Comma 22

Il business della civiltà. Siete tutti perdonati di Enrico Dal Buono



La letteratura del belpaese non ha, storicamente, fatto perno su forze gravitazionali e orbite che circondano una “città”: intendiamo riferirci ai racconti di tutti gli occhiolini, dei sogni ad occhi aperti o di conquista, delle ritrosie, degli avvicinamenti, degli assalti – condotti con tale ingenuità da essere puniti, in talune circostanze, con la morte, addirittura – al cuore di centri urbani che altrove, esempio proverbiale è la Francia, sono stati spina dorsale di molta narrativa ottocentesca. Un gruppo in cui troviamo uniti in generi e stili diversissimi anche Flaubert, Proust, e che personaggi! Cinici impiegati di provincia che intortano quasi tutti in meticolosi assalti al beau monde; dilapidatrici di patrimoni che muoiono nell’inaccettabile consapevolezza di non gestire con naturalezza posture da “vere signore” che Pierre Bourdieu ci spiegherà, un secolo dopo, essere marchingegni di protezione di gruppi sociali.
Enrico Dal Buono, con il suo recente Siete tutti perdonati (La nave di Teseo), s’incunea tuttavia in questa tradizione: scrive, dritto come la traiettoria di un siluro, un romanzo sulla faticosa e incompleta affermazione di un ambizioso outsider, enormemente vorace e (segretamente) sentimentale. Le lancette hanno fatto diversi giri dai romanzi di cui si diceva, quindi questo libro parla di soldi, di estro imprenditoriale, della capacità di editarsi e darsi in pasto.

Dal Buono

Per scriverlo, però, Dal Buono deve prima inventarsela quella città, e ci riesce facendo ricorso alla materia prima più agilmente raggiungibile: tutti quei frammenti di storytelling che si emanano da Milano, con crescente densità, dalla fine degli anni Settanta fino – diciamo – al trionfale Expo di qualche anno fa. È una mappa sintetica, i marcatori culturali si accavallano e – per comodità – si schiacciano in chiave stilizzata: sembrano stagliarsi sullo sfondo hipster, borghesia di sinistra irreggimentata al più severo minimalismo espressivo, startappari in qualche modo e post-bauscia abbronzati nel lieto e innaturale consesso che unisce anche il leone e l’agnello nelle illustrazioni de La Torre di Guardia.
Ed è, va da sé, una Milano cinica, quasi infernale. La città compatta e impiegatizia si trasforma – come sempre più spesso accade anche nella serialità – in un grand guignol sulfureo e gradasso; in una Los Angeles di Ellroy, in una New York di Ellis: il protagonista, per dire, si paga da vivere con la trovata di un’agenzia di clochard influencer. I senzatetto sono imperiosamente invitati a impersonare dolori facilmente decodificabili, crolli a forma di hashtag, per muovere a compassione abitanti-tipo di quartieri del centro con diversi profili culturali e socio-demografici: cedere un obolo al questuante rinforzerà i liberal nella convinzione di sedere tra i vincitori, di impugnare saldamente il destino nelle proprie mani. L’agenzia, poi, tratterrà una percentuale degli incassi parzialmente reinvestita per accrescere la popolarità del team di elemosinanti (i “Beautiful Losers”) e, coronamento grottesco, organizzare un evento molto mondano – “The New Next” – in cui è premiato in pompa magna il giovane più caritatevole dell’anno («Criterio: la quantità di post che lo immortalano nell’elemosina ai Beautiful Loser. Premio: una settimana da barbone»).

E già qui in molti avranno storto il naso: la città che si è più di altre identificata con i compiti di nicchia nei servizi avanzati per il terziario (bullshit jobs li avrebbe chiamati il mai troppo compianto antropologo statunitense David Graeber) si trova ulteriormente gravata. Vaglielo a spiegare che quella retorica fa parte degli attrezzi del mestiere che imbarazza anche il giovane account; vaglielo a spiegare che non c’è nemmeno uno sciocco che pensa che – al di là di succursali periferiche di società internazionali – ci si possa guadagnare un’autonomia stabile con le fiabe magnifiche e progressive; vaglielo a spiegare che dopo dieci ore di smartness bigia e malpagata, davanti ai Negroni sbagliati, ci si dispera un giorno sì e uno no. Però qui la costruzione di uno sfondo caricaturale da cartone animato è strumentale al dispiegamento di un teorema, in fondo, amaro: l’arrivismo tattico del protagonista vale poco o niente. L’intento è vittoriano: calcando i tratti dei prototipi, s’intendono sottolineare le crepe morali, ma anche l’inappagante dispendio di energie della messa in scena e quindi delle ideologie che fanno da motore silenzioso ed implicito. Il risultato della partita è già scritto, i vincitori sono pochi e non hanno bisogno di dimostrarsi tali, se ne fregano di riconoscimenti e simboli; di like e premi.

In Siete tutti perdonati si può essere estromessi dalle cordiali promesse di accoglienza di una famiglia neo-acquisita a causa di scatti d’impulsività e gaffe di etichetta, i portafogli possono essere colmi da talmente tanto tempo da guidare i proprietari verso scimmiottamenti para-rivoluzionari, dimenticanze o cancellazioni abiette di sé, giusto per provare l’effetto che fa. In sottofondo si delinea – parallelamente allo scorrere della vicenda – una storia d’amore impossibile di un’altra era: un Romeo e Giulietta preistorico che riflette i fatti del presente e mette in luce, ancora più che nel corpo centrale del romanzo, uno stile di scrittura acrobatico e ricco d’invenzioni.