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#Gli ironici | Il secondo libro



Ironici è una rubrica che si pone due obiettivi: chiedersi quali siano le possibili forme del comico e costruire una collana virtuale di testi ironici. Tutto questo combinando una recensione, un’intervista e una breve lista di consigli per gli acquisti. Per provare insieme a dare maggior voce al comico e trovare una risposta alla fatidica domanda: mi consiglia qualcosa che mi faccia divertire? 
Questa è l’ultima puntata, per ora.

«Le uniche regole che la commedia può tollerare sono quelle del gusto.
Le sue uniche limitazioni quelle della diffamazione.»
James Thurber

Ironici è stato un regalo incredibile. Ritrovarsi a dialogare con autori e autrici, non soltanto con chi è apparso su queste pagine, ma anche con i lettori che mi hanno consigliato altri titoli, con gli editori che hanno mostrato un vivo interesse per queste riflessioni: qualcosa di incredibile, grazie. Le posizioni sono state tante e diverse, raramente un autore ha confermato ciò che avevano espresso gli altri, ogni testo ha acceso una sfumatura differente illuminando il grande punto interrogativo attorno al comico: è possibile rinchiuderlo in una definizione? La citazione in esergo di Thurber è interessante perché parla di regole, di limiti del comico e si collega all’idea licenziosa del carnevale dove tutto è concesso negli stessi limiti etimologici ed esistenziali del carnevale. Però scrive anche diffamazione che è ciò che ho immaginato dopo aver letto le risposte dell’ultimo intervistato: Massimiliano Governi, autore de Il secondo libro edito da E/O. Diffamazione, poi leggerete meglio il perché, in quanto il comico che ho intercettato è di natura maledetta: un comico, probabilmente, involontario. Nella volontà dell’autore non c’era questa intenzione, o meglio non era predominante o fondamentale. Però procediamo con ordine.

Non per difendermi, ognuno legge nei libri ciò che vuole, ma già la quarta di copertina offre una frase del tipo: «Il secondo libro è un sorprendente racconto autobiografico, la testimonianza comica, struggente e appassionata […]». L’espressione «testimonianza comica» non risente dell’accostamento con «struggente e appassionata» in quanto la commedia, lontana dal dover sempre far ridere, bene si sposa con momenti più intensi, anche tragici. Che ci abbia visto del comico non mi pare così azzardato, dunque. Anzi, come abbiamo già detto spesso, il comico ha proprio bisogno di qualche elemento tragico: è una postura, un tono che si evidenzia soprattutto quando la realtà appare terribile eppure la narrazione procede su altre frequenze, sposta leggermente l’attenzione, riduce al paradosso, all’esasperazione, all’incredulità. Qualcosa che Woody Allen, Nanni Moretti e David Foster Wallace – non proprio tre allegroni – hanno fatto bene, benissimo. Li ritroveremo. Verrebbe solo da domandarsi: ma se l’autore non credeva di aver fatto commedia, almeno in parte, perché l’editore ha inserito una roba del genere in quarta di copertina? È un dubbio che lasceremo ai posteri, ci interessa fino a un certo punto. 

La storia è autobiografica e racconta l’epopea tragicomica, a me viene da dire, di un autore alle prese con il blocco dello scrittore, l’anticipo Einaudi in tasca e una certa insofferenza all’esistenza. Non sono d’accordo con Marco Cantoni, uno dei più diretti e attenti lettori dell’online, quando scrive che questo è «precisamente ciò che non serve» alla letteratura italiana contemporanea. Probabilmente è servita all’autore e al lettore che viene accompagnato in un’esistenza nevrotica, assurda, intellettualoide, radical chic come scrive Cantoni, lasciando qualche risata a bocca larga, qualcuna a denti stretti e non pochi segni di stanchezza. Cosa serve alla letteratura non ne ho idea, ma riprendendo Lettere a Nessuno di Moresco, citato sempre da Cantoni, ci si accorge dell’esistenza di una scrittura comica e vitale anche nel racconto più disperato. Vitale, come se la risata appartenesse a qualcosa che ha molto tanto a che vedere con la vita e molto poco con la morte. Per cui anche il racconto delle disgrazie di Governi fa ridere: è la disgrazia altrui che permette la risata, non di certo la propria. Per quanto l’autore si sforzi di raccontare una storia vera, è questo il caso, noi leggiamo delle pagine e ci sarà sempre un leggero filtro di irrealtà: questa cosa per quanto vera, una volta chiusa l’ultima pagina, finisce ed è possibile riderne. 

il secondo libro

Governi racconta l’impasse di un autore che dopo l’esordio, e aver convinto una grande casa editrice a puntare su di lui per un secondo libro, si blocca: un PC pieno di file vuoti dai nomi alquanto infantili e pornografici (merda.doc, troia.doc, piscio.doc, fregna.doc etc.), fuori una Roma molto anni ’90, un padre dirigente RAI, una televisione fatta di programmi in seconda serata e di canali locali, una fidanzata con cui litigare e un amico ossessionato dai libri, da John Fante e dal successo. Tutti gli elementi per una commedia tragicomica. Ma qualcosa a metà, più o meno, si spezza e l’impressione d’aver ritrovato una comicità involontaria diventa forte. È un difetto? Un errore? Direi di no, nessun autore più controllare le emozioni di tutti i lettori. Wilder, regista e sceneggiatore tra gli altri di A qualcuno piace caldo, diceva sempre di non classificare mai un film dopo averlo realizzato: si presentava all’anteprima e se il pubblico rideva molto diceva di aver lavorato a una commedia, altrimenti a un noir serio e impegnato.  

Di elementi comici ve ne sono molti, fin da subito: dagli scherzi telefonici a pagina 1, dove i poveri parenti di Fante devono sorbirsi le telefonate del protagonista e del suo amico Giovanni. Una scena dal sapore fantozziano, così come il salto dal balcone ricorda quello del ragioniere che prova a prendere, letteralmente al volo, il pullman sotto casa – siamo a pagina 119. L’immaginario cinematografico mi ha influenzato molto durante la lettura e poco importa se certe scene sono successe realmente o se l’autore si è concesso qualche licenza nel suo diario: c’è un momento in cui il protagonista si ritrova allo zoo, gli animali vengono annunciati a gran voce e non ho potuto non pensare a Verdone in Bianco, rosso e verdone dove al posto dei nomi degli animali viene ripetuto spasmodicamente il nome Marisol. In più c’è qualche elemento tipico della narrazione di Nanni Moretti: le scene davanti alla tv, i ritagli di giornale che ricordano Aprile, l’ordine e l’elenco ossessivo. Elencare, come a pagina 68, fa incredibilmente ridere. La ripetizione estrema, quando lunga ed eccessiva, qui sono quasi due pagine, non può che suscitare una risata. Incubi, pensieri e ossessioni del protagonista vengono ripetuti: così come si ripetono alcune scene al telefono, con gli identici inizi e le medesime frasi di congedo che ricordano ancora Moretti in Ecce Bombo. Lo strumento della telefonata, qui insieme alle lettere e al nostalgico videotel, sono un modo per evidenziare la problematicità della comunicazione, ma la realizzazione delle scene spinge verso il comico. È l’esasperazione delle nevrosi che fa ridere: Woody Allen non è un ipocondriaco, ma una sorta di farmacia ambulante come scrive Cirillo sulle pagine del Tascabile. Le ha tutte lui, non c’è moderazione, si è così estremi che certe risposte sono inaspettate, spiazzanti, assurde: scatta la risata come nelle pagine in cui, preoccupato dalla presenza della biografia di Lennon e terrorizzato da non si sa quale pericolo, il protagonista/autore decide di nascondere il libro in un armadio, sotto alcuni vestiti. E lo fa con una serietà eccessiva. Crede davvero che quel libro possa fargli del male in qualche modo. Ecco: l’autore/protagonista ci crede e ne soffre, il lettore fa fatica a comprenderne la realtà, assapora invece l’assurdo e quindi ride. Forse proprio perché l’altro fa sul serio.

Allen e Moretti, quindi una comicità che viene definita d’autore. Molti protagonisti di entrambi i registi sono altrettanti registi o scrittori, insomma artisti: in questo romanzo c’è un certo catastrofismo da letterati come quando, a pagina 15, il protagonista fa visita al suo migliore amico e sentenzia «solo lui sta peggio di me» perché non solo non riesce a scrivere, ma non ha neanche l’anticipo dell’editore. Questo ci riporta a un romanzo, uscito poco dopo questo di Governi, ossia Niente di vero di Veronica Raimo. Lì il confine tra autobiografia e fiction è più vago, l’autrice concede il beneficio del dubbio, ma al di là di questo c’è una comunione di tematiche, atmosfere, un atteggiamento molto simile. Quando Governi parla di cinema mentale, riferendosi alle visioni che il protagonista costruisce, mi è tornato in mente Cinematografo cerebrale di De Amicis. L’autore del libro Cuore si cimenta in una depressa, comica, assurda narrazione della mente depravata e depravante di un uomo, chiamato il Cavaliere, fino al quel momento perfettamente sano. Il tutto narrato con una tremenda serietà che non fa altro che accentuare l’effetto comico: ciò che alle volte in scena può funzionare mediante ammiccamenti nella scrittura non ha lo stesso effetto. Al contrario è il conflitto, l’incoerenza, l’incongruenza tra contenuto e forma, tra stile e avvenimenti a generare la risata. Nelle pagine de Il secondo libro contribuiscono anche i tre personaggi secondari: I. la fidanzata, Giovanni il miglior amico e Ivelise la dirimpettaia sempre china sui libri. Giovanni è un personaggio – al di là della persona che rappresenta – indubbiamente divertente: è convinto di essere stato partorito dalla viscere solo perché nato tramite cesareo, un racconta frottole cronico e un maniaco sessuale che ha trovato la strategia perfetta per palpare sederi senza beccarsi una denuncia. I., invece, sembra raccontarci proprio della mancanza di ironia nella coppia: e non è ironico che il suo nome inizi per I.? Inoltre troviamo in alcune pagine un chiaro riferimento alla risata che non c’è: come quando il protagonista prova a farla ridere «ma lei non ha riso», come quando la fidanzata gli rinfaccia «scherza, scherza» perché tanto lui non ha problemi e quando, verso la fine del romanzo, si parla della sindrome di Moebius. Il volto del protagonista che pareva paralizzato semplicemente perché non rideva mai. Ivelise invece resta lì, a mandargli lettere alle quali non risponde più, recuperando aneddoti assurdi e parmigiane di melanzane da consumare ancora calde.

È pur vero, leggendo con attenzione questo testo – o meglio rileggendolo, come nel mio caso, dopo che l’autore mi aveva confessato i suoi diversi intenti –, un certo incupirsi della storia. Un progressivo straniarsi. A pagina 122 l’autore scrive che aumentano le «cose strane»: è la terza volta che ritroviamo l’espressione «cosa/e strana/e», ma da quel punto in poi è palese che qualcosa sia davvero strano. Il protagonista «è man mano più irritabile» e si avverte il disagio, una pena che si diffonde nelle pagine finali. Si smette di ridere. Perché la sofferenza non fa ridere, ma il suo racconto alle volte sì. Allora se Governi non ride di questo testo e io, piccolo lettore, sì probabilmente c’è una spiegazione: come diceva Bergson il comico non esiste senza gli uomini e spesso, dovremmo provare ad aggiungere, questi uomini devono essere gli altri. Meglio se sono gli altri. Nelle risposte dell’autore potreste effettivamente trovare alcune conferme.

Permettetemi, prima di chiudere, una breve considerazione alla fine di questo viaggio. Non che ci fosse speranza, ma riuscire a sintetizzare il comico è impresa impossibile tanto quanto definire l’umano: cambia, si assottiglia, addirittura si ribalta nel tempo. Abbraccia una visione così ampia, uno spettro lungo di atteggiamenti ed emozioni, di cause e di fenomeni che è stupido, in senso tragico, pensare di imbrigliarlo in una definizione. Però vorrei aprire uno spiraglio, suggerire una strada per continuare la speculazione: il ponte tra umorismo e intelligenza, il problem solving che collega la capacità di stare al mondo e l’ironia con il tema dell’incongruenza che va risolta. Qualcosa connette queste due visioni: figlie stimolate dal non sense, dalla sensazione di sollievo e dalla presunzione di superiorità. Ma lasciamo, per l’ultima volta, la parola all’autore.

Massimiliano, si chiude con te questo tentativo di raccontare il comico. Come e perché lo pratichi?
Tu, quindi, se mi fai questa domanda, pensi che io usi la comicità nella mia scrittura? Te lo chiedo perché io non penso che ciò che scrivo nei miei romanzi sia comico. I miei personaggi sono degli infelici, dei disadattati, e questa loro condizione non credo faccia ridere, sinceramente. Non penso, come dice Beckett, che «Non c’è niente di più comico dell’infelicità». L’infelicità e l’angoscia di vivere sono cose terribilmente serie e non strappano risate, secondo me. Kafka, anche se Foster Wallace sosteneva il contrario, non fa ridere. Emmanuel Bove non fa ridere. Celine non fa ridere. Tantomeno io faccio ridere. Nel mio romanzetto che citi, Il secondo libro, c’è una scena in cui il protagonista e il suo amico Giovanni, più asociale di lui, stanno cenando con minestra di cipolline e frittatina di asparagi selvatici che fanno schifo a tutt’e due e non si sa perché l’abbiano cucinate (forse per irritarsi l’un l’altro). Poi il protagonista, alla fine del pasto si alza dalla sedia, prende la rincorsa e si butta dalla finestra, solo che Giovanni abita al pianterreno quindi si sloga soltanto una caviglia. Ecco, io non ho scritto questa scena per creare un effetto comico, ma perché è successa davvero. Come sono successe tutte le cose descritte in quel romanzo (che è una specie di diario), che io non vedo come comiche ma penose.

Una prospettiva interessante. Il comico ha tante forme, ce n’è una che preferisci?
In realtà non mi fa ridere niente a me. E nessuno. Neanche nella vita di tutti i giorni c’è qualcuno, amico o estraneo, che mi diverta. Io stesso non credo di essere divertente, parlo piano come un indio e non si capisce quello che dico. Forse Cesare Pavese mi avrebbe fatto ridere se l’avessi conosciuto, non so perché, è una mia stramba convinzione. Ah, una cosa che mi fa ridere in letteratura c’è in effetti, e sono i diari di Tolstoj. Certo, non li ho letti tutti, sono 90 volumi. Ma quello che ho letto mi è sembrato davvero spassoso. Mi ha fatto ridere il fatto che quasi ogni sera insultava pesantemente Turgenev sui suoi taccuini segreti e poi prima di partire per Ginevra, nel momento di salutarlo, iniziava a piangere come un bambino davanti al suo amico scrittore. Ho poi trovato quasi comica la sua ossessione matrimoniale, a trent’anni voleva sposarle tutte, il vecchio Lev. Ho sogghignato come uno scemo quando annota sul suo diario che ha visto una coppia di suini giapponesi, e sente che per lui non ci potrà essere felicità nella vita finché non avrà importato questi maiali. Non lo dice in modo autoironico, lui ci crede davvero. Oltre a Tolstoj, ora che mi viene in mente, mi facevano ridere pure Fruttero e Lucentini, non i libri, ma il programma che conducevano. Si intitolava L’arte di non leggere, andava in onda ventisette o ventotto anni fa. Ricordo che non trovavano mai, nelle pile dei libri, il romanzo del giorno di cui dovevano parlare. Sarò malato, ma questa cosa mi divertiva e mi allietava la serata. Forse, l’unica forma di comicità che un po’ mi piace è quella involontaria. Questo per rispondere alla tua domanda.

Una comicità involontaria come quella di questa intervista. Continuiamo così e facciamoci del male. Per chiudere chiedo anche a te: e se ti svegliassi curatore di una collana umoristica, quale titolo le daresti?
Non saprei, ma pensandoci, dopo tutto quello che ho detto sull’arte della comicità, forse la chiamerei Far ridere i polli.

Ringrazio gli intervistati e la redazione di Limina per aver lasciato spazio a questa piccola indagine: spero che attraverso i libri e le parole degli autori ci si possa formare una propria personale  declinazione di ciò che comunemente chiamiamo commedia. Gli ultimi consigli di lettura sono a cura di Massimiliano Governi che ce ne suggerisce tre, ma dello stesso autore. Negli #Ironici, oltre ai 6 romanzi recensiti, trovate 18 consigli degli autori e circa 42 miei, dispersi nelle varie recensioni. Una settantina di titoli, nel complesso. Un bel po’ di libri per stare comodi e comici a lungo. Grazie e buon proseguimento.

  • Marco Papa è uno scrittore che ha smesso di pubblicare nel 1990 ed è sparito dalla circolazione. Ebbene, per me lui è tra i più grandi scrittori del Novecento italiano. Consiglio il suo esordio, Le Birre sonnambule, il suo secondo, La Guerra, e l’ultimo, Le Nozze. Sono racconti circolari, ipnotici, ossessivi, disturbanti, teneri, folli. C’è stato un periodo in cui mi capitava di citare spesso un suo racconto tra i suoi più belli e assurdi, dove un giovane, chiamato alle armi per lo scoppio improvviso di una guerra, prende l’autobus e si reca in caserma, e la caserma coincide con l’appartamento di un vecchio. Sulla targhetta del citofono c’è scritto: Caserma – interno 3. Questo Caserma – interno 3 io lo ripetevo sempre ai miei amici ogni volta che mi ritrovavo a vivere o anche solo a immaginare una situazione paradossale. Ciao Marco, ovunque tu sia.

PS Di Marco Papa potete leggere qualcosa anche nel romanzo Il secondo libro. Governi, sempre tenendo fede alla realtà dei fatti, racconta d’averlo incontrato o meglio intravisto. 

PSS Da parte mia vi saluto ancora con una frase trovata per caso in una via di Bologna: se da qui a cent’anni l’uomo ridesse ancora, nonostante tutto, a me farebbe piacere. Sarei felice pure io, ciao.



Illustrazione di Federico Arrigoni (@fededoodles)

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