Dopo il romanzo di esordio Come uccidere le aragoste (Giulio Perrone editore), Piero Balzoni – autore e script editor per la televisione, attivo oggi per Rai e Lux Vide – è tornato in libreria con Vita degli anfibi (Alter Ego), un libro altamente simbolico che ha tra i protagonisti anche l’assenza, la scomparsa, e l’atmosfera tipica delle storie più vitali.
Vita degli anfibi è un romanzo che ammicca a varie tipologie di testo: ci sono delle indagini ma non è un giallo, c’è un dio del lago ma non è realismo magico né è (solo) una favola, c’è la crescita di una bambina e del suo sguardo ma non è (solo) un romanzo di formazione.
Anche il tuo romanzo può essere, secondo me, visto come un anfibio, che non è solo un animale d’acqua, non è solo un animale di terra, ma ha proprio nelle sue diverse nature in diversi stadi la sua fascinazione. Che ne pensi?
Direi che è esattamente così. Ma parlare di volontà progettuale mi sembra azzardato. In questo testo più che in altri ho cercato di portare al massimo livello la mia libertà espressiva, perlomeno nel corso della prima stesura. Senza fermarmi a riflettere sul luogo che alcune costruzioni avrebbero trovato nella riscrittura o a quanto azzardate mi sembrassero alcune soluzioni di racconto. Oserei dire che tornando indietro rifarei lo stesso perché nel viaggio ho incontrato aspetti di me stesso che non conoscevo ancora. Così ho attraversato inconsapevolmente anche strutture di genere e forme narrative proprie di linguaggi che avevo utilizzato nel mio passato di sceneggiatore. Solo che qui non hanno funzioni dedicate per lo sviluppo dell’intreccio né costituiscono puntelli utili all’architettura di plot. Sono più che altro personaggi e congetture semantiche venute fuori dall’ambientazione lacustre e dalle decisioni prese di stesura in stesura. Di qui, credo, la natura “anfibia” del racconto.
Bontempelli, nel suo saggio Sul mito, racconta di un drago avvistato in un lago: tutti parlano del drago, tutti fanno congetture sul drago, ma alla fine viene fuori che nel lago non c’era altro che un semplice carpione. E allora, dice Bontempelli, il mito è “vitale” quando, anche dopo aver saputo che nel lago c’è solo un carpione, non riusciamo a toglierci dalla mente l’immagine del drago. È un po’ come quando parliamo di “sole che sorge e tramonta” pur sapendo benissimo che è la Terra a muoversi.
C’è nel tuo romanzo un mito molto vitale, che è quello del dio del lago. Puoi parlarcene?
Anche questa mi sembra un’intuizione figlia dell’ambiguità del testo. Un dio del lago nell’immaginario comune è senz’altro un dio pagano. Non so a che punto sia oggi il paganesimo ma non trovi anche tu che faccia parte di un immaginario espressivo libero dalle connotazioni rigide? Forse per questo motivo è stato sempre un buon vettore di significati ambivalenti, terreno di coltivazione comune a molte delle religioni monoteiste che conosciamo oggi. Non lo dico per scalzarmi dal discorso religioso in sé. Tutt’altro, sono molto interessato al meccanismo di sviluppo della preghiera e del suo significato profondo, essendo io stesso una figura anfibia, a metà tra due differenti religioni. Questo dio del lago – statua sul fondo di un lago, padre irraggiungibile – dopotutto non è altro che l’espressione di un desiderio di ricongiungimento impossibile. Un po’ quel che accade, credo, proprio nel momento della preghiera. Smettiamo di domandarci se dall’altra parte ci sia il drago o il carpione e ci concentriamo sulla comunicazione.
Un altro elemento pieno di vitalità è appunto il “simbolo” (inteso nella sua accezione di “significato ad alta concentrazione”) dell’anfibio, centrale nel tuo romanzo. Ci sono i girini del ricordo della protagonista, c’è la madre con la sua spaventosa e disperata risata da rana, c’è poi tutto il significato dell’anfibio che riguarda la capacità di adattamento, ma anche del legame con l’infanzia, primo stadio acquatico e luogo del ricordo. Puoi raccontarci come hai lavorato su questa simbologia, da dove sei partito e se è qualcosa che avevi progettato dall’inizio o che hai potenziato in revisione?
Anche nel mio primo romanzo si parlava di animali, che a questo punto credo di poter reputare centrali nel mio immaginario narrativo. Però gli animali non sono il punto di partenza, direi piuttosto che sono l’approdo. Quando scrivo cerco di essere assolutamente libero. Libertà per me non significa lasciar scorrazzare la penna per le praterie del foglio, magari ne fossi capace, ma ritrovare un filo logico che lega i pensieri selvatici buttati sul monitor nel corso della prima stesura. Dopotutto sono io che li ho scritti, avranno pure un senso. Ma il senso è bugiardo e certe volte nasconde ciò che si trova più in profondità. Allora c’è un momento, durante la fase di riscrittura, in cui gli animali mi vengono in soccorso e all’improvviso danno un senso a ciò che stavo cercando. Non sono io a chiamarli, sono loro ad arrivare. Se arrivano. E allora mi sembra che alcuni meccanismi acquistino un senso, così come il filo delle esperienze che ho vissuto fino a questo punto. A sette anni riuscii a convincere i miei genitori a lasciarmi allevare un girino. Crebbe, attraversò tutti gli stadi dello sviluppo, e divenne una piccola rana (o un piccolo rospo, chi può dirlo). Morì di fame, o di freddo, o di qualcos’altro che io gli avevo fatto mancare. C’entra l’infanzia? Il ricordo? Forse stava scritto da qualche parte che prima o poi avrei parlato anche di lui. Piuttosto che di progettualità, quindi, parlerei di casualità.
Il lago del tuo romanzo è poi uno spazio che cambia: c’è il modo in cui la protagonista lo vede da bambina (bellissime le immagini della cattedrale in fondo al lago) e il modo in cui lo vede poi, da donna, con tutti i cambiamenti oggettivi che ci sono stati. Ma non si tratta solo di oggettività. Un luogo è anche il nostro sguardo, siamo noi a cambiare e a vederlo diversamente. Cosa ne pensi?
Mi è rimasta impressa una frase che ho letto chissà dove qualche tempo fa. Recitava pressappoco così: non è vero che quando cresciamo i luoghi della nostra infanzia ci sembrano più piccoli perché noi siamo cresciuti. Il fatto è che crescendo noi facciamo conoscenza di realtà geografiche differenti per ampiezza, quindi immagazziniamo un bagaglio maggiore di misure spaziali riguardo al concetto di ampiezza. Ecco perché tornando in un luogo che conoscevamo ci sembra più piccolo. Perché è cambiata la nostra percezione di ciò che è grande e ciò che è piccolo. Dando una terza dimensione a questo pensiero, direi che un luogo dell’infanzia può apparirci mutato perché è finita la magia. E di magia mi sembra ne sia rimasta poca intorno a noi. Abbiamo piegato ciò che era naturale, ciò che era puro, alla volontà dell’industria e a quella del mercato. Non siamo più stati capaci di guardare ai luoghi dell’infanzia come a un patrimonio da preservare e il risultato è stato dei peggiori. Un’emergenza climatica che potrebbe segnare la nostra fine come specie. Chissà perché ci siamo convinti di dover “salvare il Pianeta” quando è dimostrato che il Pianeta si salva benissimo da sé. Basti vedere cosa sta accadendo alla regione di Chernobyl, dove sono tornate a vivere specie animali e vegetali considerate estinte da anni soltanto perché all’uomo la zona è interdetta a causa di un disastro radioattivo auto-inflitto. Se c’è qualcuno da salvare, quindi, quello è l’essere umano.
Ma parliamo dell’assenza. In questa storia si racconta della scomparsa di un uomo, un padre, e soprattutto dell’assenza che si trovano a fronteggiare i vivi.
Come si racconta un’assenza, come si descrive un vuoto, come si rappresenta graficamente uno spazio bianco? A me, leggendoti, viene da dire: con il ricordo di una presenza e con la successiva discontinuità. Lo spazio bianco è il vuoto che segue una parola, o che c’è sotto una riga. È la memoria della protagonista (con il ricordo dell’altalena, per esempio) a descrivere l’assenza, è così?, e l’immaginazione è ciò che cerca di accomodarsi in quel vuoto.
Non potevi descriverlo più chiaramente. Ora, credo che il problema comune a chi scrive non sia tanto quello di dare una definizione a ciò che scrive – là si può agire semmai a posteriori – ma piuttosto quello di riuscire a rendere comune a chi legge lo spazio bianco di cui parli. Il mio dilemma mentre lavoravo al rapporto tra questa figlia e questo padre ruotava intorno al mistero che porta con sé una conoscenza a metà. Che cosa sapeva lei di quest’uomo che appariva e scompariva? Di chi poteva fidarsi di più, dell’immagine di lui che sua madre le rimandava continuamente o di quella che lei aveva costruito per sé con il puro istinto di figlia? Cioè una ragnatela di pensieri sfilacciati che fosse robusta abbastanza da contenere spiegazioni rassicuranti, però sottile, invisibile, pericolante come la bava di un ragno. Di qui l’idea di raccontare l’amore con mozziconi di ricordi, racconti intermittenti, verità sospese a mezz’aria, che sono appunto la chiave d’ingresso principale alla storia.
La protagonista non ha un nome, la madre non ha un nome; perfino molti luoghi non hanno un nome, per quanto sempre splendidamente descritti e connotati. Anche quelle sono assenze che possiamo provare a riempire?
Ti racconto un fatto. Quando ho iniziato a descrivere il lago da cui la vicenda prende le mosse, non avevo idea di che lago fosse. Però poi rileggendo ho capito che sì, quel posto io lo avevo visitato da bambino, nel corso di una giornata come un’altra ma per me indimenticabile, non so perché. In ogni caso, non ricordavo né dove fosse né tantomeno se avesse un nome. Mi è sembrato strano non ricordare il nome di un posto che avevo visto da bambino e che per motivi misteriosi tuttora consideravo indimenticabile. Ma ho voluto lavorare in questa direzione e mi è sembrato che fosse più facile riscoprire l’anima delle cose senza chiamarle per nome. Così ho esteso il concetto anche ai personaggi protagonisti: padre, madre, figlia.
Un’ultima domanda sulla lingua: il tuo è un flusso unico, un flusso in cui anche l’assenza di caporali all’inizio dei dialoghi ci porta a vivere tutta la storia senza mai soluzione di continuità. L’obiettivo – in questo caso riuscitissimo – era far sì che anche quella nella storia, in questa storia così simbolicamente “acquatica”, fosse un’immersione?
Ecco un bel mistero. Forse sarà successo anche a te, però mi è capitato spesso di leggere testi a mio parere bellissimi senza mai riuscire a cogliere, rilettura dopo rilettura, dove fosse davvero l’aura magica, lo “spleen”. È un po’ quel che succede con le canzoni, quando ti domandi se sia nata prima la musica o le parole. Può darsi che la domanda giusta da porsi sia da un’altra parte. Ad esempio dove comincia la musica e finiscono le parole. Per la ritmica di un romanzo forse si potrebbe fare lo stesso discorso.
In copertina, scatto di Jeremy Bishop su Unsplash