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L’importanza di chiamarsi Fran Lebowitz. Sarcasmo, New York e sigarette



InThe Wolf of Wall Street, il suo regista, Martin Scorsese, ci catapulta in una scena ambientata in tribunale in cui a fare da catalizzatore è una giudice secca e risoluta, con viso ovale e capelli corvini dal taglio corto e retrò. Biancaneve appena sveglia? Non proprio. La macchietta dagli occhiali tartarugati, la cui sentenza lascia sbalordito un moro e spietato Leonardo Di Caprio, non è un membro della Corte Suprema, bensì una scrittrice. Una scrittrice poco prolifica, che non sopporta le folle, ma adora ballare ai party gremiti di artisti e viveur; che evita le chiamate degli editor insistenti; che apprezza i bambini perché «fanno domande migliori degli adulti»; che considera New York l’unico posto sulla faccia della Terra in cui si possa vivere in maniera legittimamente sensata. La giudice scorsesiana è Fran Lebowitz, colei che ha fatto del vivere di scrittura senza effettivamente scrivere troppo la sua religione.

Bompiani ha pubblicato di recente una raccolta delle sue opere, per la prima volta in traduzione italiana, in una bella curatela che si apre con una prefazione di Simonetta Sciandivasci e si chiude con due interviste; la prima pubblicata sulla Paris Review nel 1993 e la seconda, del gennaio 2021, scritta e condotta dal traduttore stesso dei suoi scritti, Giulio D’Antona (il titolo, Biden è più vecchio di me, già suggerisce molto). Con La vita è qualcosa da fare quando non riesci a dormire, Bompiani propone quindi una collezione di testi tratti dai suoi due libri pubblicati, Metropolitan Life e Social Studies, rispettivamente nel 1978 e nel 1981.

«“Sembra che tu abbia quasi sempre ragione, ma anche che tu non sia mai imparziale,” le ha detto una volta la scrittrice Toni Morrison. “È vero,” ha risposto lei. “Ho sempre ragione perché non sono mai imparziale”.»
(Dall’intervista a cura di Giulio D’Antona)

Lebowitz è una di quelle personalità assurdamente caricaturali da sembrare, per questo, profondamente autentiche nel loro individualismo. Fuggita dal suo New Jersey natale alla volta di New York nel 1969, diciotto anni e una manciata di dollari in tasca, ha iniziato, con fatica, resilienza e molta audacia, a montare i pezzi della vita che vedeva per se stessa. Nel secondo documentario che Martin Scorsese le dedica, uscito l’inverno passato su Netflix con il titolo Pretend It’s a City, Lebowitz racconta di sé esattamente con lo stesso piglio che assume nello scrivere di sé nei suoi saggi. Ricorda insieme a Scorsese di aver lavorato come tassista in gioventù, tra gli altri mille lavori intrapresi per mantenersi, di aver amato New York fin da subito e di amarla tuttora costantemente, malgrado i suoi cambiamenti.

Lebowitz

Fran stessa, parlando delle sue scelte, delle sue passioni come il Motown e Leonard Bernstein e dell’odio per sport e nuove tecnologie, si connota come lo strabiliante personaggio dei romanzi che non riesce a scrivere. Ascoltandola e leggendola, ci si immerge nella sua concezione di vita, forse riassumibile in queste sue stesse parole:

«La vita è solo un dannato susseguirsi di una cosa dietro l’altra: e la morte è un cabaret.»

La spontaneità con cui offre il numero incontrollabile di opinioni che ha in testa è la marca di un’arguzia estremamente fine, attraverso la quale far ridere è semplice tanto quanto far riflettere. Sarcasmo e ironia si mescolano in un cocktail assurdamente spassoso nel linguaggio di Lebowitz, così come convinzione e verità, ribellione e snobismo, ozio e ispirazione, pigrizia e irruenza. Incapace di nascondere ciò che pensa, non prova nemmeno a farlo, ed è proprio questo uno degli aspetti che alimenta la sua forza narrativa. Le sue radici ebraiche contano nell’impressione della sua educazione e nel risultato della sua scrittura, onesta ma sempre un po’ cinica; la portano a esprimersi con una puntualità di messaggio stupefacente, spingendola a vedere il mondo nelle sue stratificazioni più nascoste e a scavare tra le pieghe più sottili.

In La vita è qualcosa da fare quando non riesci a dormire, Lebowitz raccoglie pezzi di vita vera, un paio di viaggi in Italia (fatti controvoglia), molti avvertimenti su come rapportarsi con le persone, con gli animali, con le persone che sono simili ad animali. Ci sono test a risposta multipla, le cui risposte sbagliate sono non proprio sottilmente suggerite, e liste di tutti i generi. Discute di orientamento sessuale, di arte, di piante, di quanto ami dormire, dell’uso corretto della parola lady, dei pro e contro di avere figli. Riflette sul fatto che, se andasse a cena con un altro scrittore, preferirebbe James Thurber del New Yorker a James Joyce, preferendo «qualcuno di simpatico».

Lebowitz si destreggia così tra “cose” e “persone”, tra guide per ogni evenienza e consigli a chiunque, il tutto infiocchettato in uno stile di scrittura personalissimo e arguto, fatto di frasi brevi e tronche, un lessico scelto con il contagocce e un tono di ribellione costante anche oltre i settant’anni. Fran è simile al suo signature outift che indossa con una costanza invidiabile; giacca da uomo scura, jeans a sigaretta e camicia bianca allacciata fino ai penultimi bottoni. Un fumetto del New Yorker che cammina, le cui opinioni sono brutalmente o bianche o nere, ma la cui esistenza è segnata dai colori più vivi e impertinenti.

«La pace interiore non esiste. Ci sono solo ansia e morte. Qualsiasi tentativo di provare il contrario costituisce un comportamento inaccettabile.»

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