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I frammenti della vita, la fisicità della morte: un dialogo con Matteo B. Bianchi



Un sole rovente conferma che questo sarà un nuovo anno da record climatici negativi. Milano è già caldissima; e siamo solo a febbraio. L’appuntamento con Matteo B. Bianchi è in un bar di Corso Buenos Aires. Quando arriva, sto mangiando una specie di poke scomposto, molto light e decisamente posh. Lui ordina un caffè e va a rimirare il bancone della pasticceria alla ricerca di un dolcetto non troppo peccaminoso. Io provinciale salutista fanatica, lui metropolitano goloso morigerato: eccoci finalmente allo stesso tavolino. L’editoria è un piccolo mondo, siamo quasi-sconosciuti e quasi-colleghi insieme, come tanti professionisti di vari settori, non solo culturali. Ci incontriamo perché Matteo ha appena pubblicato uno di quei libri che, inevitabilmente, segnano l’opera intera di un autore. Ci ha messo metà della sua vita adulta per scriverlo – lo scrive tra le pagine più volte. Mentre lo scriveva, evitava di ammettere a se stesso di farlo – anche questo lo scrive: preferiva pensarlo come un insieme spontaneo di appunti, riflessioni, un flusso di ricordi stipati alla rinfusa nello stesso cassetto in attesa di essere trasformati, prima o poi, in un manoscritto ordinato, disciplinato, adatto a essere condiviso con editor, giornalisti, critici e ogni altra categoria di lettrici e lettori. Non lo sapeva nessuno e non l’ha saputo nessuno; fino alla fine – e anche questo è scritto nel libro.

«Non mi sentivo mai pronto; anche nella forma. Ho aspettato ventidue anni prima di scrivere la prima riga. Mi facevo più di uno scrupolo come scrittore: ho sempre scritto cose lievi; e poi, di colpo, condivido questo macigno. Da un lato mi frenavo: non sono Camilleri, non mi leggono in miliardi, però ho una nicchia che mi segue e non sapevo come avrebbe preso un libro così diverso. Dall’altro, è stato difficile capire come raccontare una storia del genere. Quando ho cominciato, per un bel po’ di tempo, ho finto che fossero solo appunti, mi dicevo: prima o poi li unirò. Nel frattempo, ho scritto altre cose; che non ho mai finito. Lo interrompevo, scrivevo altro, ci tornavo. Finché, a un certo punto, ho capito che l’avrei portato a termine e la sua formula – quella giusta per raccontarlo – sarebbe stata il frammento. Devo dire la verità: non ci sono state molte revisioni o cambiamenti rispetto a come l’ho scritto. Ci sono stati ragionamenti con l’editor, naturalmente; ma è un testo che è venuto spontaneamente così».

La vita di chi resta, Matteo B. Bianchi

Il testo di cui stiamo parlando è, naturalmente, La vita di chi resta uscito per Mondadori nel gennaio 2023: più che un memoir, un vero e proprio romanzo-confessione in cui l’ironico e scanzonato autore, romanziere, critico, podcaster, professionista dell’editoria Matteo B. Bianchi racconta com’è sopravvissuto alla morte violenta e inaspettata di S., suo primo grande amore. Tra le pagine, S. torna in vita attraverso le differenze caratteriali con Matteo, la passione e l’amore che li ha legati, una depressione mai ammessa né trattata che finisce per mandare all’aria ogni aspetto della sua vita, compresa la relazione, l’incomprensione profonda che infine li divide, prima del gesto estremo. S. lascia dietro di sé domande senza risposte e un partner superstite che, suo malgrado, deve trovare la forza di andare avanti da solo. S. si toglie la vita appena oltre la porta della loro casa, che era stata prima nido e poi campo di battaglia. Quando ne parlo con Matteo il libro è uscito esattamente da un mese e due settimane.

«Questo libro per me non è una svolta, ma un unicum: è il grande tema nascosto che prima o poi sarebbe uscito. Dal punto di vista narrativo, è stato il buco nero che ha assorbito inevitabilmente molta parte della mia opera. Grazie a dio, non ho nient’altro di questa portata nella mia vita. Anche il coinvolgimento emotivo e il tipo di elaborazione che ha comportato riguardano questo libro e basta. Non so cosa scriverò dopo, non so cosa succederà, ma certamente non cercherò di emulare un libro del genere. Non avrebbe senso. E poi, io non ho mai avuto l’ansia della pubblicazione: i miei libri escono a distanza di cinque, sei anni l’uno dall’altro; e scrivo testi brevi, di duecento pagine. Ero convinto di aver scritto un libro per una nicchia, che quei pochi l’avrebbero apprezzato molto, ma che avrebbe suscitato un interesse critico su un tema che raramente viene toccato. Certamente, non mi aspettavo di avere – come sta succedendo – solo recensioni entusiastiche, di fare presentazioni con gente in piedi fuori dalle librerie, in religioso silenzio. Ho avuto la certezza di essere andato a squarciare un velo e tutti quelli che erano dietro questo velo si stanno palesando. A volte, alle presentazioni, qualcuno arriva e mi abbraccia, in lacrime, senza dire niente. Ieri ero a mangiare in un ristorante a Roma. Quando siamo usciti, la cassiera, che mi ha riconosciuto, ha detto al mio ospite: dica a Matteo B. Bianchi che sta aiutando tante persone e lui non se ne rende conto».

Anche io ho divorato le duecentocinquantadue pagine del libro con la stretta al cuore dei sopravvissuti. So di cosa sta parlando Matteo: imparare a convivere con la fisicità della morte è necessario. Lui è sopravvissuto all’inspiegabile suicidio della persona amata; io ho dovuto ridare un senso alla vita dopo una diagnosi di malattia incurabile. Come altri sopravvissuti alla morte per suicidio di una persona cara, anche Matteo ha dovuto “risolvere l’enigma” da solo, recuperando dalle macerie un’immagine positiva di S., di sé, della loro relazione, ripulendola dall’orrore del ritrovamento del corpo, dal senso di colpa, dai rimorsi, dalla compassione, dalla raggelante solitudine, dalla perdita totale di senso.

«Scrivere questo libro non è stato catartico o terapeutico: niente del genere. Sentivo di doverlo fare e l’ho fatto al meglio che fosse possibile per me. Sono orgoglioso della formula che ho trovato: dopo aver aspettato così tanto, era come se fossi davvero pronto. Ero anche molto geloso: non l’ha letto nessuno, l’ho portato alla mia agente senza dirle nulla, era come se non fossi in grado di avere interferenze esterne perché dovevo andare per la mia strada. Da questo punto di vista, ho fatto un percorso umano diverso da quello dello scrittore: le tappe del primo le rievoco nel libro; l’altro è stato molto più lungo».

L’accoglienza che i lettori dedicano a La vita di chi resta non mi stupisce: la consapevolezza di non farcela è un argomento ammesso in tutte le conversazioni, ancor più dopo il Covid. Una maturità sociale non scontata, soprattutto se consideriamo quanto i modelli di maschilismo tossico siano fondati sulla negazione del limite, del fallimento, della richiesta di aiuto. Ema Stokholma, Madame, Fedez e Damiano David sono solo i primi nomi che mi vengono in mente tra le sempre più numerose star nazionalpopolari che condividono pubblicamente le proprie fragilità e il ricorso -anche drastico- al supporto psicologico e farmacologico, quando necessario. Nessun vip della mia giovinezza ha mai mostrato il suo lato fragile, i suoi dubbi di inadeguatezza, il suo bisogno di protezione e ritiro. Al contrario, il mito del rock’n’roll celebra le morti premature e violente: i Kurt, le Janis, i Jim, le Amy sono dei di un olimpo di eternamente giovani, sacerdoti degli eccessi, la cui fine non fa che confermare il loro talento sovrumano. Se anche ci sono state sporadiche analisi della loro fragilità, blande critiche al contesto che li ha soverchiati, timide riflessioni su una possibile prevenzione, di certo non ne restano tracce nella loro iconografia. Il sole del nostro avvenire, fatto di performatività e produttivismo, lascia in ombra chi non tiene il passo, chi necessita di una pausa per chiudersi in se stesso e pensare. Il lato buio del nostro presente è sempre più affollato, come dimostrano i dati sulle cosiddette nuove fragilità (ormai, di fatto, una persona su tre). Eppure, continuiamo a trattare la fatica, il disagio mentale, la depressione, la resa, il suicidio come se fossero casi isolati e non punti di una stessa, dolorosa, mappa della realtà.

«Il suicidio è un tabù vergognoso. Lo è per quasi tutte le religioni, non è una specifica cattolica; però se tu pensi – come dico nel libro e come mi hanno raccontato i terapeuti – che non esiste un protocollo scientifico per assistere le persone che rimangono, i sopravvissuti, vuole dire che a livello mondiale si sceglie di ignorare deliberatamente questo problema. Il problema c’è, è gigantesco e non lo si vuole vedere. Di altri temi, difficili e importanti, se ne parla: il cancro o i disturbi alimentari hanno protocolli, materiali divulgativi, giornate mondiali. Invece sul suicidio le poche iniziative che ci sono vengono attivate su base volontaria spesso proprio dai sopravvissuti: genitori che hanno perso i figli e vanno a parlare nelle scuole, mariti vedovi che creano gruppi di auto-aiuto, e altri. Da un lato, queste iniziative sono eroiche: alcune persone trasformano il proprio dolore in una risorsa per gli altri. Ma per uno Stato è vergognoso che un problema così rilevante sia demandato a singole iniziative private perché questa gente, che pure ha sofferto, sta cercando di sopperire a una mancanza che non è solo statale, bensì internazionale. Un libro come questo serve a smuovere le acque: alcuni giornalisti non credevano ai dati che cito, sono andati a controllare. In quanto autore, sono arrivato a pubblicare con una consapevolezza da adulto; ed ero pronto a tutto. Però avevo paura dei lettori: se cominciano a scrivermi persone che vogliono un aiuto, io che cosa faccio? Proprio perché non c’è niente, uno che legge il mio libro mi contatta perché sono il suo unico tramite verso una qualche forma di consolazione. In realtà, il 95% di quelli che mi scrivono vogliono solo ringraziarmi (perché hai trovato le parole che non avevo, perché mi hai fatto capire cose che non avevo capito, perché mi hai dato il coraggio per andare avanti): hanno capito che quello che potevo dare, io l’ho già dato. Quando abbiamo fatto la seconda ristampa, il direttore di Mondadori mi ha chiamato per suggerirmi di mettere in fondo al libro un indirizzo, un telefono, un sito di aiuto per casi simili al mio. Ma non c’è».

Volendo proprio fare un’analisi critica (anche se un libro così ricco di sostanza può beneficiare della sospensione di giudizio) a La vita di chi resta vanno riconosciute tre grandi doti. La prima è l’estrema schiettezza della forma. La spontaneità dei pensieri, nella finta forma degli appunti disordinati che l’autore si è concesso, fluisce sulla carta genuina, generando una narrazione dalla sincerità disarmante. La seconda è la linearità: sviluppa riflessioni profonde e pensieri complessi con un linguaggio semplice. Infine, è la storia di come un essere umano cerca -con enorme fatica- di resistere ai pensieri negativi. Quel giorno i morti sono stati due; solo che il corpo di uno di loro poteva ancora respirare, alzarsi, funzionare.

«Il file del manoscritto che ho sul computer conserva il titolo originale, che era Il dolore di chi resta. Il giorno prima di consegnarlo alle case editrici in lettura, parlando con la mia agente, non mi sembrava il titolo giusto: il libro non parla solo del dolore, racconta tutto ciò che c’è oltre. Certo: è un libro intriso di dolore; ma è un dolore dal quale sei costretto ad andare avanti, lo attraversi per arrivare da un’altra parte. Raccontare questo attraversamento era per me molto importante. Ognuno ha il suo percorso: qualcuno ci mette un anno, altri dieci; c’è chi lo fa inconsapevolmente e chi invece è lucido; chi cerca un appiglio nella fede, negli amici, in un nuovo amore. Al di là delle singolarità, è una strada che il sopravvissuto è chiamato ad affrontare; perché se non la fai, muori anche tu. L’unico modo per un sopravvissuto per andare avanti è accettare. Quando qualcuno mi chiede come si supera una cosa del genere, rispondo che non si supera: si interiorizza, si accetta, diventa parte del tuo percorso. Il dolore ha una sorta di fascino. Finché lo tieni vivo, ti sembra di portare avanti il ricordo. Andare avanti, ricominciare a essere felice non è affatto facile».



Immagine di copertina: La vita di chi resta, Matteo B. Bianchi (Mondadori)

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