Comma 22

L’arte di restare vivo. Intervista a Francesco Borrasso



Dopo il romanzo di esordio La bambina celeste (Ad est dell’equatore, 2016) e la raccolta di racconti Storia dei miei fantasmi (Caffèorchidea, 2017), lo scrittore e curatore editoriale Francesco Borrasso è di nuovo in libreria con Restare vivo, pubblicato dalla casa editrice Inschibboleth nella collana Margini diretta da Filippo La Porta.
Restare vivo è insieme un memoir sulla depressione e sulla depersonalizzazione, una lettera al padre, un libro che racconta la paura con moltissimo coraggio, ma anche una dichiarazione d’amore nei confronti dell’arte e delle storie.
Ne ho parlato con l’autore.

restare vivo

Dei memoir, delle autobiografie e in generale delle “scritture del sé” mi incuriosisce sempre molto il lavoro che viene fatto sulla selezione e sul montaggio degli eventi. Puoi raccontarci come hai proceduto nella progettazione di Restare vivo?
Inizialmente nella mia testa c’era solamente la parte dedicata a mio padre. Una lunga lettera aperta in cui avevo intenzione di sviscerare e analizzare fatti salienti della mia infanzia e delle mie ultime ore con lui. Solamente dopo aver scritto qualche capitolo mi sono reso conto che mancava qualcosa, era come se ci fossero dei vuoti, delle linee d’ombra. Lì ho capito che c’era bisogno di raccontare anche qualcosa di diverso, qualcosa che era appartenuto al nostro rapporto soltanto durante i suoi ultimi mesi di vita. Ho deciso, così, di narrare in fasi alterne – divise per capitoli – le mie due vite. I miei due viaggi, le mie due grandi fratture.

Ci sono delle parti che non avevi previsto di inserire nel memoir e che invece hanno poi reclamato la loro esigenza di esistere nel testo?
Non ero sicuro di quello che stavo scrivendo. Inizialmente non sapevo dove stavo andando. Gli episodi affioravano confusi, alcuni più nitidi, altri sfocati. Così ho deciso di focalizzare le mie energie su quella parte che non riuscivo a vedere bene. Sono tornato indietro, sono tornato al bambino e al giovane uomo di ventisei anni che abitava in una terra esposta alle catastrofi. C’erano episodi che avevo completamente rimosso, episodi che sono riaffiorati come se fossero un ricordo che appartenevano solo alle mie dita che battevano sopra la tastiera del computer.
Più scrivevo più ricordavo più il tempo che era passato era come un’ustione. Mi rendevo conto che niente poteva più tornare, che tutto era un cumulo di parole che se ripetute troppo spesso avrebbero perduto anche il loro significato.

Più volte, leggendo il tuo libro, ho avuto l’impressione che la scrittura assolvesse a una funzione salvifica, o quantomeno curativa.  È così?
Scrivere, per me, è stato salvezza. Così come leggere. Ma se vogliamo analizzare la parola scritta, posso dirti che per me scrivere è buttare fuori, liberare il corpo da scorie e tossine. Leggere è immagazzinare. Il rischio che si corre nel rileggere ciò che abbiamo scritto è presto detto, c’è il pericolo di un corto circuito. Se non avessi avuto la scrittura non so se oggi sarei qui, se sarei quello che sono. Sono quello che scrivo e credo che non esisterei se non potessi scrivere. Ma curarsi da solo, molte volte, è sbagliato.

Nel libro vengono raccontati diversi incontri con la psicologa. In uno di questi c’è una frase che mi ha colpita particolarmente: «tutto si riconduce sempre alla paura». Credi che anche la tua scrittura nasca da lì?
Credo che la scrittura sia un modo di lottare con la morte. E la morte è la paura primigenia. Scrivere è un modo che uso per vivere altrove, in un posto dove la morte e la paura sono sotto controllo. Ma in senso più grande, la paura è ciò che ci ha permesso di evolverci e di arrivare fino a qui. Senza paura l’uomo si sarebbe estinto. Senza paura io non riuscirei a scrivere.

Uno dei primi aggettivi che mi vengono in mente per descrivere il tuo libro è: coraggioso. Credo che leggerti possa essere di grande aiuto per chi si trova in situazioni simili a quella che racconti. Quando hai deciso che era arrivato il momento di raccontare e raccontarti?
Ho dovuto aspettare dieci anni prima di capire che era arrivato il momento per raccontare quello che era accaduto. Dieci anni di lontananza che mi sono serviti per aver una visione ampia, completa. Se prendi un oggetto e lo avvicini molto agli occhi ti appare sfocato, riesci a vederne una piccola parte, ma tutto risulta confuso. Se prendi quello stesso oggetto e lo metti sopra un tavolo e ti allontani di qualche passo, quell’oggetto è chiaro, netto, pulito. Dieci anni, dieci anni durante i quali sono sopravvissuto, soprattutto. Per quanto riguarda il coraggio, credo che la letteratura serva a questo, a raccontare la verità, che sia fiction o autofiction scriviamo sempre e solo di noi stessi e delle cose che sentiamo di dover dire, che abbiamo da dire. Non è semplice mettersi a nudo sopra una pagina e lasciare poi che quella pagina finisca nelle mani di altre persone, ma è un movimento che appartiene ad una sfera più ampia. Dobbiamo avere il coraggio di raccontarci per dare agli altri una speranza.

Il tuo libro è, per certi versi, anche una lettera al padre (interessante anche l’utilizzo della seconda persona nei capitoli che parlano del rapporto figlio-padre) in cui colpisce la contrapposizione “padre felice – figlio malinconico”. Quanto influisce sulla nostra sensibilità lo spazio che c’è tra noi e le persone con cui condividiamo una parte così importante del cammino?
Mio padre era un uomo sorridente, sempre allegro. Nonostante i suoi problemi non faceva mancare mai la sua allegria. Io no, io sin da bambino sono stato malinconico, spesso triste. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo dopo la morte, mi facevo delle domande a cui nessuno riusciva a darmi la risposta giusta, esauriente. Sentivo che c’era qualcosa di strano, che gli altri non mi dicevano la verità. Crescere in una famiglia felice credo sia stato importante. Ho ricordi meravigliosi della mia infanzia legati soprattutto ai sorrisi di mio padre e di mia madre, legati alle gite, al mare. Mi hanno lasciato in eredità il senso della famiglia, l’importanza dei legami. Eppure, in mezzo a tutta questa serenità, a dividermi dagli altri c’è stato sempre uno spazio, qualcosa di freddo e buio, uno spazio in cui nessuno riusciva a entrare e che io avevo difficoltà a spiegare fino a quando, poi, non ho capito che l’unica maniera per raccontarlo era scrivere.