anni settanta
Comma 22

Utilità e tempo. Cinque giorni fra trent’anni di Francesco Fiorentino



Cinque giorni fra trent’anni di Francesco Fiorentino (Marsilio) si poggia su una doppia sfida felicemente vinta: la narrazione al presente e il rifuggire dagli espedienti romanzeschi, dagli scioglimenti dei nodi che il tempo crea, la narrazione registra, e forse il lettore si prefigura. La duplice sfida qui paga doppiamente. In questo insieme di storie (e di donne), emerge la sottile musica del tempo, un ritmo di momenti affastellati che riproduce come i personaggi vivano la loro vita, scorciati nella possibilità di guardare avanti e indietro.

cinque giorni fra trent'anni

Il primo episodio, Roberta, ad esempio comincia con un adescamento alla suspense narrativa: il giudice Marti, trent’anni dopo, scopre di essere stato nominato esecutore testamentario dell’enigmatico Guido, conosciuto ai tempi dell’università e della contestazione dei primi anni Settanta, con cui non ha rapporti da tempo. Dopo questo inizio intrigante, emerge che forse, nella vita in generale, se ci sono colpi di scena e rivelazioni, spesso vanno di pari passo e quindi ci sorprendono sempre fino quasi a essere irriconoscibili ‒ e talvolta nulla davvero si rivela, forse perché nemmeno tanto era stato velato.

Il libro tratteggia infatti la «vita vagheggiata», dove si intravede la felicità vagamente desiderata dai personaggi, ma anche il loro vagheggiare sognante, in un’onda di vaghezza dolorosa e indecifrabile, talvolta grottesca. La narrazione, infatti, fa vagheggiare spesso possibili risoluzioni consolanti delle vicende incentrate attorno all’alta borghesia presa dai suoi bassi istinti, che dopo le passioni giovanili della contestazione nel 1968 si avvia a detenere il potere senza che delle ribellioni giovanili resti traccia alcuna.

In questo libro, gli uomini, maschi alfa abilissimi a usare il potere in ogni sua forma, agiscono poco e male in amore. Le donne, invece, danno il titolo agli episodi e forza all’azione. Ma anche con loro la narrazione abilmente gioca con il paradosso. La donna più potente è la semplice Roberta che esercita in maniera pigra e svogliata la seduzione ‒ nella caratterizzazione, per inciso, Fiorentino eccelle nell’individuare un dettaglio discosto che con uno scarto dalla convenzione induce così a immaginarsi, senza poterla classificare, Roberta come «un tipo» la cui «specialità è sedersi in attesa di esibirsi abbracciando le ginocchia, i piedi sulla poltrona», quasi memore dell’ennui enigmatico delle signorine ai lati della scena nei quadri di Degas.

C’è infatti un potere superiore a quello accademico, politico, sociale: il potere inesorabile e non umano del tempo che racconta di una estraneità universale, nelle vicende e nei personaggi, forse nelle cose stesse che capitano e in quelle che sarebbero dovute capitare. Pare quasi un’allusione ben celata all’Educazione sentimentale, dove al fallimento retrospettivo di ogni illusione si assomma la presenza di una sola dote borghese, la grigia cocciutaggine nella carriera. Una futilità (per citare la precedente, bella prova narrativa di Fiorentino) delle cose umane così profonda e cruda da escludere alcun inutile pathos, ad esempio nelle riflessioni di Marti quando scorge estraneità in tutto, compreso il tempo che dovrebbe dare una spiegazione: «ormai si sente un estraneo non solo rispetto a loro per quello che sono diventati, ma anche rispetto al passato che li accomuna. È come se lo avessero espropriato della sua biografia, cacciandolo via dalla sua stessa vita».

Tutti sono qui un po’ espropriati delle proprie biografie. Si tratta, per dirla con Pierre Michon, di vite minuscole, brevi biografie che adombrano alcuni snodi cruciali i quali hanno però la dannata abitudine di non esserlo. Lo si vede anche nelle donne attive, quale Emilia, che arriva presto a tutto, compreso l’orgasmo: «è come se avesse premura di fare altro e si stesse concedendo per compiacenza, non tanto per il proprio piacere quanto per il piacere del piacere di Arturo». Nonostante le promesse, la sua vita successiva pure rifugge dallo scioglimento, anche quando la vita le offre un’occasione per avere equivoca fama.

Di qui, però, l’utilità del tempo: se lo si ascolta senza volerlo ingabbiare in trame confortanti, se si segue il succedere di momenti senza pregiudizio, il tempo narra le cose con una sua implicita ironia che chiede di essere riconosciuta. A misura che il libro procede, la narrazione, pur mantenendo il tempo presente, gioca con il ritmo accelerando e assieme scorciando la lunghezza della narrazione. Una simile velocità il tempo mostra per narrare le vicende di Ada che, reduce da storie tempestose, sposa la medietà e il noioso, assente e anziano procuratore Vertani. Alla morte di Ada segue un valzer grottesco di innamoramenti, rivelazioni, tradimenti. La vera rivelazione per il vedovo riguarda però soprattutto sé stesso, una scoperta finale, incerta quanto nitida, lontana dagli scioglimenti convenzionali della gelosia: «è stato implicato in un raggiro a causa della sua inabilità a farsi amare». Il raggiro ‒ queste storie hanno tutte un secondo momento dove il tempo fa emergere un’ombra imprevista e proficua. La giudice Lea scopre così che esiste un «sentimento altrettanto doloroso e umiliante» che la gelosia, l’invidia. E un raggiro struggente anima l’ultimo episodio, Carla (movimento di fulminante brevità, come se la narrazione mirasse con sempre più velocità a raggiungere la conclusione prefissata dal tempo).

In questo romanzo appassionante nel suo ascolto spassionato della musica flebile del tempo e della vanità dei nostri desideri di scioglimento intrappolati nel presente ripetuto, tutti i messaggi rivelatori, i biglietti, le lettere, i file, finiscono per essere eliminati o accantonati, quasi in allusione alla sfiducia verso la narrazione che dovrebbe sciogliere i nodi. Non c’è mai abbastanza coraggio per apprendere l’arte dell’oblio, come recita l’epigrafe tratta da Borges. Ma perlomeno nella sapiente arte narrativa della fuga che quel tempo ausculta e spiega, l’autore del libro è molto ben ferrato.


In copertina, uno scatto dalla mostra “Alza il triangolo al cielo