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L’etica della parola esatta. Mario Rigoni Stern nel suo ritratto più vicino



Prosegue la collaborazione editoriale tra Limina e UNIMONT – Università della Montagna, polo d’Eccellenza dell’Università degli Studi di Milano a Edolo, nel cuore delle Alpi, specializzato nella promozione dello sviluppo delle montagne attraverso attività di formazione, ricerca e terza missione specifici per questi territori. A UNIMONT sono attivi il corso di laurea in “Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano” volto a formare specialisti del sistema montano e il Centro di Ricerca Coordinata per la Gestione Sostenibile della Montagna (Ge.S.Di.Mont.), in cui lavorano attivamente numerosi giovani ricercatori per innovare e rendere competitivi i territori montani. Dal 2017, negli spazi di Unimont va inoltre in scena “RacCONTA LA MONTAGNA”, una rassegna letteraria dedicata alla saggistica e alla narrativa di montagna che vuole metterne in risalto il “potere” culturale ed evocativo.
Con l’obiettivo condiviso di raccontare la montagna, l’ambiente, la natura, le mutazioni del paesaggio e della società, i modelli economici sostenibili, i nuovi stili di vita e la crescente sensibilità green, la redazione di Limina e Unimont percorreranno insieme il lungo sentiero del racconto di un cambiamento nel quale è giunto il momento di essere protagonisti, interrogando le voci di studiosi, scrittori, docenti, pensatori e studenti riuniti nella consapevolezza che non sono più rinviabili un dibattito e una riflessione, letteraria, critica e formativa, sul futuro del pianeta e di chi lo abita.

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Sono diventati amici per via di Joseph Conrad. Giuseppe Mendicino quando ha letto in un’intervista di questo amore comune ha preso un appuntamento con la moglie di Rigoni Stern, Anna, «il sergente maggiore di casa», e ha conosciuto l’uomo di cui oggi è il biografo più preciso. Come testimoniano le pagine che compongono il libro Mario Rigoni Stern. Un ritratto, uscito lo scorso luglio per Laterza. Una biografia che sceglie il tempo verbale del presente, come fosse una conversazione ancora in corso tra due persone che non si possono perdere. Incontriamo Giuseppe Mendicino al Film Festival della Lessinia, la rassegna cinematografica internazionale che si tiene ogni anno, a fine agosto, a Bosco Chiesanuova, sulle montagne veronesi e che ha per soggetto la vita nelle terre alte.

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Mendicino, già autore di Il coraggio di dire no. Conversazioni e interviste (1963-2007), è abituato a rispondere alle tante, più o meno pertinenti, domande attorno alla figura di Rigoni Stern. «Sì, sarebbe stato uno scrittore lo stesso, anche se non fosse andato in guerra, anche se non fosse vissuto vicino alle sue montagne» dice con concisa certezza.
Sergente coraggioso, amante della natura e impiegato del Catasto con alle spalle studi modesti: lo scrittore Mario Rigoni Stern, racconta Mendicino, è nato prima come lettore. E a prova di questo c’è la Divina Commedia in un’edizione minuscola di Hoepli e un volume tascabile di poesie che Stern ha portato con sé anche nei momenti più duri, durante le guerre che l’hanno visto in prima linea. Accanto, in questo bagaglio lirico e segreto, sempre un quaderno. Così Rigoni Stern si è educato al ritmo della scrittura. Le annotazioni militari sui tre fronti, in Francia, in Albania e nella tormentata Russia, si mescolano ai resoconti delle salite alpinistiche in montagna. Lo spazio breve chiede esattezza, vocaboli scelti e parsimonia emotiva. Un esercizio per non debordare, l’unico per esprimere solo quello che serve. Così si spiega «la sua ricerca accurata e sofferta della parola giusta» chiarisce il biografo.

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Giuseppe Mendicino e Mario Rigoni Stern nel maggio del 2007. Foto di Giulio Malfer

La scarsità, il mozzicone di matita, con il quale ha scritto le prime bozze del Il sergente nella neve, prigioniero nel lager tedesco dopo il rifiuto a combattere per la Repubblica di Salò, sono stati gli strumenti per non tradirsi, consumando quel dolore nell’enfasi della retorica povera, vuota, di altri ma mai sua. In questo modo è riuscito a scrivere «la cosa più viva» sulla guerra, come disse nel 1951 Elio Vittorini, intento a provare a pubblicare il  resoconto privato e narrativo della ritirata dalla steppe della Russia del 1942 che, grazie all’edizione einaudiana Letture per la scuola media, è arrivato sui banchi di intere generazioni di studenti.
Il successo di questa prima prova, la consacrazione al Premio Viareggio non hanno però scalfito l’umiltà di Mario Rigoni Stern che in una lettera a Vittorini ha ammesso:

«Sono quello che sono, scrivo quello che scrivo […] Non sono neanche un letterato né pretendo esserlo o diventarlo: è una cosa troppo seria scrivere storie».

Stern ha narrato quello che gli è successo e che ha visto con la divisa di sergente e caporale degli alpini perché la memoria va curata e ha bisogno delle descrizioni più esatte, «di parole nitide» precisa Mendicino che tratteggia la passione dello scrittore per il dizionario dei sinonimi e dei contrari come l’antipatia per l’idioma della burocrazia che pure era costretto a utilizzare nelle lunghe giornate di lavoro in ufficio.

C’è in questa etica del dire senza sovrabbondanze e reticenze colpevoli, molto di ciò in cui credeva anche Primo Levi. «Sono convinto che così si deve scrivere, è il modo più serio e onesto e, se si guarda bene, in certo modo quello che “rende di più”, che convoglia più cose con meno parole, quindi anche il più poetico». L’autore di Se questo è un uomo scriveva queste frasi a Rigoni Stern per ringraziarlo di aver pubblicato un nuovo libro, Il bosco degli urogalli. Levi amava Stern, lo trovava simile a se stesso per le tragedie attraversate e per il rigore nel rievocarle. Lo ammirava come nessuno oggi riesce, senza invidia e con il desiderio di sapere di più su di lui, sui suoi mondi. In un’intervista Levi confidò che il suo Natale ideale sarebbe stato «con Mario Rigoni Stern, in un rifugio di montagna, a parlare davanti a un focolare».
Si erano promessi di fare una scalata insieme, «una specie di sogno». La meta era un lago nelle Alpi che entrambi conoscevano,«quel lago è in quota, circondato da montagne altissime e nere. – confidava tempo dopo Stern – Lo si può raggiungere due o tre mesi all’anno, e allora è azzurrissimo, con mille e mille fiori accanto. Giù, molto più giù, ci sono le vacche al pascolo, gli escursionisti non ci arrivano perché non lo conoscono. Non siamo riusciti ad andarci. È rimasto il nostro sogno»(da Primo Levi, le opere i giorni, di Massimo Dini e Stefano Jesurum, Rizzoli, 1992).
Rigoni Stern non ha mai rivelato dove si trovasse il lago della “nostalgia” per rispettare il carattere ideale di questo appuntamento. La cura filologica di Giuseppe Mendicino ha permesso di rintracciarlo: si tratta del lago Miserin, in Valle d’Aosta.
Le conversazioni nel bosco vicino a casa, le lettere e le dediche scambiate si interruppero però con brutalità nel 1987 quando Primo Levi morì. Mendicino racconta che Stern apprese la notizia dalla telefonata di un giornalista in cerca di un commento. Lasciò la cornetta e andò a piangere tra i suoi alberi.

«Nemmeno il bosco mi ha ridato serenità. […] Ho continuato a rivederlo. Lo rivedo spesso, Primo, sul sentiero dietro casa dove, quel giorno di tanti anni fa, erano passati i caprioli».

Per lenire questo, come gli altri dolori, Stern sceglieva sempre la natura. Larici e betulle erano i suoi alberi preferiti, traccia se ne trova anche in Arboreto salvatico, l’antologia di toccanti descrizioni che ha come oggetto il suo bosco privato, allestito vicino a casa. Tra gli animali, invece, amava gli urogalli, i galli cedroni e il loro canto che chiama il giorno. Intratteneva con il mondo naturale un rapporto aperto, puro e esistenziale che assomigliava a quanto diceva Albert Camus: accanto al Secolo, ai suo drammi e alle sue battenti priorità, c’è sempre la «regola del mare». Per Rigoni Stern era più la «regola del bosco», il ritmo, diverso da tutti gli altri, della montagna.

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