Search
Close this search box.

Il lascito del contemporaneo. Una conversazione sulla rivista Manaròt



Manaròt, in dialetto trentino, significa scure, ascia. È il nome di una nuova rivista letteraria di carta. Rivista di letteratura atesina (quindi scrittori e scrittrici che, in un qualche modo, hanno a che fare con le terre bagnate dall’Adige, perché ci sono nati o vissuti). Il primo numero è uscito poco fa, a gennaio, e s’intitola Nachlass
Questa è un’intervista ai due curatori: Davide Gritti (nato nel 1994 a Bergamo) e Nicolò Tabarelli (nato nel 1995 a Milano); si sono conosciuti all’università, a Trento. L’appuntamento è in un appartamento a Milano Nord. Ci vado a piedi. Ora – mentre mi immaginate camminare sotto una pioggia sottile – vi butto tutte le carte sul tavolo, niente infingimenti: Davide e Nicolò sono miei amici. Inoltre, sono parte della redazione di CTRL, di cui io faccio il direttore da qualche anno. Tutto questo va messo agli atti, segnatevelo, che non mi va di fregare nessuno. Allo stesso tempo, però, non avevo nessuna voglia di compilare un pezzo promozionale o – peggio – retropromozionale. Non avevo nessuna voglia di concentrarmi sul coraggio di fare una rivista cartacea, e poi oggi, in tempo di pandemia, e blabla, e su quanto sono belli i sette racconti del primo numero, e blabla, e quanto è curata la grafica, e blabla. Ho pensato che il modo migliore per disinnescare questo ordigno di noia e furbetteria fosse quello di indossare i panni dell’intervistatore scomodo. Per cui, appena entrato nell’appartamento, dopo essermi sfilato il cappotto e la mascherina, ho attaccato il registratore e sono partito con una domanda biforcuta. Questa: 

Nella mia esperienza, ho capito che i più grossi problemi per una rivista indipendente ruotano principalmente intorno a due cose: i soldi e l’ego. 
(Nicolò stava facendo il caffè; Davide invece era sopra al tavolo, dentro lo schermo, connesso da Trento via Zoom).
Dunque, partendo dal problema più semplice: come fate con i soldi? Come si sostiene Manaròt? 

Nicolò: Inizio io? 
Davide: Sì. Io intanto penso alla risposta sull’ego. 
Nicolò: Ok. La verità è che noi siamo partiti chiedendoci proprio «Come facciamo con i soldi?». Abbiamo valutato diversi modelli, poi abbiamo capito che l’unico modo era quello di autofinanziarci completamente. Tutto con una stringente logica di economia circolare: abbiamo scritto un reportage narrativo a quattro mani per I dimezzati di CTRL, siamo stati pagati [200€ lordi, nota dell’intervistatore]; poi ci ha contattato il festival Osvaldo di Rovereto, abbiamo scritto un reportage anche per loro, sempre pagati; lo stesso è accaduto con un pezzo per Istmo, in uscita a breve. A quel punto avevamo nelle tasche comuni un piccolo gruzzoletto. Che ci doveva servire per due cose: uno, produrre la rivista in sé; due, metterci in regola con la burocrazia. Naturalmente non bastavano, così abbiamo dovuto aggiungere un po’ di fondi nostri, per l’iscrizione all’albo dei giornalisti, la registrazione in tribunale, e tutte le piccole altre cose rognose. 
Davide: Tutto era in discussione all’inizio, tranne una sola regola aurea; il patto di ferro tra me e Nicolò era questo: Manaròt dev’essere sostenibile. Abbiamo stampato cento copie: se non riusciamo a venderle, se non c’è interesse, se non c’è margine, non terremo in piedi la rivista artificialmente facendo aumenti di capitale, per così dire. Se va bene si va avanti, se non va bene si torna a casa. 

Manaròt

Ora la parte più difficile: l’ego. Partendo da voi: siete due curatori, 50 e 50. Come fate in caso di disaccordo? 

Nicolò [che anticipa Davide che in questo modo guadagna ulteriore tempo per pensarci]: Dal mio punto di vista, una cosa che ci aiuta molto è questa: se c’è un disaccordo forte, di solito la conclusione è «Non abbiamo abbastanza elementi per decidere». 

E quindi? (incalzo io, infame, mentre finisco il caffè)

Nicolò: Aspettiamo di avere più elementi, e prima o poi l’accordo sorgerà. Finora è andata bene così. Ha funzionato. C’è da dire che io e Davide abbiamo inclinazioni simili, abbiamo un’idea molto collettiva del lavoro. Quello che conta è Manaròt, non io, non Davide, non il singolo scrittore. 
Davide: Nel frattempo mi sono preparato una metafora. Quando fai partire un progetto culturale, ma soprattutto editoriale… Insomma, quando stampi una cosa e la mandi in giro, dopo poco, pochissimo, ti rendi conto che hai fatto partire un treno. Quindi puoi controllare un numero molto limitato di comandi. I binari sono quelli. Certo, ci saranno degli scambi a un certo punto, decisivi. Però non è come guidare un’automobile. E sui treni non c’è mai un solo guidatore, sono sempre in due, perché se si addormenta uno l’altro è vigile. 

Non penserai di cavartela così, vero? Penso io, mentre Davide subito riattacca. 

Davide: Poi ci sono gli scrittori. A loro volta sono persone con un ego, a volte anche molto forte. Hanno una loro idea di letteratura, com’è giusto che sia, e tu gli stai proponendo di scrivere su una rivista, che ha una sua idea, una sua visione. Bisogna capire se si sta giocando allo stesso gioco. Io ho sempre trovato curioso che il mondo culturale sia un mondo basato sulla parola, ma i cui attori principali passano il loro tempo – sostanzialmente – a cercare di fuggire dalle discussioni con gli altri. 

Manaròt

Colgo la palla al balzo. Tiro fuori dalla tasca dei jeans il mio foglietto spiegazzato. Dopo «soldi» e «ego», mi sono appuntato: «effetto Sanremo e/o Zecchino d’Oro». Altra domanda. 
Un altro rischio di una rivista letteraria è quella di impilare un racconto dopo l’altro, una canzone dopo l’altra, con i diversi interpreti che fanno a gara per far vedere quanto sono bravi. Lo chiamo “effetto Sanremo”, il cui stadio terminale è rappresentato dall’“effetto Zecchino d’Oro”. Nel primo numero di Manaròt – e qui sono molto sincero – questa cosa non accade, si percepisce un percorso, una certa forza gravitazionale che armonizza tutte le spinte centrifughe. Quindi: com’è accaduto? Come l’avete fatto accadere? 

Nicolò: È una cosa a cui teniamo molto. C’era questa intenzione in effetti, volevamo creare un sottile filo conduttore, un basso continuo, tra tutti i pezzi. A dire il vero, però, c’è stata anche una buona dose di improvvisazione. Scegliere di avere un’impostazione fortemente locale, di richiamarci a un’area geografica molto specifica (il Trentino Alto-Adige/Südtirol), ci ha sicuramente aiutati. Anche le scelte grafiche sono andate in quella direzione. Ma il punto fondamentale, io credo, è stato il costante e multiforme confronto preliminare: chiacchiere, telefonate, una chat di WhatsApp dove ci consigliavamo libri, spunti, notizie, faccende più pratiche. Insomma, siamo restati in costante contatto, io, Davide, i grafici, gli autori. In fondo, uno degli scopi originari di Manaròt, oltre a portare una voce nuova nella scena letteraria italiana, era anche quello di trovare delle persone con cui confrontarci. 
Davide: Posso usare un’altra metafora? 

Ok, Davide è in vena di metafore.
Ok. 

Davide: I caper movie. Quelli come Ocean’s Eleven, Ocean’s Twelve, eccetera. Sono narrazioni cinematografiche con uno schema fisso. Si comincia sempre con un tizio che decide di mettere in piedi un’enorme azione criminale, tendenzialmente una rapina, e poi si rende conto che da solo non ce la può fare: ha bisogno di tutta una serie di competenze che non si trovano quasi mai in un singolo. Quindi tira su la squadra. L’obiettivo comune è impostato dal capo-ladro: rubare il diamante più bello di Las Vegas. Ha i suoi motivi che lo spingono al furto… che ne so, un grosso debito con un signore della malavita. Ogni compagno di furto, però, ha delle motivazioni diverse per partecipare all’impresa. Il bello è che la cosa funziona: tutti hanno spinte diverse, l’obiettivo resta quel diamante. Io e Nicolò, come capi-ladro, abbiamo deciso l’obiettivo. Abbiamo cercato di raccontarlo agli altri. E di tenere viva quella spinta iniziale. E – chiudo il cerchio – io credo che questo ci abbia aiutato a contrastare l’ego, gli ego, e l’“effetto Sanremo”… tutto in un colpo solo. 
Nicolò: Scusate, riapro un attimo il cerchio. Il rischio dell’“effetto Sanremo” l’abbiamo sentito anche quando abbiamo scelto di aggiungere l’inserto fotografico. Non volevamo che facesse la parte dell’ospite internazionale che non c’entra nulla ma viene invitato per far salire gli ascolti. 

Manaròt

Qual è la storia dietro quelle fotografie? 

Davide: Sono foto di Trento nel 1921. La città era già italiana da un po’ di anni. C’erano già state delle visite da parte del re, della regina, del principe, dell’entourage, ma una visita ufficiale con tutto il carrozzone non ancora. E avvenne, appunto, nel 1921. Un architetto che veniva da fuori fu incaricato di allestire delle installazioni luminose su diversi edifici della città. Una cosa che suonava molto moderna. Siamo incappati in questa serie fotografica della Fondazione Museo Storico Trentino; quelle immagini hanno qualcosa quasi di messianico, almeno questa è stata la nostra prima forte impressione. Soprattutto – abbiamo notato, mostrandole in giro – i trentini le vedono e non si riconoscono, non riconoscono che quella è la loro città. 

Quelle foto – mi spiega Nicolò – sono poi state trattate con un processo di creative coding. Si tratta, in breve, di creare un algoritmo, uno script, dei comandi, di darli in pasto al programma che si incarica indipendentemente di rielaborare le immagini, senza un successivo intervento umano. 
Coup de théâtre. Suonano al campanello. 
È il grafico. Sta portando le ultime copie di Nachlass che si erano attardate in stamperia. Una domanda pure per lui. 

Chi sei? 

Andrea: Andrea Sabetta. E faccio parte del collettivo Fragile. 

E quando è nato il collettivo? E come avete iniziato a collaborare con Manaròt? 

Andrea: Siamo nati ufficialmente a marzo, in pieno lockdown, siamo in sette. La prima vera riunione si è svolta d’estate, ed è durata dieci giorni. Ci siamo tappati in una casa di campagna a Mantova, e abbiamo discusso di noi, di cosa volevamo diventare, di cosa volevamo fare, di quali progetti volevamo seguire. L’ultimo giorno ho preso io la parola, per raccontare il progetto Manaròt, di cui mi aveva parlato Davide: io e lui siamo amici dal liceo. Il collettivo mi ha ascoltato e ha detto ok, ci stiamo. Per cui: il vero grafico di Manaròt è il collettivo Fragile. Io sono nel mezzo, faccio da interprete. Ogni tanto mi prendo bastonate sia a destra che a sinistra. Ma, finora, è stato bello. 

Ultima domanda per Davide e Nicolò: questo primo numero di Manaròt si chiama Nachlass, “lascito” in tedesco. Perché? 

Davide: Sicuramente c’era il fatto di far nascere la rivista consapevoli che rischiava di morire in fretta. Come dicevamo prima, non sapevamo se l’operazione fosse sostenibile; da pochi giorni sappiamo che sì, è sostenibile, e possiamo fare un secondo numero. E poi c’è stato un altro elemento. Un’esca per gli autori. Li abbiamo contattati dicendo: per scrivere il vostro racconto, pensate a un lascito; a qualcosa che se moriste domani, noi siamo riusciti a portarvi via, pubblicandolo. 
Nicolò: Posso dire una cosa sulla trap? Io, Davide e Andrea [che annuisce] abbiamo una comune passione per la trap.
Davide: È il nostro guilty pleasure comune.
Nicolò: Non voglio dilungarmi, però credo che l’elemento più significativo che la trap ha portato in Italia è uno: l’attitudine. L’attitudine del «Va bene, a me non me ne frega un cazzo di quello che è successo prima, faccio le cose a modo mio e te le presento: se ti piacciono bene, se non ti piacciono va bene lo stesso». 
Davide: Attitudine che non è mai stata la mia; in tanti altri ambiti mi ritengo un timorato di dio. Ma su Manaròt sono stato trap. 
Nicolò: Quell’attitudine è l’antitesi dell’atteggiamento che, di base, si ha quando si pensa alla letteratura. Ci si sente schiacciati da tutti quelli che hanno scritto prima, da tutto quello che c’è stato e di cui tu non sarai mai all’altezza. Insomma, questa comune passione per la trap, forse, ci ha dato la spinta. Un po’ di coraggio. 
Davide: E forse c’entra di nuovo con l’ego. Quell’attitudine, per paradosso, arriva a smontarlo, a spaccarlo, perché ci gioca in maniera iperbolica. 
Nicolò: Tutto questo per dire che, a un certo punto, io e Davide ci siamo guardati e abbiamo ammesso a noi stessi che volevamo portare avanti un lavoro creativo nuovo, che avesse qualcosa da dire, e che parlasse della contemporaneità. 

Ultimissima domanda: avete capito qualcosa di nuovo sul Trentino Alto-Adige/Südtirol costruendo questo primo numero della rivista? 

Nicolò: Non so. Ma uno degli autori dei racconti, Riccardo Micheloni, l’altro giorno mi ha scritto: «Mah, ho passato tutti gli anni del liceo e dell’università a dirmi che volevo andare a vivere a Parigi, perché pensavo si potesse scrivere solo a Parigi… Quanto materiale narrativo mi sono perso qui, in Valsugana!».

In Nachlass, il primo numero di Manaròt, ci sono racconti di Daria de Pascale, Maddalena Fingerle (Premio Calvino 2020), Davide Gritti, Riccardo Micheloni, Alessandro Monaci, Flavio Pintarelli, Nicolò Tabarelli. La rivista è distribuita in alcune librerie indipendenti in Italia e una a Berlino (qui l’elenco).
Al momento è esaurita. Ma i due intervistati hanno già annunciato una futura ristampa, e l’inizio dei lavori sul secondo numero. 

categorie
menu