«[…] è nell’infinito spazio interno al quale si sente appartenere
che le immagini appaiono inaspettate come stelle cadenti,
mute come i sassi che precipitano nel vuoto;
le guarda con il volto rivolto verso l’alto come un bambino ammirato;
provengono da un tempo lontano: frammenti di comete.»
Filippo Tuena, Le galanti
È difficile aggiungere un ulteriore commento a Valzer con mia madre da ragazza di Filippo Tuena (Oligo Editore) dopo avere letto l’introduzione di Chiara Fenoglio il cui sguardo attento si sofferma sulle scelte narrative e linguistiche di questo magnifico racconto, e sull’importanza della memoria in tutta l’opera dello scrittore, dai Memoriali sul caso Schumann a Le variazioni Reinach fino a Le galanti. Alla memoria, e soprattutto ai suoi inciampi, ai suoi fantasmi, Tuena ritorna sempre, ossessivamente, qui evocando ricordi non propri ma della madre, anche se come osserva Fenoglio «memoria infantile e memoria materna trasmessa al figlio in forma di racconto si confondono». È vero, i ricordi non ci appartengono mai del tutto, e il più delle volte sono ricordi di secondo grado: quante volte, per esempio, ci si appropria senza volere dei ricordi altrui credendoli nostri?
E se non può fare a meno di citare (e omaggiare) nella sua “A mo’ di introduzione” che apre il racconto “Le magiche parole del X libro delle Confessioni di sant’Agostino”, al contrario del filosofo, per il quale ricordare è un atto volontario, per Tuena ricordare è «il risultato di una fievole resistenza all’assalto dei ricordi disordinato e imprevedibile che porterebbe all’oblio nella sua confusa insorgenza se non fosse che la voce narrante ha cercato di porre rimedio a questo caos primordiale per come ha potuto».

La voce narrante, anzi le voci: perché in Valzer con mia madre da ragazza a prendere parola, oltre al narratore vero e proprio segnalato dal corsivo, sono anche la madre dello scrittore e lo scrittore stesso, entrambi attori e spettatori della scena allestita dalla memoria. I ricordi infatti si portano con sé un coro di voci che il passare del tempo ha trasformato in un’eco crudele e dolorosa che ritorna indietro al mittente sempre uguale a sé stessa. Ma se il dialogo tra vivi e morti appare impossibile, è al monologo che è riservato il potere di ridare voce a chi non c’è più – la madre – e quando nel suo monologo la madre si rivolge con il tu al figlio si ha l’illusione di parlarsi ancora. Quale luogo migliore di un teatro allora per fare “incontrare” madre e figlio, per mettere in scena ricordi di ricordi? «Nell’infinito Teatro della memoria», per usare un’espressione dello stesso Tuena tratta da Le galanti, tutto diventa possibile, anche un ultimo congedo dalla propria madre a ritmo di valzer.
Sia attori che spettatori, in modo differente, sanno bene quanto la memoria sia importante: le parole e i gesti del teatro sono dettati dalla memoria, così come il principale archivio di uno spettacolo teatrale è la memoria; uno spettacolo che potrà poi continuare a vivere nella memoria dello spettatore. «Sogno adesso di trovarmi all’interno di un immenso teatro a ferro di cavallo, molto luminoso, con un palcoscenico vastissimo e profondo», dice il narratore all’inizio del volume. Ma più ci si inoltra in questo teatro più la luce diventa fioca: a ben guardare le tappezzerie si rivelano cadenti, le laccature dei palchi screpolate, i restauri maldestri. C’è qualcosa di «inquietante» (l’aggettivo è del narratore) in questo teatro che anticipa il momento in cui la madre dello scrittore si alzerà in piedi dalla platea dei non vivi per prendere la parola:
«Non so perché sia qui, né so perché mio figlio mi abbia svegliato dal mio sonno ormai eterno e perché esiga da me un contributo di testimone in questa nebbia, in questo teatro disadorno e fatiscente.»
La madre inizia a ricordare così la sua adolescenza in Istria, ad Abbazia e a Fiume, le compagne di Liceo di origine ebraica che quando si trasferì a Roma le lasciarono per ricordo dei disegni su un quaderno, le emicranie ereditate dal padre (per Tuena il nonno Diego). E a questo proposito la madre ricorda di quando il figlio per aiutarla a sopportarne il dolore le offriva le ventose delle frecce giocattolo per massaggiarsi le tempie. Un ricordo tenerissimo. Siccome è Tuena stesso a disegnare a matita il teatro disadorno e fatiscente da dove prende le mosse la storia, mi piace pensare che lo schizzo abbia preceduto il lavoro di scrittura, che il segno della mina morbida sul foglio abbia anticipato, preparato il terreno per le parole, e non viceversa. Sul palco, al centro, c’è una figura appena accennata. È la madre? O «l’autore come bambino»?
«Quel qualcuno potrei effettivamente essere io, come attore principale della scena che si viene a recitare, se non fossi in maniera inattesa anche spettatore di questa recita e come accade nei sogni o anche nella mente di uno scrittore che scrive di se stesso, ecco che mi trovo da entrambe le parti dello spettacolo e poiché quello di cui sto dando conto è un sogno e ne sto dando conto in un libro, non fa nessuna differenza e questa mia doppia apparizione non è assolutamente incongruente.»

C’è qualcosa di abbozzato, di non finito nei disegni che accompagnano il racconto di Tuena: il teatro, la carta geografica con segnate Abbazia e Fiume, una medaglia commemorativa, un valzer al Caffè Quarnero. Del Caffè Quarnero è riportata anche una foto in bianco e nero identica al disegno, ad eccezione delle due figurine danzanti in primo piano schizzate dall’autore. A volte infatti le fotografie sostituiscono i ricordi, diventano esse stesse ricordi. I disegni dell’autore rispecchiano la sua scrittura che, per quanto curata dal punto di vista sintattico, predilige il frammento, la miniatura; tende altresì al non finito come la stessa madre acutamente rileva:
«Penso che questo mio ragazzo ami la sottile amarezza del non finito, e penso che adesso in questa rappresentazione della mia memoria, finalmente potrà manifestare la sua insana passione per i frammenti, i pensieri accennati, le occasioni mancate.»
Oltre a essere un ricordo della propria madre, il racconto di Filippo Tuena è anche un’interessante riflessione sulla scrittura nonché il testamento poetico dello scrittore. E che questo sia affidato alla “voce” della madre mi sembra una scelta toccante e insieme raffinata.