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Tornare dal silenzio. Intervista a Violetta Bellocchio

Partendo dall’ultimo romanzo “Electra”, la scrittrice si racconta come donna, intellettuale e femminista

Dialogare con Violetta Bellocchio significa attraversare mondi. Raccogliere una ricchissima messe di suggestioni che spaziano nelle geografie, tra i mezzi, e nelle urgenze. Come l’identità di colei che dà loro voce, in un lungo pomeriggio d’inverno, tornata ad una Milano da cui aveva preso le distanze, come dal suo nome. Che riporta invece sulla copertina di un libro, Electra, edito dal Saggiatore, a sei anni di distanza dal precedente.
Pagine dense e rigogliose come il suo pensiero, in cui ripercorre il ritorno a una forma, quella del romanzo, e a un vissuto, il proprio, che ha voluto mutare nel modo più radicale, rifutandolo. Per anni, Violetta Bellocchio è scomparsa nel silenzio. Al suo posto – ma lo sappiamo solo oggi – un corpo senza volto: Barbara Genova, che ha scritto poesie in inglese pubblicate dalle maggiori testate del mondo e lavorato per una mediacompany conservatrice, dal cui angolo di osservazione ha visto arrivare il mondo come oggi ci sorprende. La cesura tra le due vite è una violenza subita, e il bisogno di uno spazio di silenzio, di identità senza forma, per riconoscere se stessa. E fare il punto sulle forme di sè e del mondo.

Violetta Bellocchio

Come stai, oggi?
Ho bisogno di essere impegnata sul lavoro creativo continuamente, altrimenti tutto mi mette in crisi; nel momento in cui io sto lavorando anche a un progetto privato che non ha ancora visto nessuno, anche solo qualche ora al giorno, diventa tutto affrontabile, sono una persona più semplice e più concreta. Non sono mai stata così serena come quando scrivevo sotto pseudonimo ed ero orgogliosissima di ogni piccola cosa che avevo scritto, prodotto, mandato in lettura alle riviste. A me è mancato il lavoro a porte chiuse sereno, senza un giudizio, negativo o positivo che fosse, che invece è stato sempre eccessivo, vincolato al nome. Agli occhi degli altri ero brillantissima o al contrario un’incapace ben piazzata. Non ero né l’uno né l’altro.

Da dove arrivava la Violetta Bellocchio autrice?
A me sembrava di aver avuto una gavetta molto lunga perché avevo lavorato per i giornali molto a lungo, ma in un altro periodo storico. Arrivare a scrivere il mio primissimo libro mi sembrava una cosa che succede a tutti, o quasi. Solo dentro il mondo del libro ho capito che non era così. Avevo sempre pensato: «qualcuno ti nota, vero?». E di conseguenza che dovessi essere sempre sul pezzo. Oggi so che posso prendermi molto più tempo per fare.

Un privilegio con il suo rovescio…
Chi comincia tranquillo non lo sa quanto ti premono le aspettative. Come artista di seconda generazione, chi ha il beneficio di star tranquillo all’inizio, o di avere un inizio graduale, si gode tutte le piccole cose che arrivano.

Il tuo primo libro ti aveva consegnato a una grande visibilità, in effetti. Anche alla TV.
Fu un grosso errore andare in televisione col senno di poi, però sei lì, te lo propongono. Pensi: succederà che venderò qualche copia in più. Se avessi saputo che la gente mi avrebbe riconosciuto al supermercato, al Pronto Soccorso, che mi avrebbero detto più “ti ho visto in televisione” che “ho letto qualcosa di tuo, che mi è piaciuto o non mi è piaciuto” ci avrei pensato due volte. Ma finché non ti viene proposto, tu non sai come risponderai: siamo tutti bravi a dire: “questa cosa non la farei mai”, vuoi vedere quando poi tu sei in promozione con un prodotto che poi è un film un libro in qualche modo, devi stare in circolazione, devi stare nel mondo. Magari ti prendono in un momento di fragilità o ti convinci da solo che è il modo più giusto.

Ma allora, cos’è la fama?
Quella che ho avuto, una gabbia: non ha avuto delle ricadute significative su quello che ho scritto dopo. Non mi ha messo nelle condizioni di fare un libro migliore. Chiunque abbia avuto il suo volto sul giornale viene vissuto come uno che ha tutto. In realtà la visibiltà non significa essere più ricchi, più apprezzati o fortunati, o firmare contratti sostanziosi. Vieni solo fermato per strada: sei una presenza nelle case degli altri e non te ne sei neanche reso conto. 

E poi?
Come fa chi ha un volto pubblico ad essere psicologicamente preparato quando una persona che si vuole suicidare, un sabato sera qualsiasi ti scrive su Instagram “Lo faccio o  non lo faccio?”, aspettandosi che tu abbia la parola giusta per indirizzare la tua vita? È una assenza di filtri impensabile. Sto lavorando a un long form intitolato: “gente che suona alla porta” dedicata a tutte le forme di invasioni domestiche che ho vissuto: come le persone che cercavano il Bellocchio regista, a cui dire “No, guardi, io non ho neanche il suo numero di telefono”, o come quando durante una residenza uno mi ha seguito per per ore. Quando tu vieni vista, presto diventi cosa di qualcun altro. 

Ti hanno anche ingabbiato dentro a un certo tipo di narrazione di te?
Quella di femmina. Ma non rifiuto il femminile: anche sparendo, ho creato uno pseudonimo femminile. Lo usavo per vivere nel mondo, avevo bisogno che corrispondesse anche alle interazioni quotidiane. Anche se soffrivo una certa costruzione come artista femmina.

Anche come scrittrice?
Sono passata a una seconda lingua obbligante, dove sei incentivato a usare i pronomi. Non l’ho trovato una forzatura. 

La cesura che dà origine alla tua nuova identità, e a questo libro, è una violenza subita. Cos’hai pensato, dopo?
«Le stai sbagliando tutte». Il giorno dopo c’era un servizio fotografico e avrei potuto stare zitta e non denunciare. Invece l’ho fatto, «per senso civico, non perché mi considero una parte lesa» dicevo. Non ho capito che stavo dando avvio a una denuncia, speravo di cavarmela con un: faccio presente che è successo questo. Mi hanno risposto: «Signora, lei ha subito una violenza sessuale». Mi veniva quasi da ridere. Per me è stato molto più pericoloso tutto quello che è successo dopo: trovarmi a rispondere con buona volontà, voler essere collaborativa, parlare con poliziotti e medici. Reagire alla loro volontà di scoprire se il mio aggressore mi aveva riconosciuto. Io non lo so, ma non mi stava seguendo. 

L’autorizzazione a dire, a pensare, a elaborare questo vissuto mi sembra una delle spine dorsali del libro. Scriverne ti ha fatto bene?
Non credo nella catarsi, nella guarigione. Ma è stato anche elettrizzante ripercorrere tutti quei momenti, insistendo sui picchi e sul grottesco. Allora, io ero molto spaventata. Poi ho avvertito il beneficio di una sana distanza, da scrittore. 

Pochi mesi dopo è cambiato il mondo, anche quello letterario
Per molti è stata un’occasione di rifare tutto da capo, ha dato un’altra possibilità. Tra il 2020 e il 2022 sono nate cose nuove, alcune stanno cambiando: è nata una quantità enorme di nuove riviste, anche online. Tanta gente che prima non scriveva ha cominciato. E poi c’è chi c’è rimasto sotto col complottismo: spesso sono persone che hanno perso amici, familiari…

Qual è il rapporto tra questo mondo distorto e il maschilismo violento?
Gli studi hanno approfondito le sacche intorno al complottismo: vengono manovrate, ma nascono da un disagio. Spesso c’è chi dice: andiamo a suggerire che se stanno così è per colpa delle donne ipergamiche, con troppi diritti. Alcuni gruppetti si sono radicalizzati. A metà degli anni Dieci in moltissimi luoghi di aggregazione legati ai videogiochi è stata gettata la rete dalla destra in Occidente. Molti sono disponibili a fare attivismo se gli dai un nemico o se gli dici che la loro vita sarebbe perfetta se i videogiochi non fossero woke. Spesso c’è una reale insoddisfazione rispetto ai posti di lavoro, ad alcuni casi mediatici. E poi ansia, depressione. Ma è difficile parlare di maschilismo perché molti gruppi di destra in Occidente hanno cura di elevare alcune donne al loro interno, per mostrarsi. Hanno fatto fare carriere fulminee a persone di pelle non bianca, a patto che siano lì per se stesse e non per un sistema. 

C’è stato un maschile supportivo?
Chi non mi ha considerata una creatura fragile e traumatizzata. O chi non ha cercato di staccarmi la carne di dosso, manipolandomi. Chi è stato neutro e professionale. Ma ho visto anche i rovesci delle dinamiche della pretesa sorellanza. Mi volevano far passare dalla parte del torto, ho subito un trattamento da imputata. Come se la poliziotta che ha raccolto la mia deposizione stesse cercando di farmi saltare i nervi, pensasse che io stessi mentendo. Mi rimangono in mente i toni di voce, ci sono dettagli che ho trattenuto con grande precisione: ad esempio, io che scoppio a ridere al pronto soccorso.

A ridere?
Mi sono brevemente dissociata. Ma a volte chi ti deve proteggere invece ti mette in difficoltà. A me pare che la polizia in certe situazioni sia come il medico: ci va continuamente chi non ha bisogno e chi invece dovrebbe non si fa avanti.

Ma tu come ti ricordi quel giorno?
Ero letteralmente in giro a farmi i fatti miei nella mia città natale, alle dieci di sera; è stata una cosa più paragonabile a uno scippo: qualcuno effettivamente è arrivato correndo a estrema velocità staccandomi da terra e facendomi fare un volo di metri sbattendo contro l’asfalto. 

Poi hai denunciato, ma non pensavi di essere, racconti, una «vittima credibile»…
Chissà se sono diventata una persona stramba o poco affidabile perché ho chiesto di cambiare un sinonimo. Il verbale diceva: non sono andata subito in polizia perché «provavo un profondo senso di vergogna». Non l’ho mai detto. Sono irritata, provo spaesamento. Fossi stata un uomo non avrebbero scritto vergogna. Ero a disagio. Rileggendo, mi sono allarmata che ci fosse una riga in più su presunte motivazioni dietro il mio gesto. 

Ma tu, come ti sei sentita?
Non ho la minima idea se sia stata una punizione personale, un reato a caso o una strana commistione tra le due. Certo, ti passa la voglia di salire su un palco. Non volevo neanche salire su un taxi, pensavo: chissà dove finisco. Succede, nella testa di chi fa questa esperienza. Ne ha scritto con grande maestria Virginie Despentes in King Kong Theory, un libro breve e molto incisivo: altre situazioni e ben altri luoghi, e altro contesto sociale o linguistico.

Parli spesso di “credibilità”.
Sì, perchè non ero credibile come vittima di reato. Immaginavo mi prendessero per una mitomane che ha cercato di intrufolarsi in questura chissà per quale ragione… Testimoni non ce n’erano, non ho visto fotografie, neanche poche ore dopo, quando il viso del cosiddetto aggressore era molto fresco nella mia memoria. Per mesi poi avuto paura di trovarmi davanti la stessa faccia, come aggressore di un’altra ragazza, e pensare: potevo fermarlo io e non l’ho fatto. 

Non è una forma di educazione che abbiamo introiettato come donne?
Addetti ai lavori dicevano: «Stai zitta, io ti credo, ma verrà fuori chi dirà che ti sei inventata tutto perché hai il libro in uscita e devi far parlare». 

Come si fa a raccontare, a dare valore al vissuto senza che sia messo in discussione?
Quando ero alla terza stesura, ero piuttosto irritata perché non stavo scrivendo come volevo, e una persona cara ha commesso l’errore di dire che forse andava bene così. Ho sbottato: «Io faccio letteratura!». Il libro deve essere eseguito in un certo modo, altrimenti tanto vale fare due foto su Instagram e scrivere una caption. Scrivere non è cercare freneticamente di dire: questo dolore l’ho avuto anch’io. 

Di quel momento, tu racconti soprattutto l’istante in cui hai guardato in faccia il tuo aggressore.
Straniante. Fa qualche passo indietro con tutta calma, ti guarda con un ghigno che gli apre la faccia da orecchio a orecchio, gli occhi illuminati per la grande impresa…

Quando invece hai sentito di aver elaborato? 
Ho scritto quello che volevo scrivere, è uscito con un editore rispettabile, io non sto a piangere in televisione. Il momento più pericoloso nella vita è quando ti senti con le spalle al muro: hai fretta, prendi le decisioni peggiori per te, quelle evitabili, per farti notare; cominci a parlare di cose di cui non sei esperto per prendere l’onda, oppure dai per scontate troppe cose. 

Prima, però, c’è un momento in cui dici «mi sono fatta piccola, mi sono rimpicciolita».
Quando finalmente ero uno scrittore normale che faceva delle cose da persone normali, produttiva, entusiasta e contenta di chiacchierare con gente che in teoria stava nella stessa barca, improvvisamente ho cercato di tenermi un’amicizia sminuendo molto il divertimento di quello che stavo facendo. Ho capito come mai spesso le artiste non fanno niente finché qualcuno non dice loro che sono brave, finché non c’è un’approvazione o un incoraggiamento, uno sguardo di qualcuno che dà loro il permesso. 

A proposito di sguardi e di permesso. Tu porti un cognome ingombrante…
Ho capito di avere ereditato molto da artisti non celebri che vengono dal lato di mia madre, alcuni sono persone che hanno avuto vite operose, però hanno lasciato indietro poco. Mia zia pare fosse una musicista molto dotata, ma non essendoci nessuna registrazione abbiamo solo i ricordi di famiglia. Un artista non star che invece si lascia dietro una quantità altissima di materiale prodotto è Bruno Ravasi, poeta e architetto. Ma dei parenti non parlo, perchè gli spettatori e i lettori hanno il diritto di avere un rapporto con le loro opere senza doversi preoccupare di quello che qualcun altro ha detto. Diciamo che io ho bisogno di produrre, un po’ come mio padre che è un poeta in attività, pur avendo 88 anni, in famiglia c’è una vena produttiva.

E l’influsso della recitazione?
Spesso gli scrittori si trovano a fare un po’ una vita da attori, ad aspettare che qualcuno decida di dargli spazio. È una vita che fa soffrire la maggior parte delle persone. Io ho voluto proteggermi da una certa performatività. Adesso invece per me è facile scrivere di nuovo, e accompagnare le parole nel mondo. 

Che bambina, che ragazza sei stata?
Ho vissuto una serie di storie abbastanza forti perchè volevo vivere, non stare in soggiorno, mi sono sottratta ad alcune dinamiche familiari per questo. Ma il mio concetto di pericolo non raggiungerà mai gli apici che racconto in questo libro. Non potrò fare più niente di così artisticamente rilevante, di così radicale, come sparire dalla circolazione e ripartire in un altro modo. A volte mi chiedono se ho avuto paura, ma io stavo benissimo.  

E prima?
Alcune cose non erano andate come avrei voluto, alcune decisioni non erano state prese con la necessaria lucidità, pensando di rincorrere chi deve prestarti attenzione. Ma è un circuito da cui può essere difficilissimo uscire, ti chiedi: se mi tolgo da qui dove vado? Io oggi rispondo: passa a vita privata, vai a fare qualcos’altro, accetta di sparire per un po’. 

Tu lo hai fatto diventando Barbara Genova. Cos’ha fatto?
Barbara Genova ha mandato poesie in lettura a praticamente qualunque rivista letteraria del mondo compreso il New Yorker. Ho puntato più in alto. Nel peggiore dei casi mi avrebbero detto di no. Barbara Genova l’ha fatto, con energia ed entusiasmo, Violetta Bellocchio non l’avrebbe fatto.

Sparisci per disinnescare la fama?
No, quello che sono. Per la creazione è bello fallire in privato, per questo ho amato anche le lettere di rifiuto.

Come si torna dopo che si è spariti?
Non si torna. Dipende, poi, da chi deciderà di rivolgerti di nuovo la parola e come. C’è un vecchissimo amico che mi ha riaperto la porta senza domande, ha tracciato una riga. Ha detto «Hai fatto quello che dovevi. Sono contento che tu sia viva, speravo che il fatto che non ci fosse nessuna cattiva notizia fosse un buon segno». 

Perchè di questa scomparsa hai scelto di fare un libro?
Purtroppo i libri durano, ma allo stesso tempo vengono consumati in fretta. Questo doveva essere un libro, per me, non una serie audio o un formato diverso. Ha un inizio, un centro: non è un cantiere aperto. È stato faticoso, perché avevo rimosso quanto potesse esserlo la forma lunga. Uno dei libri che io ho letto da Barbara, di Carmen Machado, si chiama Nella casa dei tuoi sogni: ripercorre in maniera letteraria una vicenda di lunga violenza psicologica. Ci ho riconosciuto molte cose. Lei è un’autrice letteraria, quindi durante tutto il libro si pone il problema del linguaggio, del punto di vista. Mi è servita come lettrice e mi ha fatto capire che se un libro poteva aiutare qualcuno aveva senso farlo.

Dici che non è stato catartico. Quindi tu non è che avessi necessariamente il bisogno né di scriverlo né di tornare a scrivere?
Non ho mai smesso; però a un certo punto del 2023 volevo capire se ero in grado di riprendermi la lingua madre. Far vedere che sono capace. Negli anni ci sono state voci che avessi un ghost writer. Non so messe in giro da chi, se per invidia o convinzione. 

Le esperienze attraversate pensi che ti abbiano cambiato la percezione del mondo?
Ho cercato di fare in modo che non succedesse.

Hai detto: «La mia è una vita di pianti in pubblico». Cosa ti fa piangere?
Più niente.

E ridere?
Rido frequentemente, tipicamente ogni volta che leggo un libro di Philip Roth. Uno scrittore che ho cominciato a leggere da adulta. Amo come prepara la storia.

Come Barbara Genova, hai visto arrivare alcune delle urgenze che sono centrali oggi. Ad esempio, c’è un collegamento tra catastrofe climatica e sguardo sulla donna?
L’ossessione del possesso, ad esempio…  C’è un momento orribile di cinismo che ha a che fare col passaggio anagrafico: io mi ricordo cosa dicevano una serie di persone alcuni anni fa, alcune sono cambiate, sicuramente, altri hanno avuto molto successo e sono diventati, ad esempio, discriminatori…

Tu sei femminista?
Ma sì, perché c’è bisogno. Non c’è nessuna parità salariale, però poi parli con persone più giovani che ti dicono: il problema nostro è capire quanto è attivismo reale quanto è posizionamento.

Si parla molto del valore estetico e letterario della forma autobiografica…
Io tengo moltissimo alla forma, alla cura, parte da quello che fai per conto tuo fino a quando viene seguito dalla casa editrice. Ma chi scrive queste storie non sa se i suoi lettori sono lì per la potenza della storia raccontata o perchè scoppia il caso. 

E per te?
Io sono molto soddisfatta di fare non-fiction in questo modo. Avrei probabilmente dovuto cominciare a farlo da prima, ma non avevo la lucidità né il materiale, o l’esperienza di scrittura necessaria. 

E adesso?
Adesso non mi sento sola quando sto lavorando, quando sto scrivendo qualcosa: quindi va bene anche la solitudine, che è sempre relativa. L’accumulo delle pagine è bello, ma lo è anche chiudere: l’effetto che ti fa una deadline, quando senti che la stai in qualche modo rispettando. L’adrenalina del progetto. Se sei triste, sai che puoi essere triste un giorno, non una settimana di seguito. Devi farti passare la tristezza. Ed è disciplinante.




In copertina: Violetta Bellocchio fotografata da Valentina Vasi



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