Comma 22

Il mistero di Gurdjieff, l’essenza oltre la personalità



Quando la casa editrice Castelvecchi mi ha proposto di introdurre Il Nunzio del bene venturo. Primo appello all’umanità di Georges Gurdjieff ho accettato con entusiasmo ma anche con tremore. Si trattava del testo, probabilmente, più enigmatico di uno dei maestri più affascinanti e controversi del Novecento.
Unico testo pubblicato in vita, e subito ritirato dal mercato, dal «maestro di danze armeno», come amava definirsi, dal tono insieme oracolare e prescrittivo, al contempo profetico e quasi didattico, Il Nunzio del bene venturo mi poneva davanti a un bivio paradossale (frequente per chi affronta figure carismatiche in ambito esoterico): chi già conosceva l’opera di Gurdjieff non avrebbe avuto bisogno di alcuna introduzione, chi non la conosceva avrebbe avuto bisogno di un volume a parte per scoprirne e approfondirne la ricchezza, non certo di poche pagine (se dovessi indicare un solo libro in grado di assolvere a questo arduo compito, non avrei dubbi: L’insegnamento di G.I. Gurdjieff e le sue origini di Alessandro Boella e Antonella Galli per Edizioni Tlon).

Chi mi conosce ha contezza della mia rapida disinvoltura nella stesura di testi di carattere saggistico o critico; questo è stato, forse, l’unico caso in cui mi sono trovato a riscrivere completamente  un’introduzione, sottoponendola più volte al vaglio di amici ed esperti.
Spero che il risultato non sia troppo indegno (ne trovate un estratto qui).
Qual è la difficoltà peculiare che ho incontrato? L’oscurità del testo? Il dover conciliare il carattere divulgativo della pubblicazione con il rigore di un testo iniziatico? Il dover affrontare questa stessa contraddizione presente nella pubblicazione originale, non a caso interrotta dallo stesso autore?L’ostacolo, in realtà, era molto più profondo e radicale. Ovvero, l’introdurre la personalità di colui che ha insegnato la vanità illusoria del concetto di personalità, consapevole che i limiti del linguaggio non possono accostarsi all’essenza.
Mi riferisco, chiaramente, alla distinzione gurdjieffiana riportata da Ouspensky in uno dei passi più celebri di Frammenti di un insegnamento sconosciuto:

«L’uomo è costituito da due parti: essenza e personalità.
L’essenza è ciò che è suo. La personalità è “ciò che non è suo”.

“Ciò che non è suo” significa: ciò che gli è venuto dall’esterno, quello che ha appreso, quello che riflette; tutte le tracce di impressioni esteriori rimaste nella memoria e nelle sensazioni, tutte le parole e tutti i movimenti che gli sono stati insegnati, tutti i sentimenti creati dall’imitazione, tutto questo è “ciò che non è suo”, tutto questo è la personalità.

Dal punto di vista della psicologia ordinaria, la divisione dell’uomo in personalità ed essenza è difficilmente comprensibile. Sarebbe più esatto dire che questa divisione, in psicologia, non esiste del tutto.

Il bambino non ha ancora personalità. Egli è ciò che è realmente. Egli è essenza. I suoi desideri, i suoi gusti, ciò che gli piace, che non gli piace, esprimono il suo essere così com’è.

Ma allorché interviene ciò che si chiama “educazione”, la personalità comincia a crescere. La personalità si forma in parte sotto l’azione di influenze intenzionali, vale a dire dell’educazione, e in parte per l’imitazione involontaria degli adulti da parte del bambino. Nella formazione della personalità, hanno una parte importante anche la “resistenza” del bambino all’ambiente e i suoi sforzi per dissimulare ciò che è “suo”, ciò che è “reale”.

L’essenza è la verità nell’uomo; la personalità è la menzogna».

Il punto è proprio distinguere tra personalità ed essenza, anche in questo caso, fino ad affrontare la domanda centrale sull’identità del Nostro.
Non a caso John Bennett inizia il suo volume L’enigma Gurdjieff con questa sentenza difficilmente confutabile: «Gurdjieff ha sempre rappresentato un enigma, e sotto più di un aspetto. Il primo, e più evidente, è che non si possono trovare, tra quanti lo hanno conosciuto, due sole persone d’accordo su chi egli fosse e che cosa abbia rappresentato».

La domanda stessa sulla sua reale identità viene posta fin dal titolo del libro dedicatogli da René Zuber, ovvero Monsieur Gurdjieff, ma lei chi è?
Eppure, è l’autore il primo a smentire ogni possibilità di risposta netta e risolutiva al quesito che ha assillato tutti coloro che lo hanno incontrato, in persona o in pensiero: «Ma egli chi era? Sono sicuro che molti di coloro che lo hanno avvicinato, se non tutti, hanno avuto voglia di porgli questa domanda ma il suo prestigio ed il suo potere erano tali che non osavano formularla apertamente».
Anche perché, come riportato nello stesso testo, a chi stava per porre la domanda, la risposta immediata sarebbe stata: «E tu piuttosto, chi sei?»
Forse, la risposta più interessante a questo interrogativo lo fornisce lo stesso autore: «Gurdjieff era tradizionalista? Sarebbe molto più giusto dire che tutto in lui era tradizione: egli era la tradizione».

Proprio lui, l’apparente eretico, il sapiente che amava vestire le vesti del cialtrone, il controverso sprezzatore delle convenzioni sociali, il trickster beffardo e crudele, colui che perseguiva il rigore nella burla e insegnava la compassione nell’ingiuria, era il baluardo incarnato di una antichissima e perenne tradizione spirituale.

Del resto, la domanda sulla propria identità, cruciale in tutti i percorsi spirituali (Chi sono io? è il titolo del volume più noto che racchiude gli insegnamenti del grande erede Advaita Vedanta Ramana Maharshi), viene subito affrontata dallo stesso Gurdjieff all’inizio del prologo di La vita reale, opera incompiuta che avrebbe dovuto dare inizio alla “terza serie” dei suoi insegnamenti:

«“Io sono… Dove è andata a finire quella sezione di me tutto intero, che ero solito provare una volta quando pronunciavo queste parole in stato di “richiamo”?

È forse possibile che questa attitudine interiore acquisita al prezzo di tante rinunce e di mortificazioni di ogni genere, oggi che la sua azione sul mio essere sarebbe più indispensabile dell’aria che respiro, sia sparita senza lasciare traccia? No, questo non è possibile.

C’è sicuramente dell’altro… oppure tutto, nel mondo della Ragione, è privo di logica.

No – il potere di compiere sforzi coscienti e di assumermi una sofferenza volontaria non si è ancora atrofizzato. Tutto il mio passato e tutto quello che ancora mi aspetta esigono che IO SIA ancora.

Lo voglio… sarò ancora.

E a maggior ragione poiché il mio “essere” è necessario non solo al mio personale egoismo, ma al bene della umanità intera. Il mio “essere” è più necessario agli uomini che non tutte le soddisfazioni o tutta la felicità che essi possono procurarsi oggi. Voglio ancora “essere”… Io “sono” ancora.»

Cosa rimane, dunque, dell’insegnamento di Gurdjieff? Rimane molto di più di libri enigmatici, di insegnamenti sfuggenti e di interpretazioni discordanti. Rimane un’immensa influenza culturale, ben oltre le canzoni di Battiato, delle opere di Peter Brook, degli assoli di Robert Fripp. Rimane una traccia indelebile, il solco di una ricerca possibile.

Come chiosa Zuber: «i contemporanei devono far rivivere Gurdjieff a partire dall’opera alla quale egli ha legato il suo nome e cioè tanto dagli scritti di cui è l’autore, quanto da realizzazioni compiute in altri campi sotto la sua direzione e dietro la sua ispirazione».
Realizzazioni compiute ma, soprattutto, ancora da compiere.