28.10.2025

Moravia in fabbrica. Questa è la nostra città. Storia per un film mai girato

Bompiani riporta alla luce un testo inedito moraviano che getta nuova luce sulla riflessione dello scrittore a proposito di industria, alienazione e condizione operaia

Nel 1947, l’anno della Romana, Moravia ha quarant’anni e, nonostante qualche difficoltà causata dalla censura fascista, ha già dato alle stampe una buona parte – la più pregevole, secondo alcuni – della sua vastissima opera. Quattro romanzi, dall’esordio folgorante degli Indifferenti (1929) al fallimento, volto a sbarazzarsi dei suoi ingombranti modelli (Manzoni e Dostoevskij), delle Ambizioni sbagliate (1935), proseguendo con La mascherata (1941) per giungere a un romanzo breve e felicemente compiuto come Agostino (1945). Poi numerose raccolte di racconti, tra cui spicca La bella vita (1935), che raccoglie alcune prove riuscitissime come Inverno di malato e Delitto al circolo del tennis, seguita di un paio d’anni dall’Imbroglio (1937). E ancora, un saggio dal gusto moralistico, La Speranza ossia Cristianesimo e Comunismo (1944), che inaugura la collana, da lui diretta, Il moto perpetuo dell’editore Documento, cui si affiancherà, prima della precoce e precipitosa chiusura, La filosofia dell’arredamento di Mario Praz.

In altre parole, Moravia si è già guadagnato la fama di scrittore che conserverà per tutta la sua vita, non ancora l’agiatezza degli anni a venire. Aveva sposato Elsa Morante nel ’41 ma, confessa nell’intervista a Elkann, «eravamo poveri. Ricordo che ogni tanto davo uno dei miei vestiti a Elsa che li trasformava in tailleur». Il regime lo obbliga a cessare la collaborazione con la Gazzetta del Popolo, da cui traeva il minimo per campare, e Moravia, al culmine della disperazione, si rivolge addirittura a Mussolini pregandolo «di potere riprendere la mia attività giornalistica dalla quale io traggo i mezzi per vivere», ma invano. Per continuare a trarre guadagno dal proprio mestiere di scrittore – com’è stato, sebbene per motivi diversi, per Flaiano negli stessi anni –, non resta che una passione giovanile, ossia il cinematografo.

Malgrado una certa repulsione per la vita grama dello sceneggiatore – «avevo sempre la sensazione di dare qualcosa di prezioso, per denaro, a qualcuno che se ne serviva per i suoi fini», ammette Moravia –, descritta in seguito nel Disprezzo (1954), riesce a collaborare ad alcuni film diretti da Castellani, Soldati, Lattuada e perfino da Visconti. Proprio nel 1947, però, gli arriva una proposta davvero allettante. La Pirelli, per festeggiare il suo 75° anniversario, aveva proposto a Roberto Rossellini di girare un film sulla fabbrica milanese e sugli operai che vi lavoravano. Alfredo Guarini, Massimo Mida e Gianni Puccini avrebbero scritto il soggetto. La prima bozza, tuttavia, viene bocciata, probabilmente per uno sguardo eccessivamente drammatico sulla realtà italiana del dopoguerra. Si decide, dunque, di ricorrere a Moravia che, anzitutto in ragione della profonda ammirazione intellettuale nei confronti di Rossellini, ma anche per le incombenze economiche che lo attanagliavano, accetta l’incarico e si mette a lavorare al soggetto. Il dattiloscritto moraviano, conservato nell’Archivio Storico Pirelli, è stato riportato alla luce e pubblicato per la prima volta da Bompiani, con l’eccellente cura di Alessandra Grandelis e con una postfazione di Giuseppe Lupo, sotto il titolo Questa è la nostra città. Storia per un film mai girato. Il sottotitolo chiarisce subito come il progetto cinematografico, per ragioni interne alla Pirelli – gli eccessivi costi di produzione e soprattutto la scelta di un «neorealismo noir in linea con i coevi interessi di Moravia, Puccini e soprattutto Rossellini», ma non in sintonia con le ambizioni aziendali, osserva la curatrice–, non abbia mai raggiunto il grande schermo. Mettendo da parte la mancata realizzazione del film, la pubblicazione di questo testo resta fondamentale, in primo luogo, perché fornisce un ulteriore tassello all’interno della (sia pur sterminata, e meglio rappresentata) produzione di Moravia, accomunandosi alle storie non borghesi, prive di un intellettuale come protagonista, che l’autore andrà pubblicando dal 1947 della Romana al 1957 della Ciociara, passando per i Racconti romani ospitati dal Corriere della Sera, «il suo Teofrasto plebeo alla capitale», come lo definì Contini che aveva avvicinato questo Moravia nazional-popolare, gramscianamente parlando, all’alone del Pasticciaccio gaddiano. Ma Questa è la nostra città risulta particolarmente prezioso soprattutto perché consente di avere una visione più completa della successiva riflessione moraviana sull’industria, sulla condizione operaia, sull’alienazione.

La vicenda si svolge nell’autunno del 1945, a Milano. La guerra è appena finita, ma le sue tracce sono ancora ben visibili in un paesaggio ricolmo di macerie e rottami, come si può ben vedere anche nelle fotografie, poste a corredo del volume, degli stabilimenti Pirelli a seguito dei bombardamenti: «alcune case diroccate, un serbatoio di benzina contorto, alberi tagliati». Si scorge già, tuttavia, una città a due velocità, dove «la campagna appare rosicata dalla vicina città», gli alberi si giustappongono alle réclames, ai cartelloni pubblicitari, le cascine alle case di città, le strade sterrate a quelle asfaltate. Per dirla col Fortini dei Dieci inverni: «vedevo tetti, cortili, fumi, di una Milano vecchia, semidistrutta; poi, nuova.[…] Le rovine che avevamo intorno come l’allegoria di un riscatto possibile sparivano per dar luogo ad una città opulenta e meschina». La tranquillità della vita provinciale, il suo cielo familiare, quotidiano, lascia spazio a un «cielo contemporaneo […] colore di lamiera», quel «cielo d’acciaio che non finge Eden» che sarà proprio della Milano della Ragazza Carla di Pagliarani, negli anni del miracolo economico. In questo contesto di mutamento si muovono i Riva, «nonno, padre, madre e tre figli, tutti operai della Pirelli meno la madre», protagonisti di Questa è la nostra città. Sin dalle prime pagine si avverte un senso di straniamento dei più giovani, Carlo e Angela, calati nel meccanico, automatizzato lavoro in fabbrica, a differenza dei più vecchi, ex contadini, per i quali la Pirelli rappresenta un luogo di riscatto, o quantomeno di sicurezza economica, rispetto alla vita nei campi. Il tratteggio introspettivo di Carlo e Angela riconduce subito alla rivolta velleitaria di Michele e Carla degli Indifferenti: il primo è annoiato dal lavoro operaio, dalle prospettive pressoché nulle, dal basso guadagno; la seconda, invece, sogna, con un certo grado di bovarismo, una «vita lussuosa e oziosa, simile a quella delle dive […] baci di un signore in smoking, simile a quelli visti al cinema […] il paradiso cinematografico dei grandi alberghi, degli abiti da sera». La monotonia quotidiana viene, quindi, interrotta dalla fuga di Angela con la jeep di un americano dopo aver ballato al ritmo di un boogie-woogie. Seguono le ricerche della ragazza, l’apprensione della madre che teme di aver perduto un’altra figlia – l’anno prima, nel 1944, il figlio Bruno era stato impiccato nell’eccidio di Piazzale Loreto –, i loschi intrighi interni alla fabbrica, fino al tragico finale in cui, nonostante tutto, e non può essere altrimenti per la condizione ineluttabile di un operaio, «la vita ricomincia – e ricomincia il duro, pesante, ma pur necessario, ma sano, ma benefico, ma benedetto lavoro di tutti i giorni».

Questa è la nostra città offre, dunque, un’anticipazione, in forma narrativa, di quanto Moravia, in veste di intellettuale pubblico, andrà scrivendo negli anni ’50 e ’60 a proposito del progresso industriale e della conseguente, sempre più marcata, alienazione dell’operaio. Nel 1953, infatti, Moravia risponde, preceduto dagli interventi di Ungaretti e Gadda, a un quesito di Civiltà delle macchine, il periodico di arte e tecnica fondato da Sinisgalli – il poeta ingegnere che dirigeva, peraltro, la rivista Pirelli – sul rapporto tra l’uomo e le macchine. Malgrado la preoccupazione diffusa riguardo all’automatizzazione di un lavoro sempre più alienante, Moravia è dell’idea che bisogna riporre tutta la fiducia possibile nell’uomo in quanto inventore e produttore delle macchine affinché riesca a servirsene a proprio vantaggio e, quindi, a non esserne asservito:

«Il giorno in cui la macchina anche più complicata avrà con l’uomo moderno lo stesso rapporto della semplice vanga con l’uomo antico, quel giorno non si parlerà più di macchine affatto, bensì soltanto dell’uomo».

È la medesima filosofia dalla fattura illuministica, in difesa dell’umanesimo e della civiltà, su cui si fonderà il saggio L’uomo come fine (comparso su Nuovi Argomenti, novembre-dicembre 1954), autentico manifesto del pensiero moraviano. Nella prefazione al volume omonimo del ’63, Moravia insisterà nuovamente su questo aspetto, rimarcando che l’antiumanesimo, a quell’altezza cronologica, si nasconde dietro il neocapitalismo, si incarna nel consumo di beni fabbricati in serie, nel feticismo delle merci, nella mercificazione culturale:

«L’uomo del neocapitalismo con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra gli oggetti».

Siamo all’apice del periodo storico che passa sotto il nome di “boom” o “miracolo” economico, circoscrivibile tra il 1958 e il 1963. Il Paese vede un processo di repentina crescita economica, di benessere diffuso, di consumismo sfrenato. In questo quadro sociale, oltre che politico – sono gli anni dei primi governi di centrosinistra –, dell’Italia repubblicana, fortemente tramutato rispetto agli anni della Ricostruzione ritratti in Questa è la nostra città, Moravia individua e denuncia in più occasioni la diffusione di un senso di alienazione del singolo individuo, spersonalizzato da un’omologazione, da un conformismo senza precedenti. Ottieri, nell’Irrealtà quotidiana, aveva spiegato così questa tessera cruciale del pensiero moraviano: «Moravia attribuisce l’Alienazione Universale ad una causa storica precisa, il neocapitalismo, e a degenerazioni politiche del comunismo, e nell’orizzonte all’industrialismo». Sul piano delle conseguenze, il neocapitalismo si presenta con la stessa facies del comunismo nei Paesi in cui si è imposto in senso dittatoriale: limita o, per dir meglio, annulla il libero pensiero e, in ultima analisi, l’uomo, che non è più il fine, bensì subisce uno scadimento a mezzo per raggiungere altri fini che si pongono fuori dell’uomo stesso. L’alienazione, concetto di origine dotta che affonda le sue radici nelle pagine di Marx, di Hegel, si colloca, all’interno del dibattito intellettuale e politico a cavallo degli anni ’50 e ’60, come un tema di assoluta centralità e che non tarda a riflettersi anche in una vasta tradizione romanzesca che ha come massimi rappresentanti Volponi, lo stesso Ottieri e, se si vuole, il Bianciardi della Vita agra. È sintomatico, inoltre, il quarto numero del Menabò di Calvino e Vittorini dedicato a Industria e letteratura (1961), in cui si ospitanoil Taccuino industriale di Ottieri, Una visita in fabbrica di Sereni e alcune poesie di Giudici accompagnate dal proverbiale titolo Se sia opportuno trasferirsi in campagna. In seguito, nel maggio del 1962, Moravia pubblica sull’Espresso un articolo, I miei problemi, in risposta alle accuse di Arrigo Benedetti che imputava agli scrittori, in particolare Piovene e lo stesso Moravia, un abuso del termine alienazione, «per moda, senza vera e sentita necessità». Secondo Moravia, diversamente, «lo scrittore oggi non può ignorare l’alienazione» perché il suo lavoro consiste nel restituire la complessità del reale e pertanto oggettivizzare le questioni di più immediata urgenza. E l’alienazione è indubbiamente una di queste.

La crisi del rapporto dell’individuo con la realtà rappresenta, peraltro, uno dei motivi centrali dell’intera opera narrativa di Moravia, accanto alla rivolta, all’eros, al denaro. Dagli Indifferenti almeno fino alla Vita interiore (1978), ma soprattutto con un’operazione fenomenologica come La noia, uscito proprio nel ’60, mentre si prepara il dibattito sull’alienazione, la consapevolezza filosofica sul tema cresce sempre più e viene definitivamente sviscerato con il mezzo più adeguato, secondo Moravia, alla conoscenza della realtà, ossia il romanzo. È dunque con La noia – oltre a talune occasioni successive, come i racconti dell’Automa (1962), la celebre intervista a Claudia Cardinale (1963) e il romanzo L’attenzione (1965)– che questa lunga attività di indagine, di profonda riflessione ontologica sull’alienazione giunge a compimento.

Ai temi del neocapitalismo e dell’alienazione, così impellenti per Moravia, verrà dedicata anche un’inchiesta su un numero di Nuovi Argomenti: 10 domande su «neocapitalismo e letteratura»(marzo-giugno 1964), a cui partecipano, tra gli altri, anche Arbasino, Chiaromonte, Eco, Pasolini, Vittorini. Il saggio di Moravia, Eternità naturale e eternità industriale, si sviluppa a partire da alcune riflessioni sull’analogia tra la natura e la civiltà industriale. Le due entità condividono gli stessi meccanismi di funzionamento («ambedue producono in massa e in serie»), gli stessi scopi («ambedue producono per consumare, e consumano per produrre»), le stesse finalità («ambedue infine producono oggetti che non debbono durare e questo per la buona ragione che se durassero, così la civiltà industriale come la natura si troverebbero gravemente imbarazzate»). La civiltà industriale ha cercato di imitare l’eternità della natura mediante l’appropriazione del ciclo naturale per eccellenza, ossia creazione-morte-creazione, prendendo anche in prestito numerosi lessemi dal suo campo semantico: «una moda “nasce e muore” oppure un vestito è una “creazione” oppure ancora un’automobile ha “una vita” e dunque, come è logico pensare, anche una morte». La differenza, nota Moravia, è che l’eternità naturale possiede un carattere «esaltante e vitale, anche se terrificante», mentre quella industriale è intrinsecamente «scoraggiante e mortuaria» perché produce oggetti privi di durata, trasforma il superfluo in necessario attraverso la pubblicità, genera ritmi meccanici e ripetitivi e, dunque, alienazione, dal momento che l’uomo «sente benissimo di non essere il fine della civiltà industriale la quale, in sostanza, è fine a sé stessa. Ora, quando l’uomo scopre di vivere in un mondo che non ha per fine lui stesso, egli desidera di morire».

Questa è la nostra città si posiziona nel solco di questo cruciale discorso a cavallo tra il primo e il secondo Novecento. La sua pubblicazione fornisce, dunque, un ulteriore esempio del tipico atteggiamento moraviano che consiste nell’interrogarsi continuativamente sui temi di più immediata urgenza, non solo attraverso la forma più congeniale del saggio, ma anche mediante la loro resa artistica, in questo caso col medium del soggetto cinematografico. È, inoltre, un’opera che va a sommarsi alla enorme bibliografia di Moravia, offrendo una postura inedita – diversa, ma non completamente distante – rispetto a quella del grande narratore cui siamo abituati.



Copertina: Immagine di Fondazione Pirelli

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