Comma 22

La parola come gesto. Intervista a Marta Cai



Quando a Milano sono le 18, a Curitiba, in Brasile, è ora di pranzo. Mentre qui è estate – l’estate più calda della Storia – nell’emisfero australe è già (o ancora) inverno. A Curitiba abita Marta Cai, che abbiamo intervistato in occasione della sua candidatura al Premio Campiello 2023.

Marta Cai è l’autrice di Centomilioni (Einaudi), uno dei romanzi in lingua italiana più riusciti dell’anno. Una storia esile raccontata con una lingua strabordante, che inganna le regole della semantica e permette alle sue parole ribelli di battagliare e sconfinare, di occupare tutto lo spazio che possono e non concedere mai requia. Teresa e Alessandro appartengono a due solitudini simultanee eppure differenti. Lei ha quasi cinquant’anni, insegna inglese (ma lo parla male) e vive con i genitori in una trincea di nevrosi ed esasperate ossessioni. La sua è una vita in costante sottrazione e il suo corpo è un vuoto a perdere. Vuole amare, Teresa, ma non sa come si fa. Vuole solo amare e dirsi amata. E allora si innamora di Alessandro, uno studente inconsapevolmente bello come un puledro, un ragazzo abbandonato a sé stesso, senza soldi e senza affetti. Anche Alessandro vuole amare, ma non lo sa. Crede di volere i soldi, la sua ossessione. Il suo unico credo. Centomilioni è una storia di assilli e solitudini, un racconto sui corpi che, ostinati, desiderano senza saperlo fare.

teresa

Partiamo dalla fine. La voce narrante definisce il libro “un’allucinazione della solitudine” e “un elogio del fumare”. Cioè?
È una storia disperata, volevo fare emergere la potenza delle illusioni che provocano terremoti spesso privi di corrispettivi esteriori. Cambiamenti che possono apparire come mere allucinazioni della solitudine. La solitudine è il territorio privilegiato delle allucinazioni. Il fumo, invece, è un bisogno fisiologico in più. Teresa, la protagonista, non può fare altro che regalarsi un ulteriore bisogno. È una cosa in più che si concede, una cosa tutta sua.

Sono anche una via di fuga, le sigarette.
Sono una via di fuga. Il fumo copre, è una coltre sotto la quale ci nascondiamo. Fa un sacco di cose buone, anche se ci fa male. E poi ci autodistrugge, ché è quello che desideriamo un po’ tutti.

E poi fumare ha a che fare con la bocca, paradossale per una donna come Teresa che non bacia mai.
La sigaretta è sempre un bacio mancato. L’unico bacio che Teresa è autorizzata a dare.

Teresa e Alessandro: due solitudini parallele e due modi di desiderare diversi. Lei non riesce a immaginarsi come oggetto desiderante, è bidimensionale e non ha mai fame. Perché?
La solitudine di Teresa è invasa. È la solitudine peggiore, capita a tutti di essere in difficoltà, di sentirsi soli e vedere i propri confini sbriciolati mentre tutti si sentono legittimati a mettere il piede dentro. In quei casi diventiamo prede, ci chiudiamo ancora di più nella solitudine, veniamo rosicchiati. Quella di Alessandro invece è la solitudine di un abbandono. Non ha nessuno e perciò può sognare moltissime cose. Teresa non può sognare niente, invece, non può immaginare sé stessa in un’altra dimensione. La sua vera rivoluzione non è soddisfare un desiderio. Lei scopre il desiderio in sé, proprio come concetto. Non ha fame, perché abbisogna di un altro appetito. A molti sembra una incapace, ma per me è una rivoluzionaria: ha detto no ai surrogati del desiderio. Ha conosciuto il desiderio e sa che non può essere soddisfatto dalle piccole cose.

Cosa desidera?
L‘amore. Qualcuno che la ami.

Torniamo sempre lì, alla fine.
Io sono banale: voglio parlar d’amore.

[ridiamo, ndr]

Non è scontato: sembra che parlar d’amore voglia dire solo essere sciropposi. In realtà, l’amore è una spinta. Anche sociale, se vogliamo, anche politica.
È una spinta verso l’altro, è anche il desiderio di diventare altro da noi. Però amare è un rischio, fa paura. Abbiamo paura di perdere.

Parliamo di Alessandro: lui ha un desiderio erotico verso il denaro.
Anche lui ha paura, vorrebbe qualcos’altro. Vorrebbe l’affetto, l’amore. È stato abituato, però, al fatto che i legami e la felicità passano attraverso i soldi, che il denaro è l’unico click che fa succedere le cose. È schiavo di questo schema. Sa di avere il frigorifero vuoto e sa che per riempirlo occorre che qualcuno – il Vecchio Porco – apra i cordoni della borsa. Dunque, dev’essere carino, deve accontentarlo, soddisfare il desiderio altrui. Mai il proprio. Non conosce un altro modo di vivere.

Il frigorifero vuoto di Alessandro, quello strabordante di Teresa: c’è molto cibo in questo romanzo e ci sono molti animali, molta alterità animale. In questo, Centomilioni mi ha ricordato l’immaginario di Coetzee.
Gli animali sono ipnotici. Osservarli è bellissimo: sembra di guardare una materia prima, la materia prima della vita. Il movimento della vita, l’istinto, la sensibilità. Tutte cose che in questo romanzo vengono compresse, canalizzate. Il gesto di macellare e portare sul piatto gli animali è un modo per impossessarsi di questa forza vitale e farla propria anche in modo violento. L’abbondanza di cibo nella casa di Teresa non fa che paralizzare ogni tipo di scelta. Non è che lei non abbia fame, è che non ha scelta di mangiare quello che vuole. Proprio come Alessandro che però non ha scelta perché non ha nulla e si deve accontentare di quello che arriva. Sono due bestiole che si trovano in difficoltà rispetto all’ambiente circostante. Non sono mai nel loro habitat.

Gli animali hanno un istinto che Teresa e Alessandro non possono avere.
Sì. Alessandro arriva anche a invidiare gli animali che hanno la certezza di quello che vogliono. Lui deve barcamenarsi in tutti i suoi desideri, in tutte le sue identità. Vorrebbe avere l’identità di una formica e invece non sa chi è. È perso nella sua solitudine.

Centomilioni è sorretto da una voce di scrittrice incredibile. Come l’hai trovata?
Cercando di non pensarci troppo, di seguire un ritmo che arriva nella testa, di non imbrigliare le associazioni mentali che mi vengono. Dobbiamo lasciare a briglie sciolte la voce che abbiamo dentro. Soprattutto, questa voce credo arrivi dalle mie tante letture disordinate.

Nel discorso per l’assegnazione del Nobel, Elfriede Jelinek ha detto di essere quasi arrabbiata con la sua lingua, che è talmente sbrigliata da essersi sganciata da lei e averla resa prigioniera.
Jelinek è nel mio cuore, La pianista è stata una grande fonte di ispirazione per questo romanzo. Sì, la lingua ci imprigiona. È davvero carcere e carceriere. Noi sentiamo alcune cose che ci riportano ad altre. Lasciamole entrare queste suggestioni. Le parole sono degli avvenimenti, sono dei gesti. Hanno una dimensionalità che va oltre il lemma. Sono strane e bellissime.

Abbiamo citato Coetzee e Jelinek, i due premi Nobel più schivi della storia.
Un’altra mia scrittrice feticcio è Clarice Lispector, un’allucinata bestiale. Anche nei suoi scritti sono presenti molti animali, anche nel movimento delle frasi a volte sembra di vedere un gatto che si muove. Lei è stata una reclusa da un certo punto in poi. Non usciva mai, ci sono persino poche interviste.

Quasi come Teresa. Una vita da reclusa in un corpo stitico e sottile, una donna sola che riesce a esprimersi solo tra le pagine del suo diario.
Scrivere è lasciare un segno, anche per Teresa. Il suo corpo così trattenuto improvvisamente sulla pagina diventa pesante, diventa presente, lascia una traccia. Non è più sbrindellato nelle esistenze altrui, ma si concentra. Tutto quello che non puoi maneggiare nella vita, puoi maneggiarlo sulla pagina. È compensatorio. Dobbiamo tutti un po’ sopravvivere in qualche modo, senza vergogna.

L’ultima domanda è una mia idea fissa. Teresa ha una madre terribile e claustrofobica. Cos’è una madre per te?
Negli ultimi mesi ho fatto due esperienze radicali. La prima è stata posare per un servizio fotografico. È stato angosciante: la foto ha a che fare con la morte. Lo scatto sembra davvero l’istante finale. La seconda è stata posare per un pittore, Velasco Vitali, un enorme privilegio. Lì ho sperimentato la gioia del puro essere, mi sono sentita felicissima. La felicità della vita. Alla fine, a ritratto compiuto, gli ho detto che mi sembrava di vedere una madre, la mia origine. Lui mi ha detto che si tratta di una cosa piuttosto frequente. Io non so cosa sia una madre, ma lì mi è capitato di provare questa sensazione. Lì ho visto mia madre, ma non la mia madre biologica, proprio la mia origine. Forse una madre è questo: il punto di inizio, le possibilità che hai e il motore per giocartele.