderente al racconto. Da qui, lo stile che molti hanno pensato fosse la mia unica possibilità.

Scrivendo Corpi minori, invece, sentivi di poter usare un registro diverso?
Sì, tant’è che questa volontà di dimostrare di saper scrivere in un altro modo è venuta fuori spontaneamente. La storia di questo mio secondo romanzo, in fondo, si occupa di un periodo della vita del protagonista che, per certi versi, è molto distante dal periodo raccontato in Febbre. Il Jonathan di questo libro è più padrone di sé, intraprende un percorso personale che, pur con i suoi tanti avvicendamenti, ha una certa direzione. Jonathan qui studia filosofia, legge – e non solo i testi universitari, si nutre di qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. È un personaggio più attivo, sia rispetto al mondo sia pure rispetto a sé stesso – prima le cose gli capitavano e basta, ora non è più così.

Cos’è arrivata prima? La voglia di dimostrare di saper usare la lingua o questa storia, che chiedeva essa stessa un nuovo registro?
Sono arrivate assieme, credo. L’una tirava per la giacca l’altra.

Parliamo del titolo, adesso. Com’è nato, e qual è il significato?
Quel che volevo raccontare è la deriva problematica, a tratti forse patologica, dell’innamoramento. Quel luogo che ci trascina a porci un gorgo di domande compulsive nel tentativo di capire l’amore. Per questo motivo dapprincipio il titolo a cui avevo pensato era La decostruzione di un amore – variazione della canzone di Ivano Fossati, resa famosa dall’interpretazione di Mia Martini. Fin da subito, però, mi è stato detto, dalla mia agente soprattutto, che non era un titolo funzionante. Poi, in fase di scrittura – ero già piuttosto avanti, è arrivato questo tiolo, Corpi minori. Non ricordo esattamente quando e come, ricordo però che mi ha attraversato la mente come una saetta. Mi è piaciuto tanto, l’ho segnato tra le note del cellulare e l’ho lasciato sedimentare. È un termine che in astronomia ha un significato ben preciso e che con il mio romanzo ha tanto a che fare. Sta ad indicare i corpi più piccoli, quelli che nello spazio fluttuano attorno ai corpi maggiori, che vorticano attorno ai corpi più grandi e pesanti. Ecco, è stato questo concetto a catturarmi e affascinarmi perché si lega bene a quello di desiderio, che nel romanzo è centrale, così come lo intendo io.

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Come lo intendi tu?
Ha a che vedere con l’attrazione che i corpi maggiori operano su quelli minori e sul moto perpetuo di questi ultimi attorno ai primi. Quando desideriamo, in qualche modo, orbitiamo attorno alle persone e ai luoghi che, siamo noi stessi a farlo, eleggiamo oggetti del desiderio sentendoci, in questa dinamica, corpi minori. Corpi mancanti, difettosi, inadeguati. È un’idea di desiderio con una forte connotazione gerarchica – ma, d’altra parte, se il desiderio opera questa separazione tra corpo maggiore e minore di uguaglianza non si può parlare.

In cosa si traduce questa disuguaglianza?
Nell’abuso di potere che troppo spesso vediamo all’interno di una coppia. In gesti poco corretti, accadimenti tristi – o anche violenti, purtroppo.

In questa subordinazione le relazioni possono funzionare?
No, credo che le relazioni realmente funzionanti siano quelle in cui i ruoli, in qualche modo, fluttuano. Sono quelle in cui c’è uno scambio: su certi temi, in certe occasioni, l’uno è corpo maggiore e l’altro minore, su altri è viceversa. In questo modo si crea un equilibrio, si va bene o male a pari.

Sia in relazione a questo discorso, sia anche a certi accadimenti del libro, mi domando, ti domando: desiderio e paura coincidono, quindi?Per certi versi, sì. Tutte le forme di paura si legano a delle strade, a dei cunicoli sotterranei, che portano al desiderio. Sono manifestazioni, ma al negativo, del desiderio, dell’attrazione.

Alessandro Giammei recensendo Corpi minori su Domani ha sottolineato come l’omosessualità in questo romanzo non sia un tema, ma un dato di realtà. È, a conti fatti, un elemento di novità nella narrativa italiana. Le cose stanno cambiando, sotto questo aspetto?
Dei segnali ci sono. Lo stesso romanzo di Mario Desiati, Spatriati, pubblicato da Einaudi l’anno scorso, in qualche modo fa un lavoro simile. Pure in questo libro l’orientamento sessuale c’è pur non essendo centrale: il fuoco è altrove. Sta accadendo, insomma, e non solo in letteratura. Prendi la partecipazione di Mahmood e Blanco a Sanremo. Le loro esibizioni sul palco dell’Ariston, e la chimica che hanno portato, è qualcosa che molto ha a che fare con il discorso che stiamo facendo. Si tratta di una dinamica che attraversa le differenze, che non le concepisce come contrapposizioni. Finalmente si comincia a lavorare un piano trasversale, che prescinde quelle che un tempo erano delle divisioni: la diversità è comunione, ricchezza da condividere.

Parliamo della famiglia, ora. L’abbiamo scoperto in Febbre, lo leggiamo anche in Corpi minori: con alcuni componenti della tua famiglia non hai rapporto. È stato doloroso scriverne?
Doloroso direi di no, però, me ne sono reso conto soprattutto a posteriori, in quest’ultimo romanzo ho modificato il mio sguardo rispetto a molte situazioni che hanno a che vedere con la mia famiglia e il mio passato.

Che intendi?
Jonathan in Corpi minori avanza una possibilità autocritica che in Febbre era assente. Nei confronti del padre, ad esempio, prima era netto, molto duro, ora, invece, ho l’impressione che faccia un tentativo di comprendere le circostanze che hanno portato a determinate scelte – scelte del padre, intendo. Comincia a capire che andare avanti con questa sorta di resa dei conti continua, che non ammette tregue, è inutile e dannoso per tutti, specie per sé stesso. Poi, aldilà della figura del padre, Jonathan in questo romanzo parla anche della sorella, che in Febbre era praticamente assente, trattandosi, negli anni raccontati, solo di una bambina. Jonathan qui parla anche del suo ruolo di fratello, del senso di colpa che prova per averla lasciata lì, a Rozzano. Per mettersi in salvo, lui deve abbandonarla, in un certo senso, e solo a posteriori, appunto negli anni che racconto in Corpi minori, deve fare i conti con il senso di colpa.

Nei tuoi romanzi hai fatto un lavoro sulla memoria piuttosto importante e impegnativo. In Febbre racconti gli anni della giovinezza attenendoti alle emozioni di quel periodo. In Corpi minori racconti un’età più adulta servendoti dei sentimenti di quegli anni. È stato difficile parlare di queste fasi della tua vita senza contaminarle con lo sguardo che hai oggi?
Febbre l’ho scritto in modo istintivo. Ho trattato emozioni con cui convivevo da molto tempo e che sentivo di voler oggettivare delle forme precise. Corpi minori, invece, è più ragionato sotto tanti punti di vista. La distanza che pongo tra realtà e rappresentazione aumenta e diventa anche un tema. Una differenza che mi ha permesso di preservare, rispetto alla scrittura, i diversi punti di vista dei diversi periodi raccontati.

Vivere nel reale e vivere nelle pagine: è questo che diventa un tema?
Sì, esatto. Vivo quel che mi succede con un certo grado di separazione rispetto agli stessi eventi. Ai miei occhi, vivendo un accadimento, ciò che mi si para davanti si dà già come una scena. Sono una sorta di spettatore esterno di tanti fatti che mi accadono, direi, e forse è per questo che mi viene così spontaneo fare un uso diretto del materiale autobiografico. Con questa mia non aderenza alla realtà, quel che mi succede prende fin da subito la forma di un materiale narrativo. Vivo così: trattengo Jonathan del mondo per portarlo sulla pagina.

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