Comma 22

La seconda casa madre. La maternità della lettura

Non sono abituata a rompere il silenzio, perciò non posso dire che mi sia sfuggito di mano come se fosse un bicchiere. L’ho scagliato a terra, ma qui la terra è sacra.
Il cielo di Assisi nel giorno in cui si festeggia San Francesco è ambiguo. Grosse nuvole bianche veleggiano sul monte che sovrasta i campi della pianura umida, al tramonto diventano rosa e celesti, una nursery all’aperto. Piove fortissimo e poi smette.
Non sono venuta a chiedere perdono, d’altronde non conosco quasi più nessuno. Vorrei semplicemente interrogare per l’ultima volta la casa che da adolescente immaginavo di costruire nel mio futuro, il convento.
Oggi so che non avrei resistito al sacrificio, ma tempo fa l’ho desiderato con ardore. Non il velo, ammetto, ma la lunga gonna nera che nasconde le gambe scoperte anche d’inverno. Avrei scelto di indossare il rosario, il crocifisso o la corda coi tre nodi? So che avrei amato. 

Finora non ho mai smesso di parlare. La gola mi dà qualche piccolo fastidio quando piango, all’improvviso la voce muta e preferisco rimanermene zitta. Da bambina adoravo ascoltare mia sorella che suonava il pianoforte. Mi piacciono pure le campane e le trombe. Canto spesso fuori stagione. In agosto, per esempio, ho nostalgia del Natale e mi parte dal petto un Tu scendi dalle stelle mentre cammino in mezzo ai grilli fra l’erba fresca.
Non ho mai smesso di parlare; ho smesso di scrivere. Questa potrei non essere più io. «Non io ma Dio», diceva Carlo Acutis.

Il suo corpo di ragazzo benedetto, gigantesco – quasi fosse visibile al pubblico attraverso una lente d’ingrandimento – è sospeso all’interno di una teca color latte nel Santuario della Spogliazione, a pochi passi dal noviziato. Il volto è stato ricoperto da una maschera di silicone. Verrà proclamato beato il dieci ottobre: ha i capelli ricci, una felpa scura, i jeans e delle scarpe Nike.

La questione delle parole è unita al mio corpo, forse.

Detesto avere la pancia, però non c’è dieta che tenga, sembra ostinata nel sopportare ogni tortura. Trovo osceno quel buco cicatrizzato che è l’ombelico. Sarà che durante l’infanzia nonna ci spingeva dentro le chiavi di casa fingendo di girarle in una serratura: «Mo’ ti apro» diceva. Suo marito invece usava darmi certi morsi sul polso sinistro lasciando il segno rotondo dei denti nella pelle tenera, poi domandava: «Che ore fai?».
Adesso, non so se la paura di esistere in carne e ossa sia discesa da questi antenati indiscreti, fatto sta che anche in epoca digitale la prova della realtà passa attraverso una sostanza tangibile (sangue, polmoni, tegole, unghie, finestre, capelli, alberi, fiori): bisogna manifestarsi in qualche forma. I medici e gli psichiatri sembrano convinti che per vivere in salute sia necessario che corpo e mente siano connessi. Al momento non posso accettarlo, ma ho tagliato i ponti fra questi due universi avendo tra le mani una cura. Io sono e non sono pazza perché leggo.

In questi anni di silenzio-scritto ho sempre letto.
Accompagnandomi di casa in casa, verso il sonno, nei viaggi in treno o nelle sale d’attesa, i libri si sono trasformati in uno specchio e, riconoscendo in me un’identità perduta, me l’hanno restituita. Adotterei l’espressione “scambio di io” perché ci vedo dentro un doppio senso. È ciò che alcuni autori riescono a far accadere nelle menti e nei corpi degli altri. La chiamerei “maternità della lettura”, e la maternità cambia l’esistenza.

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Foto di Laura Fidaleo

È appena uscito un romanzo di Guadalupe Nettel, intitolato La figlia unica (La Nuova Frontiera), nel quale due amiche si confrontano sulla possibilità di dare la vita e sulle sue conseguenze. La bambina nel grembo della madre è viva, si muove, eppure rischia di morire in breve tempo. La dottoressa, scettica sul suo destino, sentenzia: «Sei tu che la mantieni così, ma il suo cervello non è in grado di assicurarle l’autonomia. Morirà quando vi separeremo».

Sono stata quella bambina. Sono sopravvissuta.

Devo l’allargamento del vocabolario e la propensione allo sguardo ctonio nei confronti delle cose a scrittrici e scrittori di vari generi e nazionalità, morti e vivi. Ma a due resto legata in modo famigliare: Clarice Lispector e Letizia Muratori. I loro nomi corrispondono nel mio inconscio a quelli di una possibile madre e di una possibile figlia intercambiabili nel proprio ruolo. Somigliano alle chiese fra cui mi trovo in questo momento, Santa Maria degli Angeli e San Francesco.

A colpo d’occhio, Santa Maria degli Angeli sembra essere la madre incinta della Porziuncola, luogo simbolo della religione francescana e culla della sua nascita; eppure le è stata costruita intorno solo a posteriori: una matrioska, una protezione, la cinta muraria.
D’altro canto, la struttura architettonica di San Francesco accorpa la Basilica Superiore alla Basilica Inferiore, formando un tutt’uno. In alto e ai lati gli affreschi di Giotto raffigurano la storia del santo, in basso e al centro si custodiscono le sue spoglie.
Considero la realtà letteraria e la realtà ufficiale due case comunicanti: una autentica e una immaginaria. Non essendo in grado di distinguerle, me ne reputo permeata. Vengo da loro messa al mondo e a mia volta tento di rigenerarle.

Fra autori scomparsi e contemporanei non c’è differenza, come nelle nostre solitudini. Di chi legge si dice che non sia solo. E l’autore? Che cos’è il corpo di chi scrive?
Nello spazio che intercorre tra i fogli aperti di un libro amato e il viso del lettore si materializza la mia versione di reincarnazione e di gravidanza perenne.

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Clarica Lispector

La reincarnazione di Clarice Lispector

Conversazione con la vicina ottantenne:
Vicina: «Ieri è venuta a trovarmi mia madre. Continua a ripetere quanto somiglio a sua madre…»
Io: «Tua madre è ancora viva?»
Vicina: «No, viene a trovarmi come spirito.»

Clarice Lispector ha inventato una religione in cui Dio è il mondo, e il tempo della vita «è questo istante irraccontabile».

La gravidanza perenne di Letizia Muratori

Assisi, 21 luglio 2018

Mentre suonano le fisarmoniche sperimentali in piazza del Comune, sento gridare il mio nome. È lei che chiama. Letizia Muratori partecipa a un festival letterario e io vengo qui ad ascoltare ciò che ha da dire perché mi interessa sempre. È seduta sulle scale del municipio coperte da chicchi di riso bianco. «Hai visto il matrimonio?» chiede. Posso dire di amarla, anche se non la conosco. Distinguiamo entrambe le nostre figure tra la folla, i tratti personali che caratterizzano il fisico, ma non abbiamo mai parlato a tu per tu. Ne avrei terrore, lei non so. Generalmente ci salutiamo di striscio. Sono una sua lettrice accanita, una seguace fedele. Presenzio agli incontri pubblici e ormai so riconoscere sua madre e il suo profumo.
No, non ho visto il matrimonio. Mi siedo accanto a lei, fumiamo una sigaretta in silenzio. Casualmente le sfioro un ginocchio. Ricordo i versi della poesia di Francesca Genti, Definitivamente il mio ginocchio: «il mio ginocchio/ ti chiede:/ che mi accogli/che mi parli/che mi abbracci sotto casa/che mi prendi per i polsi/delle mie tante ferite/che mi fai tabula rasa».

Cara Letizia,
mi sono nascosta in te, ho occupato la casa che hai costruito con le parole quando ho perso le mie. Non ho bisogno di chiedere niente, vorrei solo inviarti la copia delle nuove chiavi del labirinto, puoi mandarmi il tuo indirizzo?
Resto in attesa di ciò che scriverai. E aspettandoti, continuando ad aspettare sempre ciò che scriverai, rimango avvolta nella gravidanza perenne che mi fa amare la sconosciuta di cui sarò incinta.

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Letizia Muratori

Assisi, 4 ottobre 2020

Scintillano le bancarelle della festa sulla via che conduce a Santa Chiara, mi fermo a osservare un anellino d’argento che riproduce due mani che si stringono. Cerco informazioni su internet e scopro che è uno dei simboli di Santa Rita, moglie, madre, suora. Dovrei affrettare il passo per raggiungere in orario il vecchio convento e domandargli finalmente il miracolo del non, vorrei cancellarlo da me.

Fa così freddo. Sogno di tornare subito a Roma.

Non sono sicura di voler essere né una moglie né una madre né una suora, ma ho il diritto di non leggere il mio nome su una croce mentre sono ancora viva.





Illustrazione copertina di Giorgia Scioratto (https://www.giorgiascioratto.it/)