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Hai per caso sognato un gatto bianco? Una conversazione con Andri Snær Magnason



Comincio la lettura de Il tempo e l’acqua durante una breve nevicata. Il libro, che mi è stato consigliato da più persone, si occupa di riscaldamento climatico, ma lo fa seguendo percorsi imprevedibili, per esempio attraverso le figure dell’albero famigliare dell’autore: una nonna innamorata della natura boreale, un nonno chirurgo che ha visto la colecisti in necrosi di Andy Warhol, una prozia bambinaia presso la casa del romanziere Tolkien e uno zio erpetologo specializzato nello studio degli alligatori. Le vicende famigliari si alternano a una storia del paesaggio islandese, dove all’elegia segue la cronaca puntuale dell’impazzimento climatico. Non solo: nel libro c’è spazio anche per un incontro con il Dalai Lama.
Nel nostro breve scambio email, lo scrittore Andri Snær Magnason, che ringrazio per questa intervista, m’informava di una precipitazione piovosa in Islanda, fra il 14 e il 18 dicembre scorso, che si è abbattuta in particolare sul villaggio di Seyðisfjörður. Si è trattato per Seyðisfjörður di una quantità di pioggia mai vista prima, la più grande mai registrata nella storia. Una frana ha trascinato via dieci abitazioni. Un cugino di Magnason si trovava lì dove è confluita la marea di fango, insieme ad altri quaranta soccorritori. «La marea è arrivata», mi ha riferito Magnason, «e i quaranta soccorritori, senza avere idea di dove mettersi in salvo, sono scappati in quaranta direzioni diverse, come quaranta dadi lanciati nel vuoto; fortunatamente, dopo il tiro, i dadi erano tutti girati sul numero sei». Insomma, si sono salvati. In queste righe ho riconosciuto l’ostinata fiducia di Magnason nel salvataggio, in un’ultima chance, perfino in un miracolo – perché no? – che possa risparmiare il genere umano dalla fine della sua vicenda sul pianeta.

Ciò che mi ha emozionato e lasciato ammirato del libro va al di là delle pagine sulla catastrofe climatica e sulle ragioni etiche e spirituali che dovrebbero scuoterci dall’apatia e dal pessimismo, ed è la capacità di ricostruire nella psiche del lettore un legame celeste con il mondo e la sua preistoria. Grazie a Il tempo e l’acqua ho riscoperto un interesse amoroso per il mondo e per trame così antiche da costringermi a rivedere la mia stessa importanza come individuo. Nel capitolo intitolato In cerca di Auðhumla, Magnason trova (o forse s’illude di trovare, ma non ha importanza) una serie di corrispondenze che collegherebbero la mitologia norrena e le lingue scandinave ad alcuni miti e toponimi dell’area himalayana. Le due regioni, in un’epoca remota, potrebbero essere state permeate da una cultura e una simbologia comuni, dove al centro è lo spazio sacro del ghiacciaio, dal cui funzionamento armonico dipende la prosperità di tutto ciò che è a valle. Da questa suggestione Magnason ricava la scoperta di una conoscenza degli antichi, condivisa tra popoli e zone del mondo lontanissime, la cui saggezza illumina di colpo il nostro presente e le questioni che afferiscono allo scioglimento dei ghiacci.
La notte in cui leggo In cerca di Auðhumla, mi assopisco portando con me nel sonno l’immagine delle nevi immacolate, della brina e dei ghiacci scintillanti descritti da Magnason. Dev’essere a causa di queste pagine, di questa carta sfogliata prima di addormentarmi, che quella notte ho sognato di alzarmi e incontrare in bagno un minuscolo gatto bianco, così candido da sembrarmi, nel buio, luminescente. Come tutti i gatti, portava nelle iridi una specie di domanda. Era molto piccolo e credo mi stesse chiedendo ospitalità. È anche a causa di questo sogno, che mi sono procurato una email di Magnason e gli ho girato qualche domanda.       

Magnason

Vorrei tornare, se ti va, sulle parole che un poeta e scrittore vissuto a cavallo del XIX e XX secolo, Helgi Valtýsson, usò per descrivere la natura del paesaggio islandese: «i vasti e silenziosi spazi divini». Scrivi che questo modo lirico, sacrale e apparentemente enfatico di parlare della natura ha svincolato la tua scrittura e ti ha aiutato a capire come il tuo linguaggio, a volte, sia stato soggetto a categorie che appartengono all’economia e al marketing…
Di solito non provo particolare attrazione verso questo genere di stile, ma le parole di Valtýsson mi hanno spinto a una riflessione. Valtýsson ha descritto le emozioni solenni che gli aveva ispirato una particolare regione del territorio islandese, la valle del Kringilsárrani. Quella zona è stata completamente distrutta. Facevo parte del gruppo di attivisti mobilitati per la tutela dell’area e ho sentito una sorta di violenza nel modo in cui ci siamo costretti a conformarci a certe retoriche dell’economia e del marketing, anziché usare come argomento a difesa del Kringilsárrani la semplice bellezza del suo paesaggio e il valore superiore della natura. Alla fine è successo che la diga contro la quale stavamo combattendo non ha generato profitti, con il risultato che la natura è stata sacrificata e non ne abbiamo neppure tratto guadagno. Se riflettiamo sulla situazione climatica, ci accorgiamo che certo linguaggio considerato “razionale” ed “economico”, non è né razionale né economico. Non c’è nessuna razionalità economica nello squilibrare il sistema che ci tiene in vita. Quindi, col senno di poi, mi chiedo: avrebbe avuto più senso e logica considerare la natura per il suo aspetto “sacro” e inviolabile? Forse, se avessimo adottato questa prospettiva nei riguardi di fiumi, oceani e foreste, avremmo avuto una barriera in più contro la forza distruttiva del progresso.

Ho davvero apprezzato le pagine su Helgi Valtýsson. Credo che riguardino una sorta di inibizione a riconoscere un elemento di sacralità nella natura. Forse perché siamo abituati a vedere il paesaggio come una risorsa da sfruttare, come uno sfondo per Instagram o una specie di parco giochi. A questo proposito mi è tornato in mente un video che avevo visto molti anni fa. Era stato realizzato nel 2010 per promuovere il turismo in Islanda. Che ne pensi? Che effetto ti fa?
Il video di cui parli venne molto contestato in Islanda. La canzone è di un’amica, Emiliana Torrini, che per metà è italiana. Si trattò di un’operazione per rilanciare l’economia, dopo che l’eruzione vulcanica aveva spazzato via l’industria del turismo. È stato fatto in fretta e nel panico per convincere la gente a tornare in Islanda. Da allora il turismo è esploso. Ora è di nuovo morto ed è stato realizzato uno spot ancora più controverso. L’idea del secondo supera il primo in brutalità: è un invito a urlare in mezzo alla natura. Il turismo di massa non è più sostenibile e dobbiamo trovare altri modi, più lenti, per incontrarci, scambiare idee e fare nuove scoperte. C’è ancora molto su cui riflettere, nella società e nei nostri comportamenti. Il cambiamento di cui abbiamo bisogno è grande e profondo, ma puntare il dito non ha molto senso.

“Isteria collettiva” è un’espressione molto usata dai media. Tu invece parli di “apatia di massa”.
Ho la sensazione che da tempo sperimentiamo una sorta di apatia di massa. Le informazioni che sono state raccolte sulla crisi climatica non dovrebbero spingerci al panico, ma verso il tipo di risposta professionale che un autista di ambulanza, un vigile del fuoco o un medico del pronto soccorso sono addestrati a dare in situazioni di emergenza. Dovremmo agire con la stessa professionalità e rapidità di cui stiamo dando prova nell’emergenza della pandemia, visto il vaccino sviluppato alla velocità della luce. Una delle ragioni di questo ritardo sono state la propaganda e i decenni di attacchi alla climatologia. È come se non fossimo in grado di prepararci al pericolo finché non ce lo troviamo di fronte. Ma quando poi ti trovi davanti a una valanga, allora sì, comprendi l’entità della minaccia, ma non puoi più farci niente.

Come pensi sia possibile, da un punto di vista psicologico e spirituale, convivere con il pensiero della fine e della catastrofe?
Gli esseri umani hanno attraversato esperienze estreme. Le generazioni passate attraverso la seconda guerra mondiale sono cresciute sane e robuste. Gli esseri umani possono essere forti, resilienti e adattivi. Al tempo stesso abbiamo la tendenza ad accettare come normale l’ambiente modificato in cui siamo immersi, misconoscendo le profonde trasformazioni che lo hanno caratterizzato (Magnason parla di «shifting baselines», concetto al confine tra scienza e antropologia che non ha ancora un suo corrispettivo in italiano, con il quale viene descritta l’attitudine dell’essere umano a percepire come normale l’ambiente e l’ecosistema in cui vive, sebbene abbia subìto profonde alterazioni, Ndr). Per esempio, in questo momento vivo in una distopia fatta di limitazioni alla circolazione, mascherine, riunioni su Zoom, eppure ho già accettato e interiorizzato la situazione, anzi provo un filo di ansia al pensiero del ritorno alla normalità. Potrei essere tentato di negare la realtà e infischiarmene, eppure ho appena letto un romanzo ambientato nel 2030 e lo stato d’animo che mi ha preso è quello di una profonda tristezza per non aver reagito prima. Ho quattro figli, cerco di non fissarmi su pensieri da fine del mondo, ma è pur vero che ho scritto un libro dove si prende in considerazione la possibilità di una distruzione totale, se non faremo nulla. La mia strategia di sopravvivenza è restare attivo, parlare, scrivere e provare a cambiare le cose finché è possibile.

“Flight shaming”: pensi che un senso di colpa legato all’uso dell’aereo possa creare maggiore consapevolezza?
Si tratta di un punto molto delicato per noi islandesi, visto che dipendiamo completamente dal volo per collegarci al resto del mondo. L’alternativa, ovviamente, è la nave o forse nei prossimi venti anni assisteremo al ritorno di una sorta di dirigibile Zeppelin. Spostarsi in Europa in dirigibile potrebbe essere un buon modo di viaggiare. Conosco uno scienziato del clima che ha preso un treno dall’Inghilterra per arrivare in Cina e partecipare a una conferenza. L’ho poi incontrato a Reykjavík, dove è arrivato in nave. Magari sono stati viaggi scomodi e fastidiosi, ma credo che alla fine l’idea abbia funzionato. Non c’è niente di sbagliato nel nostro desiderio di viaggiare e conoscere il mondo, ma è giusto che si chiuda con l’abitudine dei viaggi week end e delle gite andata e ritorno in un giorno. Detto questo, non dobbiamo dimenticare che il volo aereo rappresenta circa il 6% del problema.

Tua nonna Hulda Guðrún è stata la prima donna islandese a ottenere la licenza come pilota di aliante nel 1945. Considerando l’estrema insularità dell’Islanda, immagino che gli islandesi abbiano un rapporto molto intenso con il viaggio aereo…
C’è chi dice di amare l’Islanda, ma a condizione di poter prendere un aereo e scappare, non appena viene la claustrofobia. Molti islandesi viaggiano all’estero diverse volte l’anno, come ho fatto io stesso fino a quando il Covid non ci ha fermato tutti.

Molto tempo fa, i tuoi nonni sono stati rinchiusi per giorni, in attesa dei soccorsi, dentro una tenda semisommersa dalla neve. Quando nel libro chiedi a tua nonna se in quei giorni avesse sofferto molto freddo, tua nonna risponde con una risata: «Freddo? Ci eravamo appena sposati!». Come ha fatto tua nonna a mantenere questa ironia e questa leggerezza fino alla vecchiaia?
Mia nonna è sempre stata una persona spensierata e, avendo avuto una vita felice, invecchiando è diventata ancora più spensierata. Non ha rimpianti e sente di avere vissuto la sua vita al massimo. È solo un po’ frustrata per non potere più fare le cose che faceva un tempo.

Nel libro riesci a creare spesso una sorta di vertigine del tempo, mettendo in relazione generazioni molto distanti tra loro, come quella dei nostri nonni e bisnonni con quella dei nostri futuri nipoti e pronipoti. Perché hai trovato interessante stabilire questa connessione tra punti così lontani nel tempo?
Ritengo che uno dei limiti più significativi della nostra civiltà attuale, sia proprio l’incapacità di rapportarsi alla dimensione del tempo. Quando gli scienziati dichiarano che nel 2070 accadranno eventi molto gravi, noi reagiamo come se la cosa non ci riguardasse. Il mio scopo, nel libro, era restituire al lettore una sensazione di intimità e vicinanza con il futuro, usando la mia connessione con il passato. Ho provato a calcolare qual è l’arco temporale sul quale è possibile avere influenza e che si possa in qualche modo toccare con le proprie mani.  Mia nonna, che è stata per me una persona molto importante, è nata nel 1924 e oggi ha 96 anni. Quindi, se avrò la fortuna di conoscere mio nipote così come ho avuto la fortuna di conoscere mia nonna, significa che una persona che amerò potrebbe essere ancora viva nell’anno 2140. Il nostro tempo è sia il tempo delle persone che abbiamo conosciuto e amato, ovvero il tempo che ci ha creato, sia il tempo di coloro che conosceremo e ameremo, ovvero il tempo che saremo capaci di creare. In questo modo, con le nostre mani, possiamo estendere la nostra capacità di contatto lungo un arco di 250 anni.

Che posto hanno la mitologia norrena e l’Eddukvæði (l’Edda poetica, raccolta di poemi a sfondo mitologico in lingua norrena, molto citato in Il tempo e l’acqua, Ndr) nella tua istruzione scolastica?
Al ginnasio dov’ero iscritto aveva un ruolo importante. Studiavamo alcuni poemi dell’Eddukvæði, un po’ come gli italiani studiano Dante.

Hai mai sognato un gatto bianco?
Non ricordo di aver mai fatto un sogno su un gatto bianco, ma posso dirti che nel mio ultimo documentario (presentato in anteprima nel 2021 a Copenhagen Dox, Ndr), il protagonista principale è un artista e musicista islandese, Högni, il cui nome significa “gatto maschio”, come il Tomcat della lingua inglese. Ti consiglio di guardarlo nel trailer: la voce ricorda quella di Seal, ma soprattutto è vestito di bianco.

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