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L’occhio del Pettirosso ovvero l’ultimo esperimento alchemico di Giuliana Altamura



L’ultimo romanzo di Giuliana Altamura, L’occhio del Pettirosso (Mondadori, 2022), mostra in modo ancor più marcato rispetto ai due precedenti (Corpi di Gloria, 2014; L’orizzonte della scomparsa, 2017) la capacità dell’autrice di usare il racconto per schiudere al lettore uno squarcio di senso, di verità. In quanto studiosa di teatro simbolista francese sa che ogni parola è un simbolo, dunque (se l’etimologia insegna qualcosa) vive di duplicità, di un lato manifesto in tensione con quello oscuro. Ogni linguaggio artistico si esprime attraverso simboli, cercando di imprimere questa tensione in una forma definita. Anche la scrittura di Altamura vive di una tensione costitutiva, quella fra narrazione e riflessione filosofica. Ogni sua opera è evidentemente anticipata da una ricerca approfondita, ma la ricchezza dei riferimenti presenti nel testo viene inserita in modo fluido e con grande naturalezza nel tessuto narrativo, senza appesantire la lettura. L’autrice raccoglie nel corso dei suoi studi alcune suggestioni che poi riesce a far “brillare”. In L’occhio del Pettirosso è addirittura la fisica quantistica a offrire lo spunto per una riflessione sulla temporalità, sull’umanità e sull’esistenza: nel microcosmo si realizza l’intuizione eraclitea secondo cui gli opposti possono coincidere armonicamente.

l'occhio del pettirosso

Per superare le nostre schizofrenie bisogna dunque indagare l’infinitamente piccolo? È quello che cerca di fare il protagonista del romanzo, Errico Baroni, ricercatore del Cern ossessionato dalla possibilità di avere una visione quantica, che possa vedere al di là dello spazio-tempo, superando le categorie che ingabbiano l’umano in una visione parziale. Un sogno faustiano, come viene più volte ribadito. È possibile vedere la realtà nel suo insieme? Lavora alla progettazione del pc più avanzato al mondo ma la tecnica non riesce a stare al passo dei suoi sogni: l’homo faber è inferiore all’uomo sognante. Proprio come il Faust allora si rivolge, per disperazione, a una dimensione altra, quella della magia, attraverso il sensitivo Egon Meister, che ha la capacità di vedere passato presente e futuro come se fossero una cosa sola. Dopo quest’incontro si ritira nella baita di montagna con la moglie, ma aleggiano i fantasmi di un passato famigliare che continuano a tormentarlo. In questo luogo farà esperienze e incontrerà figure che lo porteranno a sconvolgere il suo modo di vedere e di rapportarsi alla realtà.

Il filo rosso tematico che accompagna tutte le opere di Giuliana Altamura è il desiderio, o meglio l’impossibilità di soddisfare un desiderio: il desiderio di un altrove, di un altro corpo o, in questo caso, della Verità. Come esorcizzare il male, la sofferenza, l’insoddisfazione del desiderio? Come liberarci da questo bisogno, dove trovare la nostra catarsi? Per soddisfare il proprio desiderio il protagonista dell’Occhio del Pettirosso capisce che deve trasformare il proprio sguardo. Ecco allora che il senso del romanzo si svela nella relazione fra i personaggi, in particolare nella tensione e complementarietà fra Errico, Greta e Jinrou. Erricoincarna il razionalismo scientifico, il logos in senso classico, la parola-discorso che vuole com-prendere la legge, che vive il tempo come continuità e durata. Greta incarna l’immaginazione poetica, la parola che squarcia il velo, lo sguardo che vuole cogliere attraverso l’intuizione, che vive il tempo come discontinuità e istante. Scriveva il filosofo francese Gaston Bachelard che «bisogna amare le potenze psichiche con due amori diversi se si vogliono amare i concetti e le immagini, i poli maschile e femminile della psiche». Ma l’incontro fra queste due dimensioni necessita un medium, che è rappresentato da un terzo personaggio, la misteriosa Jinrou, che in quanto medium ha un atteggiamento essenzialmente passivo, ma allo stesso tempo esprime una propria forza specifica, che non tende a dividere ma a unire. È lei a incarnare quello sguardo da pettirosso che dà senso al titolo e a svelare il paradosso per cui l’uomo, per conquistare ciò che cerca, è costretto a imitare l’animale.

Uomo e animale, città e natura, terra e aria, l’apertura della montagna e l’oscurità del bosco, occidente e oriente, maschile e femminile, concetto e immagine, durata e istante: indagare tutte queste contrapposizioni di cui vive il romanzo è un gioco che qui non può essere sviluppato. Ma è inevitabile soffermarsi sulla contrapposizione essenziale, quella fra divisione e unione. In questo dettaglio si nasconde il Diavolo. Satana è etimologicamente colui che opera la divisione. Errico sarà costretto, come un moderno Giobbe, ad affrontare l’esperienza della sofferenza e della solitudine, a mettere alla prova la propria fede, quella nei confronti della razionalità scientifica («la quantistica è teologia del nostro tempo»), ma alla fine riuscirà, in un certo senso grazie a Satana, a instaurare un rapporto più sano con se stesso, con la vita, con sua moglie, dando vita alla vita.

Ma ancor più che le pagine filosofiche di Bachelard o quelle poetiche del Libro di Giobbe, L’occhio del pettirosso ricorda le atmosfere oniriche e disorientanti del Faust di Aleksandr Sokurov. Come durante la visione del film del regista russo, l’immersione nella lettura provoca a tratti un effetto di straniamento e squilibrio, fino al momento in cui, come in un’illuminazione, tutto torna limpido e in un finale fulmineo l’equilibrio viene ristabilito. Insomma questo romanzo – a cui si può legittimamente aggiungere l’ambizioso aggettivo “filosofico” – somiglia a un esperimento alchemico ben riuscito, capace di mescolare insieme letteratura e filosofia, scienza e magia, bitcoin e fisica quantistica. Il lettore non si impaurisca, con questa scrittrice la catarsi finale è sempre assicurata.


In copertina scatto di Hal Gatewood su Unsplash

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