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Morte, poesia e menzogna in Thomas Bernhard



Fra tutti gli scritti di Thomas Bernhard giunti fino a noi nella loro forma originale, un poemetto giovanile dedicato alla propria città reca sul foglio una valutazione apposta dal nonno: «bene». Malgrado nei suoi scritti autobiografici non spenda troppe parole per raccontarci il suo apprendistato poetico, è probabilmente grazie al nonno, a quello “scrittore fallito” che riempirà pagine dei suoi libri, che Thomas Bernhard approda alla poesia. Un media, quello poetico, per il quale l’autore non tacerà mai le proprie idiosincrasie, come quando in Un bambino (Adelphi) confessa di aver composto brutte poesie per le quali provare vergogna o, ne Il freddo. Una segregazione (Adelphi), racconta di come, sul letto di morte della madre, sentì l’esigenza di leggerle i propri componimenti. Un’insofferenza, quella verso la poesia, che porterà Bernhard ad abbandonarla quasi totalmente, dedicandosi ai campi per lui ben più fertili della prosa e del teatro. È nella poesia che nasce però l’autore, prima con Sulla terra e all’inferno (Crocetti), poi con In hora mortis (SE) e infine con Sotto il ferro della luna (Crocetti) che, come il primo, viene riproposto ora da Crocetti Editore, nella traduzione di Samir Thabet.

Bernhard

Se nella prima raccolta di poesie Bernhard si racconta, affrontando componimenti a sfondo autobiografico, in In hora mortis dà il via a un allontanamento da sé verso Dio, lamentando, quasi in termini salmodiali, un dolore che in chiave lirica troverà la sua massima espressione in Sotto il ferro della luna. Qui, la poetica che caratterizzerà le opere a venire germoglia, lontano però da quella ferocia di cui saranno colmi i testi più noti.
I primi versi sono un tuffo in quel vuoto creato dalla spaccatura tra linguaggio e mondo che, già con Hofmannsthal e Musil, detta la crudele condizione umana. Uno iato tra arte e realtà su cui la cultura austriaca ha cercato, a partire dalla fine del XIX secolo, di costruire nuovi linguaggi e rinnovate grammatiche per comprendere il mondo, e che da sempre ci costringe a vivere nella menzogna, incapaci di descrivere persino ciò che ci è più famigliare.

«Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla»

Una condizione che si fa nell’ultima strofa universale, totale e totalizzante, affogando l’uomo nell’ignoranza, e quindi nella menzogna creatrice di senso, unica verità riconoscibile.

«Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.»

Versi che riecheggeranno ne Il soccombente (Adelphi), dove si legge che «il nostro punto di partenza è sempre lo stesso, non sappiamo mai niente di niente, non c’è niente di cui abbiamo un’idea seppur minima…». Un leitmotiv che torna come una melodia di infinite variazioni, in una costante reiterazione di concetti e idee che variano talvolta di piccoli dettagli, come se attraverso l’aggiustamento e la riscrittura, l’autore volesse provare ad avvicinarsi sempre più alla realtà impossibile delle cose. Una realtà dove il dolore e la morte sono la costante certa:

«La mia disperazione viene a mezzanotte
e mi guarda come fossi morto da tempo
neri gli occhi e stanca di fiori la fronte,
il miele amaro della mia tristezza
stilla sull’egra terra
che mi tiene sveglio in notti rosse spesso
per vedere l’agonia dell’autunno.»

Se l’autobiografismo, rispetto alle primissime composizioni giovanile, è qui abbandonato, restano nei 56 componimenti di Sotto il ferro della luna gli scenari legati alla campagna e alla natura che, lontano dall’essere madre premurosa, è descritta come forma inquietante e spietata, dentro la quale si nasconde l’ombra della morte.

«nessun albero e nessun cielo
ti consolerà,
nelle corone di inverni in frantumi
cresce la tua morte,
con rigide dita
lontano da erba e da lande selvagge,
nei detti della neve or ora caduta.»

Sotto il ferro della luna assume in questo senso la forma di un trattato sul morire, senza la pretesa di insegnare a farlo. «La morte» dichiarerà l’autore a Maiorca nel 1981, in uno dei suoi dialoghi con Krista Fleischmann, «per me è una specie di strascico che reggo quando cammino, cioè, non lo reggo proprio, sta lì appeso, e io me lo tiro dietro». Per Bernhard, quello con la morte è sempre un incontro atroce e allo stesso tempo liberatorio. La morte è una compagna di vita che non ti abbandona, ma se con In hora mortis è affrontata attraverso il dialogo con Dio, qui la figura dell’Onnipotente è relegata a pochi, sporadici versi. È alla morte stessa che sembra rivolgersi l’autore, quasi a vanificare la funzione di Dio che, sebbene nascosto, esiste e ascolta.

«Dio mi sente
in ogni angolo del mondo.»

È un Dio in cui Bernhard non ha bisogno di credere, poiché per lui Dio è qualcosa che si vede in continuazione, senza scomodare la fede. Se «il Signore Iddio è ovunque, mica ho bisogno di crederci. (…) Allora mi risparmio la fede».
Quel che si evince da questi componimenti, degno preambolo di tutta la prosa a venire, è però che la salvezza, per Thomas Bernhard, non sta in Dio, quanto nella scrittura come “soluzione matematica” della vita. Scrivere è per Bernhard un tentativo di sopravvivenza.[1] Come per Wittgenstein, anche per lui il nostro modo di comprendere le cose non è altro che la cecità della nostra incomprensione. La scrittura è solo un mezzo attraverso cui cercare questa verità. L’unico modo di sopravvivere è dunque per Bernhard quello di scavare a fondo, sviscerare le cose e le parole, per ricavarne l’esiziale menzogna.

«Quanta fatica per una parola
in questi giorni che sono smemorati.
Quanta fatica per una parola.»

«Il più grande prosatore vivente», come lo definì Italo Calvino dopo aver letto una traduzione francese di Perturbamento, è conscio di come la menzogna, insita in ogni descrizione, in ogni parola e in ogni idea pronunciata, sia l’unica verità sostenibile. Come quando il suo Reger, in Antichi Maestri, dichiara di non sentirsi mai a suo agio nella natura, ma sempre felice nell’arte, allo stesso modo Thomas Bernhard cerca una felicità irraggiungibile nelle parole. L’arte, e così la letteratura e la poesia, restano per lui il fallimento del linguaggio sul mondo, l’apoteosi della menzogna. L’esatto luogo in cui l’universo umano si inscrive.




[1] GARGANI A. G., La frase infinita – Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Bari, Editori Laterza, 1990.


Copertina:
Illustrazione di Sonia De Nardo

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