Comma 22

La luna e i falò: ritrovarsi con Pavese, 70 anni dopo

Ho letto Pavese per la prima volta per caso e per necessità. Credo fosse il 2007/2008, o giù di lì, e io ero uno studente del corso di laurea triennale in Lettere alla Statale di Milano. Quell’anno, il corso di Letteratura italiana contemporanea 2 fu sul romanzo del ritorno (poi dicono che non serve avere buoni professori: di quel corso ricordo ancora quasi tutto, dieci anni dopo). E il programma comprendeva tre libri di autori diversissimi, che scoprivo allora per la prima volta: Il giorno del giudizio di Salvatore Satta (tremendo, per un 20enne come me), Libera nos a Malo di Luigi Meneghello (meraviglioso) e, soprattutto, La luna e i falò di Cesare Pavese.

Con quest’ultimo, il feeling fu immediato. Nella storia del ritorno di Anguilla al suo paese nelle Langhe, quel Santo Stefano Belbo in cui – all’epoca non potevo saperlo – un giorno avrei ricevuto addirittura un premio dedicato a Pavese, non potevo non trovare punti di contatto con la provincia bresciana dove ero nato e cresciuto. In Valle Camonica non ci sono colline, solo montagne, e nemmeno troppe vigne; ma nel libro ritrovavo l’identica dimensione antropologica che contraddistingue tutte le province. Come il giovane Anguilla, anche io avevo (e avrei) passato serate rodendomi perché non ero niente: ero giovane, inesperto, limitato, mentre tutti intorno a me sembravano godersi la vita molto meglio perché erano già maturi. Anche io avevo inoltre sentito raccontare storie della stessa nera miseria che, un tempo non troppo lontano, attanagliava come i personaggi del libro anche la maggioranza dei camuni miei conterranei (a partire dai miei nonni), contadini poveri, sfruttati dall’aristocrazia e dal clero locali.

Pavese
La luna e i falò, prima edizione Einaudi, aprile 1950

Il feeling con La luna e i falò non si esaurì con quel corso ma si sviluppò in un rapporto che continua ancora. Prima fu, nel 2009, la mia tesi di laurea triennale, con cui analizzai come Pavese rappresentò in quel libro il tramonto del mito americano in cui aveva creduto fin dagli anni ’30. Poi, nel 2012, quella magistrale, che dedicai a Pavese e al suo contributo alla prima traduzione italiana di un altro libro mitico, l’Antologia di Spoon River apparsa nel 1943 a firma di Fernanda Pivano. E poi, visto che il futuro non lo si conosce fino a quando non lo si vive, un giorno del 2014 avrei preso un aereo per trasferirmi negli Stati Uniti e iniziare un dottorato incentrato nuovamente su La luna e i falò (stavolta grazie agli esperimenti di TwLetteratura e Betwyll, che ho impiegato per insegnare italiano).

Non tutti, immagino, hanno vissuto in simbiosi con questo libro come me. Eppure, nonostante siano passati ben settant’anni dalla prima edizione de La luna e i falò, parlarne oggi ha ancora molto senso. Innanzitutto perché questo libro rappresenta l’apice della scrittura di Pavese: non a caso, la prima edizione apparve pochi mesi prima del giorno in cui lo scrittore decise di lasciarci per sempre, cedendo a quello strano impulso nichilista verso il suicidio (il suo vizio assurdo) che lo aveva attratto fin da ragazzo. Recentemente ho letto per lavoro l’edizione Einaudi-Pléiade di Tutti i romanzi di Pavese. E La luna e i falò spicca sui romanzi, ognuno un pezzo di identità pavesiana che si srotola sulle pagine sotto forma di costruzione narrativa, per la sua completezza e la sua modernità. Queste pagine, scritte in poche settimane all’inizio della spirale verso la fine, ci mostrano uno scrittore consapevole dei propri mezzi e soprattutto del proprio mestiere. Aprite il libro a caso (io vi consiglio l’incipit, ma una pagina qualsiasi va bene) e troverete frasi brevi, secche, senza orpelli, ma senza un ingranaggio fuori posto. Ogni parola, articolo, aggettivo, ogni virgola e punto sono il frutto di un ingengo affinato in anni di gavetta. Sono il risultato di una mente brillante e incredibilmente produttiva, affinata sui classici americani prima e su quelli italiani poi, ricettiva verso ogni spunto interessante. Sono il lavoro di un uomo che aveva imparato il suo mestiere di scrittore (in quello di vivere non si riteneva così ferrato) in anni di apprendistato riempiendo fogli su fogli con la sua grafia corsiva larga e ampia, sempre con una stilografica dal pennino sottilissimo, che faceva e rifaceva fino al risultato definitivo.

Pavese
Santo Stefano Belbo, paese natale di Pavese

E poi, anche se sono passati settant’anni, la storia di Anguilla rimane ancora attuale perché, anche se sono cambiate le stagioni (altro termine caro a Pavese) e il modo di vivere della gente, il nocciolo della sua storia lo potrebbe vivere ciascuno di noi. La storia di Anguilla è una storia di riscatto, di scoperta, di maturazione e soprattutto di un ritorno alle origini che tutti, a un certo punto della loro vita, sentono come necessario. Non fosse altro per accorgersi che un paese ci vuole e che un paese rimane ad aspettarti, anche quando non ci sei; anche se hai deciso di vivere la tua vita da un’altra parte, a migliaia di chilometri da quella che hai sempre chiamato casa.

Ecco, quel giorno di tanti anni fa non potevo certo sapere che quell’incontro quasi casuale con La luna e i falò e il suo autore sarebbe stato così rilevante, per me. Oggi, dopo una decina d’anni passata a leggere e rileggere Pavese, chissà che questo piccolo contributo possa far venir voglia a qualcun altro di aprire un libro di Pavese. Perché solo leggendolo si può rendere omaggio a uno scrittore.