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Respirando l’odore del male. Il continente bianco di Andrea Tarabbia



Possono, le storie, esaurirsi in un libro solo? Forse no, forse non sempre, forse – mi permetto uno sbilanciamento più radicale – nemmeno dovrebbero. Con questa premessa inizia Il continente bianco di Andrea Tarabbia, uscito nell’agosto 2022 per Bollati Boringhieri, prendendo le mosse proprio da una storia già raccontata, quella de L’odore del sangue di Goffredo Parise, scritto di getto in un’estate del 1979 e pubblicato postumo da Rizzoli nel 1997.
Nell’opera di Parise siamo a Roma, alla fine degli anni Settanta: uno psicanalista cinquantenne, Filippo, scopre che la moglie Silvia ha perso la testa per un ragazzo, un giovane fascista; tra i due coniugi il sentimento si trascina stanco e i due si sono già traditi diverse volte, entrambi alla ricerca di quel che non riescono più a darsi reciprocamente e sempre raccontandosi tutto, ma questa volta è diverso, questa volta l’amante di Silvia emana un fascino cupo, mortale, impostando con la donna una relazione dominante, e Filippo proietta le proprie fantasie erotiche proprio sul rapporto tra Silvia e il ragazzo, si fa confidare i dettagli più torbidi, fino a costruire con lei una nuova intimità morbosa e, in conclusione, distruttiva.

Ne Il continente bianco, Tarabbia sposta la vicenda di Parise ai giorni nostri e vi entra da una porta per così dire laterale: il giovane amante di Silvia, Marcello Croce, guida a Roma un movimento di estrema destra, il Continente bianco appunto, ed è bello, inquieto, violento, «un individuo delicato, fragile all’apparenza (…) uno di quei Cristi disegnati nei libriccini del catechismo per bambini: biondi, buoni, puliti e calmi anche nel mezzo di una tormenta di sabbia o di un incendio, con uno sguardo che sembra dirti che non ci saranno problemi, se lo seguirai, che non ci saranno il Male né il dolore e tutto alla fine sarà giusto». L’altro elemento di novità è il cambio di prospettiva: la voce narrante non è più quella dello psicanalista, che qui diventa il dottor P***, ma di un suo paziente, un Andrea Tarabbia alter ego dello scrittore, che entra in scena nello studio dello specialista e finisce per incrociare le strade di Silvia e Marcello, subendo un’attrazione magnetica per il giovane, per quella «patina di levità» che porta nel volto e che forse nasconde qualcosa pronto a esplodere. Così Marcello Croce attira il narratore verso il Continente bianco e l’Andrea Tarabbia del romanzo non si tira indietro, incuriosito ne frequenta i ritrovi e ne conosce i membri, per mimetizzarsi partecipa addirittura a un’azione violenta: ne diventa, a tutti gli effetti e fino all’epilogo, il testimone ufficiale.

Tarabbia

Così Tarabbia scrittore sceglie di dare voce a chi, nel romanzo di Parise, non l’aveva: il mondo sotterraneo e ribollente dell’estrema destra, facce vite nomi e storie che non si tirano indietro e si raccontano in tutta la loro furia, una Roma lontanissima dallo studio del dottor P*** in cui il narratore sembra immergersi come calamitato, «questa città immensa (…) che si porta dentro qualcosa di perennemente funebre, come se fosse condannata a morire domani e domani invece non muore, ma si trascina fino a dopodomani, e poi fino al giorno dopo dopodomani, e poi ancora, all’infinito, in un continuo presagio di morte confutato da una continua, precaria forma di salvezza che la mantiene in uno stato terminale, ma vivo».
Se come accade ne L’odore del sangue Marcello Croce conduce Silvia alla morte lungo un percorso di sempre maggiore e masochistica sottomissione (non è uno spoiler, lo leggiamo nelle primissime pagine), all’interno de Il continente bianco il suo personaggio si arricchisce, trova una voce distinta e si trasforma nell’incontrollabile motore dell’intero movimento narrativo. L’odore del sangue è l’odore del sesso e del desiderio ma anche l’odore del male, un unico nucleo abominevole e allo stesso tempo vitale, aderente insomma all’esistenza umana nella sua più autentica complessità. Il rapporto di Marcello Croce con Silvia sembra alludere, nemmeno troppo metaforicamente, al fascino morboso che alcune idee hanno esercitato (ed esercitano) sulla borghesia italiana, ma non soltanto: la verità (una verità) è che l’orrore non si limita a respingere le brave persone (o coloro che si ritengono tali) attraverso un definitivo meccanismo di repulsione ma risponde a un doppiezza, a un bianco che rischia spessissimo di sporcarsi, a un dubbio che non osiamo confessare («Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere»).

C’è già tantissimo, in questo libro, ma riesce ad esserci ancora di più: il romanzo di Tarabbia è una continua stratificazione di piani e di temi, gestiti attraverso una scrittura così chiara e letteraria al punto che sembrerebbe che tra percezione ed espressione corra un rapporto di assoluta immediatezza, quando invece questa è apparente, è frutto di distanza rispetto a quanto percepito, si tratta insomma di lavoro di stile. Il Continente bianco è un racconto sul potere, in tutte le sue declinazioni, sul fascino degli abissi e dell’indicibile, sulle ossessioni, ma anche (evviva!) sulla scrittura e sull’immaginario, sulla postura formale di chi narra e sulla legittimità e sulla responsabilità dell’atto del narrare («Scrivere vuol dire anche sopportare il dolore degli altri, e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio»).
Pur toccando tematiche a noi estremamente vicine, come la rabbia sociale e il fanatismo politico dell’estrema destra («L’Italia è uno Stato democratico imposto con la forza a una nazione intimamente fascista», dice a pagina 120 Tito Malaspina alias lo Zar), Andrea Tarabbia costruisce un romanzo che riesce a essere contemporaneo senza scadere nel tempo affrettato dell’attualità, dove il ricorso all’autofiction è espediente letterario esemplificativo, a servizio della storia, e non compiacimento ombelicale, dove la lingua possiede un nitore e un lirismo sorgivi e calibrati, confermandosi uno degli scrittori italiani più interessanti degli ultimi anni.




In copertina: Alan Feltus, La nostalgia del figlio, 1993

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