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Michael Bible, la narrativa è condividere la vita segreta

In occasione della pubblicazione di “Goodbye Hotel”, l’intervista con lo scrittore del controsogno americano che si definisce autoesiliato in patria

«Non ricordo quale scrittore parla di come le persone abbiano una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta. Per me la narrativa è condividere la vita segreta». Vite segrete, non trasparenti, non lineari – per quanto di lineare possa mai esserci dentro un’esistenza – sono quelle che popolano Goodbye Hotel, l’ultimo romanzo dello scrittore americano Michael Bible, appena pubblicato da Adelphi.
Come nel precedente volume, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi, 2023), anche qui la storia comincia in una cittadina nel North Carolina, Harmony, che a dispetto del nome non è affatto un posto tranquillo: «Ho iniziato ad ambientare la maggior parte dei miei lavori in questa città immaginaria soprattutto per convenienza, ma anche perché vivo in uno stato di esilio autoimposto dalla mia patria. Torno nel Sud forse una volta all’anno, ma sono ossessionato dai ricordi della cittadina in cui sono cresciuto. Mi perseguita, e perseguita il mio lavoro».  

michael bible

Bible torna a una struttura in qualche modo a chiasmo, con uno o più eventi raccontati da voci diverse, in tempi e luoghi diversi. Non c’è una verità unica e definita nemmeno per fatti che la richiedono più di altri: uno strano incidente, la scomparsa di una ragazza, Eleanor, che poi si ritrova altrove – ma nessuno lo sa; la sua presunta storia d’amore con l’analista da cui è stata in cura; o ancora, i salti e le scelte di François, altro personaggio chiave, che pure sparisce e ritorna. Sono questi, gli eventi e gli umani al centro del libro, e per certi versi lo sono senza esserlo. Non a caso, c’è un capitolo che si chiude così: «Ma anche tutto questo non è vero».
Lo scrittore non è interessato ai punti fermi, al dominio della razionalità, al contrario: «Devo dichiararmi ignorante sull’assenza o presenza di una verità assoluta nel mondo. Per molti versi mi sono abbandonato completamente all’ambiguità. Non solo nel mio lavoro, ma anche nella mia vita. Mi oppongo alle ideologie, alle scuole di pensiero, al pensiero razionale. Sono ossessionato da come gli altri vedono il mondo e dai limiti della nostra conoscenza reciproca».     

In quella vertigine, nella consapevolezza ambigua dello scarto tra ciascuno di noi e il resto del mondo, c’è forse la matrice stessa della scrittura di Bible. Non a caso, a rimarcare la distanza tra i personaggi e il mondo, c’è una tartaruga. Non una qualunque, ma una gigantesca tartaruga che ha attraversato più secoli. Anzi, in realtà sono due: Lazarus e Little Lazarus (che è anche il titolo originale del romanzo). Legate a Eleanor, a sua sorella, a François e a una serie di personaggi più o meno secondari, le due tartarughe, ciascuna a modo suo, ne attraversano il destino. Lazarus e Little Lazarus esistono da prima di loro ed esisteranno dopo di loro. Per una serie di concause, passaggi e successioni di eventi, i protagonisti del romanzo sono in qualche modo incaricati di custodirle: come portando, insieme a loro, il segreto del tempo. Una sorta di enigma in movimento, con le due tartarughe partecipi silenti di quelle esistenze, delle curve impreviste dei destini.          

michael bible

D’altra parte il tempo, per Bible, rappresenta una vera e propria ossessione, che si riflette nella scrittura: «Sono costantemente alla ricerca di modi per ricordare il tempo, recuperarlo e tenerlo tra le mani». Risale, parlandomi, alle radici di questa sua ossessione, incarnata da tre grandi scrittori: Faulkner, Proust e Woolf. Quanto alle tartarughe, e al loro peso, simbolico e non solo, nello spazio del romanzo, Bible riflette sulla durata possibile della vita, e sui modi per misurarla: «Quando si è giovani il tempo scorre lentamente, ma quando si è anziani sembra accelerare. Mi piace riflettere su qualcosa di vecchio e grande come una tartaruga gigante. La loro vita è molto più lunga della nostra, eppure la vivono come un battito di ciglia».

Dentro quel tempo non oggettivo, lento o veloce che sia, c’è, appunto, la vita. Le pagine di Goodbye Hotel sono attraversate da un senso di compassione verso le umane debolezze, le mancanze di cui siamo allo stesso tempo artefici e vittime. Ciascuno, a modo suo, prova a sopravvivere: «Siamo tutti ciechi davanti a noi stessi», si legge in un passaggio del romanzo ribadito con altre parole più avanti. È proprio Eleanor a dare una definizione di cosa vuol dire stare al mondo senza avere il controllo di sé stessi: «Sugar è un ragazzino come sono ragazzini tutti gli altri uomini del mondo. Arrapati e pieni di paure». Si coglie un senso di mitezza cupa, di rassegnata consapevolezza.

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Ai drammi e ai dilemmi borghesi, alle storie chiuse nelle ridotte cerchie familiari, Michael Bible oppone esistenze azzoppate, sghembe, scontornate, fatte di dettagli vividi ma essenziali, presentate con poche coordinate. Tanta vita, e tanti atti mancati, pagine lasciate a metà o strappate via. Una sorta di controsogno americano, spiega l’autore: «Gran parte della vita contemporanea è dedicata alla banale ricerca dell’ottimizzazione personale. Agli americani viene insegnato che il fallimento, la debolezza e la povertà sono i peggiori peccati immaginabili. A differenza dei miei connazionali, a me piacciono i degenerati, i deboli e i disperati. Uno scrittore che amo, David Markson, ha un ritornello in uno dei suoi libri: “Vecchio. Stanco. Malato. Solo. Al verde”. Questi sono i tratti che sostengo. Sono i nostri difetti a renderci umani, non i nostri trionfi».

E, proprio a proposito di trionfi piccoli o grandi, Bible trasmette un certo stupore per il suo stesso essere scrittore: «È assurdo per me aver pubblicato dei libri. Sono cresciuto con nessuno che si interessasse di letteratura. La narrativa letteraria in America è vista come la più bassa forma di “sfigatezza” a cui si possa aspirare». Lo stupisce anche il riscontro tra i lettori italiani, che definisce “inimmaginabile”, e usa la parola sogno per la pubblicazione con un marchio come Adelphi. Bible, che conferma con questo romanzo un immaginario e un linguaggio, consegna a un treno la sua idea di letteratura: «Tutta la vita è un tentativo fallito di recuperare il nostro passato. Cerchiamo di dare un senso alle cose solo dopo che sono accadute. Stiamo tutti scrivendo le nostre biografie dalla carrozza del treno, guardando all’indietro».




In copertina: © Simon Kerola, 2025

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