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La foto mi guardava. Ovvero la malinconia delle immagini



La foto mi guardava (Adelphi) di Katja Petrowskaja, che sto leggendo nella traduzione dal tedesco di Ada Vigliani, potrebbe appartenere a un genere singolare di pubblicazione: un libro che manifesta l’importanza dell’immagine per poi negarla subito dopo sentendo la necessità di accompagnare quell’immagine con un testo che ne sottolinea gli aspetti più singolari. Mi spiego. La mia esperienza di autore mi porta a credere che ogni libro nasca dal bisogno di descrivere a parole immagini preesistenti o ricordi dello scrittore e attraverso quelle stesse parole finisca per creare per il lettore la chiave di lettura di quelle immagini. Sicché, nel caso specifico il libro è il percorso che, attraverso la parola scritta, parte dallo sguardo dell’autore a quello del lettore. A maggior ragione quando il processo è esplicito come accade qui, dove l’argomento della scrittura è descrivere fotografie.

Nel momento in cui la foto compare sulla pagina il lettore è vergine. La situazione è sempre inaspettata. Egli non può prepararsi, non può prevedere nulla. Nella quasi totalità delle immagini senza la spiegazione dell’autrice quelle istantanee rimangono silenti. Non conosciamo i personaggi, né il contesto. In qualche caso la Petrowskaja spiega e contestualizza la situazione, in altri, al di là del raccontare dove e come s’è imbattuta nella foto, non dice altro; ipotizza, piuttosto.
Così lentamente avviene lo slittamento, attraverso le parole dell’autrice, da una visione vergine a una visione condizionata dalle parole scritte. L’attenzione del lettore è tutta qui: che cosa l’autrice dirà, come lo dirà; quale particolare della fotografia emergerà dalle parole.

Katja Petrowskaja

Il testo della Petrowskaja è una scelta di articoli usciti sulla ‘Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung’, ovvero il domenicale del più prestigioso quotidiano tedesco. L’autrice, ogni tre settimane, per un periodo di almeno cinque anni, qui dal 2016 al 2021, ha pubblicato un testo relativo a un’immagine fotografica che l’aveva impressionata per un qualsiasi motivo. In questo catalogo appaiono fotografie di autori affermati, istantanee di sconosciuti, foto riprese dall’album di famiglia, immagini vicine o lontane nel tempo. L’unica cosa che le riunisce è l’attenzione che hanno suscitato nella Petrowskaja che ne ha fatto materia di una rubrica di successo e, adesso, di un libro intrigante. Averle riunite in gran parte cambia il senso dell’operazione. Da pezzi cadenzati e separati tra loro da un congruo periodo di tempo, si passa al lavoro apparentemente compatto che esige dal lettore lo sforzo di considerare il testo che sta leggendo come un unicum. È la costanza dell’esperimento a rappresentare un fattore. Nel libro è stata operata una scelta e le date in calce dimostrano che la Petrowskaja ha cassato alcuni articoli forse meno riusciti.

Ogni breve capitolo è introdotto dalla fotografia presa in oggetto, in maniera che il lettore abbia sott’occhi di cosa si tratta; segue poi il commento (a volte molto attinente alla foto, altre volte sembra distaccarsene non poco); chiude immancabilmente la data di pubblicazione sul quotidiano che nella sua laconicità ha una sua funzione non peregrina. Ricorda al lettore d’essere stato progettato come pezzo a sé stante, convenientemente separato dagli altri.
Il testo è un’interpretazione moderna dell’ekphrasis greca, ovvero dell’arte di raccontare l’arte figurativa a parole. Di solito si considera l’origine di questa forma di scrittura la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade ma la questione è ingannevole. Lo scudo di Achille appartiene in toto alla fantasia di Omero. Non esiste in realtà. Invece la necessità dell’autore di ekphrasis è quella di descrivere o tramandare oggetti reali. Penso al periegeta Pausania e alle sue dettagliatissime descrizioni di opere pittoriche o di mosaico che tendono a sostituire la visione diretta dell’opera d’arte o a ravvivarne il ricordo. La Petrowskaja non ha quest’intenzione e scende più in profondità. L’immagine è condivisa col lettore, non è necessario che la descrizione sia accuratissima, ma è fondamentale che l’autrice scelga un ‘punctum’ su cui basare la propria analisi. Il lettore nella sua visione a volo d’uccello – perché sulle prime non può essere che tale – prova a indovinare quale possa essere e poi, nella lettura, valuta le consonanze e si affida alla voce dell’autrice per approfondire il rapporto con la fotografia.
A volte la storia, il tempo che trascorre dalla piccola data in calce ai pezzi e l’oggi in cui si legge il libro, produce scartamenti imprevedibili. È il caso della fotografia delle macerie della grande piazza di Kiev scattata nel 1943 e pubblicata sul giornale il 26.07.2015. Leggendo oggi non possiamo che accostarla alla guerra russo-ucraina, che la Petrowskaja, all’epoca, poteva solo prevedere e che forse, nella scelta della fotografia della piazza bombardata allora dai nazisti, aveva effettivamente previsto.

I volti, nitidi o offuscati, hanno un ruolo predominante nel racconto, comunicano straniamento e fragilità più di quanto non facciano i paesaggi ma sembrano durare eterni, una volta fermati nella pellicola fotografica ed è esattamente il contrario di quel che accade quando siamo noi a sfogliare gli album fotografici di famiglia. Allora i sorrisi delle persone raffigurate ci allontanano. Osserviamo il nostro passato e lo valutiamo molto più esteso di quanto forse non sia. Gli estranei sembrano eterni e noi stessi o le persone a noi care subiscono un’accelerazione del tempo e rendono insostenibile l’osservazione di quel che siamo stati. Petrowskaja ci mostra un’altra possibilità. Il tempo e lo spazio misurano; non allontanano né avvicinano. Non alleggeriscono l’esperienza della vita. Semplicemente ci fanno capire che essa è condivisa, e per questo la malinconia delle immagini più tollerabile.




In copertina:
Fotogramma tratto da In the Mirror of Maya Deren di Martina Kudláček

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