Comma 22

Qualcuno ti conduce nella notte. Raveggi sulle orme di Coccioli



«Ho visto gente andare perdersi e tornare, e perdersi ancora, e tendere la mano a mani vuote» , cantava Francesco De Gregori. Vale la pena ricordarselo. Perché i libri, ad esempio, sono un posto molto pericoloso. Un luogo in cui si perde se stessi. Da cui a volte si riemerge, ma che altre volte ingoiano senza possibilità di ritorno. Niente a che fare con intricate trame o grandi capacità di tenere il lettore incollato alla pagina, troppo facile. Chi i libri li respira, ne vive, sa che dentro un libro si può entrare per non uscirne più. Non soltanto simbolicamente. Lo sa anche Alessandro Raveggi che nel Grande Karma. Vite di Carlo Coccioli (Bompiani) si nasconde (o forse no? Anche questa è un’immersione e una fuga: i confini degli alter ego sono sempre labili, misteriosi e mutevoli) dentro Enrico Capponi, dottorando d’italianistica dell’Università di Firenze, per mettersi sulle tracce di Carlo Coccioli.

Alzi la mano chi in questo nome riconosce qualcosa di famigliare. Tra i lettori di queste pagine forse qualcuno in più della media, ma fuori, entro i confini dello “stivale”, molto pochi sanno chi fosse questo autore nato a Livorno nel 1920, ma che si sente e si racconta fiorentino, convinto anticomunista e partigiano, omosessuale ferventemente cattolico quanto poi ferventemente ebreo, Hare Krishna, buddista e affamato – comunque e sempre – di divino. Una ricerca, quella dell’Altrove, che è forse la spinta che spinge Coccioli e disperde le sue tracce, come sabbia sollevata dal vento, di qua e di là dell’Atlantico. Amico e discepolo devoto di Malaparte (almeno fino a quando non cercherà di mitigarne l’omofobia) nemico giurato di tutte le “mafie letterarie” italiane, nel 1950 parte per Parigi. Una insolita Mecca di artisti nati sul porto di Livorno: obliqui, ombrosi, fuori dalle piste. Se non vale per il più celebre di tutti, Modì, vale senz’altro per un altro che qualche anno dopo camminerà (inconsapevole?) sui passi di Coccioli. A Parigi lo conoscevano come Piero Litaliano, mentre, per quei (pochi, di nuovo) che in Italia amano la sua musica risponde al nome di Piero Ciampi.

Carlo Coccioli

Di Coccioli, qui, lontano dal disinteresse nostrano, i suoi editori (non di rado amanti) fanno uno degli autori più amati. Così, mentre di notte confida amori e condivide cene con Jean Cocteau (un nome, per tutti) di giorno cerca e si cerca per Montmatre, vagheggiando un punto d’arrivo che non gli appartiene, desiderando di giungere a un apice di verità assoluta, dei luoghi come dell’anima. Il parallelo ciampiano in Raveggi non c’è, se lo permette chi scrive perché nel brano che dedica alla sua città c’è un ritratto che sembra fortemente coccioliano:

«Ho trovato
una nave che salpava
ed ho chiesto dove andava.
Nel porto delle illusioni,
mi disse quel capitano.
Terra terra
forse cerco una chimera »  

La chimera di Coccioli si chiama Michel, si chiamerà Laurent nel suo Fabrizio Lupo, il romanzo forse più noto, o ne L’immagine e le stagioni sarà l’Immagine, in una eco ancora una volta musicale in cui Dio ha il più umano dei volti. Sembra di sentire, di inferenza in inferenza, La Sua Figura di Giuni Russo, in cui di nuovo ci si arrovella e ci si immerge – perdendosi – nella densa amalgama di (omo)sessualità – intesa, sempre, come amore – e ricerca spasmodica del divino.

«Bisognava dunque partire, imitare quei padri bianchi che si consumano nel deserto e il cui amore è un devoto suicidio. Ma Dio permette davvero che lo si ami a quel modo?» 

La nave di Coccioli salpa, in effetti, per Città del Messico per inseguire Michel – seconda patria anche di Raveggi, in questo gioco di scatole cinesi e intarsi tra biografie reali e inventate. Nelle viscere del Messico lontano da ogni cartolina (dove a Michel si sostituiranno Juan, per tutti Juanito, e poi Javier); Carlo, don Carlo, Coccioli, Coscioli o Cocciolì vivrà tutta la sua maturità e si spegnerà negli anni duemila, lasciando dietro di sé una densa teoria di tracce nebulose simboliche e angosciose, come le regalano solo gli scantinati delle librerie e le distese di quel pezzo di Sudamerica. Tracce tutte da rimettere insieme, da cui soffiare via la polvere per scoprirne, chissà, di nuove. Seguite a ritroso proprio da qui dal giovane Enrico, spedito dal suo annoiato relatore alla ricerca di qualche riga inedita intorno a cui costruire una bugiarda promessa di futuro. O – meglio ancora – del libro perduto di Carlo Coccioli, sintesi e testamento di una vita affannosa quanto il suo viaggio, “tra il mondo affannato dei vivi e quello magico dei morti”, il Grande Karma. Ma lo abbiamo detto, i libri sono labirinti che non hanno soglie ed Enrico, partito per scansare la noia di una vita già segnata nell’azienda di famiglia accanto all’amore già consumato per Dina, si impiglia e annoda (i lacci salvano o frenano?) dentro al romanzo che sta rincorrendo, e così lo crea.

Quello di Enrico sulle orme di Carlo – o forse nel suo specchio, in cui si perdono cercato e cercatore – più che un viaggio è, forse, “un meccanismo” figlio legittimo della grande letteratura sudamericana. Lo sono le atmosfere, i sapori, i suoni, e quello che a voler essere banali si potrebbe chiamare realismo magico – ma, forse, in questo caso meglio sarebbe dire misticismo magico – e percorre tutte le 288 pagine di questo romanzo ibridato dal saggio e dalla bibliofilia che racconta una volta ancora quanto il potere trasformativo delle parole sia tutt’altro che un adagio per ossessionati. Per Enrico, Coccioli diviene un idolo amato e un mostro incantatore, che lo mette di fronte a se stesso e insieme rovescia tutto quel che credeva di sapere. Entrambi si sono gettati senza guardarsi alla ricerca di ciò che è più vero dopo aver toreato con la morte, non solo quella fisica, averla cercata e poi sfiorata e poi fuggita. Il Grande Karma secondo Raveggi è un romanzo retto da una prosa raffinata – menzione a parte per i titoli dei capitoli, a tratti apertamente poetici, che compongono quasi un versificare a sé. Una rincorsa dal passo rapido e affascinante della queste, il cui punto di arrivo è però la sua assenza. In coerenza con la vera eredità di Carlo Coccioli: lo sviamento.