C’è una poesia di Saffo che dice tutta la vertigine del rimpianto amoroso: dice cosa darebbe, lei, o meglio il suo io lirico solo per vedere ancora una volta la sua Anattoria, che ormai è lontana:
Oh, preferirei rivedere
il suo amabile passo,
il candore splendente del viso.
piuttosto che i carri dei Lidi
e battaglie di uomini in armi.
Darebbe qualunque cosa, pur di rivederla. Comprese quelle cose che il mondo considera le più preziose, le più maestose e importanti di tutte: per lei non sono niente, al confronto con il rumore dei passi che ha perso: Dicono che sopra la terra nera
la cosa più bella sia una fila di cavalieri,
o di ospiti, o di navi.
Io dico: quello che s’ama.
Chiunque può capirlo facilmente.
E chiunque abbia amato e perso l’amore anche solo una volta, anche se poi l’ha ritrovato in un’altra forma, anche se poi si è detto che era meglio così o che era destino, capisce bene quello che intende dire Saffo in questi versi così semplici e sottili; e si intenerisce, perché in effetti, chiunque abbia perso l’amore una volta l’ha pensato, di buttare via tutto per un solo sguardo, per tornare indietro, per rendere reversibile l’irreversibile. Solo che, di solito, non si può; e si impara, poco a poco, soffrendo e consolandosi con il senno di poi, che così va la vita. Che il finale irrealmente commovente di Come eravamo fa piangere per eccesso di realismo, perché quei due sconosciuti tanto gentili, che si incontrano e chiacchierano in mezzo alla strada, e non sanno più niente e insieme tutto uno dell’altra, sono identici a tutti quanti noi, ogni volta che abbiamo incontrato chi amavamo quando eravamo diversi e identici, ieri, l’altro ieri, mille anni fa. E ogni volta la domanda terribile è la stessa: dov’è andato a finire l’amore?
Come una nuvola dorata avvolgeva lo spazio che condividevano, che condividevamo, e poi – che fine ha fatto? Chissà dove si è depositato il suo pulviscolo, lasciandoci nudi nella nudità dell’imbarazzo, della cortesia, del ti trovo bene. Ogni volta a chiederci cosa c’era di vero, allora, e cosa di vero rimane, cosa precipita in fondo all’alambicco una volta che tutte le reazioni chimiche che dovevano consumarsi si sono consumate. La risposta che mi sono data, dopo averci molto pensato, è che tutto l’amore, tutta la nostalgia, tutto l’odio, persino; e le notti, i giorni, e le lenzuola e il sole che illumina il pulviscolo in una camera calma, dopo l’amore, si trasforma tutto in rimpianto. Come attratto in un gigantesco imbuto, tutto questo groviglio di cose entra nell’alambicco, ne stilla fuori solo rimpianto, soluzione satura. Rimpianto da distillare piano, goccia a goccia, nei giorni normali, nei giorni piatti, nei giorni tristi. Anche nei giorni in cui compaiono all’orizzonte i carri splendenti dei Lidi, o una fila di ospiti, o di navi.
Ho letto da qualche parte – rimpiango il fatto di non ritrovare più il luogo, lo cerco e non lo trovo, ma mi sembra più intonato, non trovarlo, al filo del discorso – un’intervista a Leonard Cohen in cui lui raccontava un momento perfetto, un momento di felicità assoluta, vissuto in un’estate dei primi anni ’60: di mattina, ad Atene, fumava una sigaretta greca su un taxi che correva verso il porto. Accanto a lui, sul sedile, c’era Marianne Ihlen, la sua musa bionda, per cui qualche anno dopo avrebbe scritto una canzone meravigliosa su come non ci si dovrebbe dire addio. Perché, qualche anno dopo, si sarebbero effettivamente detti addio; lei lo sognerà per decenni, e cinquant’anni più tardi moriranno, a pochi mesi di distanza, ma lui prima le scriverà una lettera, appena in tempo perché lei possa leggerla, in cui dirà che anche per lui è arrivato l’avviso di sfratto. Ma la cosa che mi colpiva, di quell’intervista, era che Leonard Cohen citava come un istante perfetto un momento di una storia finita, molto tempo dopo la fine di quella storia; come se fosse capace di uno sguardo retrospettivo in grado di sfuggire alle maglie del rimpianto, malgrado la consapevolezza di quello che sarebbe venuto dopo.
Da quando ho letto quell’intervista, anche se non ricordo bene né dove né quando, mi sono sentita costretta a riflettere sul mio rapporto difficile con il rimpianto; un’emozione che forse, su di me, riesce a esercitare un fascino fin troppo suadente, perverso. Razionalmente, negli anni, ho imparato a guardare al rimpianto – l’appuntamento mancato, la chance sprecata, il treno perso – come al tributo che tutti dobbiamo pagare alla vita, pur di vivere. Per ogni occasione còlta ce ne sono cento che perdiamo; per un appuntamento che finisce con un bacio, a quanti baci dobbiamo rinunciare? Per un incipit riuscito, non scriviamo un milione di altre storie possibili. Per ogni indicativo muoiono un milione di condizionali, fra cui qualche volta ci possiamo cullare, con l’immaginazione rendendoli migliori della vita che ci spetta, la sola che abbiamo.
Eppure, ci sono domande che mi ossessionano, e riguardano tutte l’infinito mare delle possibilità in mezzo al quale la nostra vita traccia la sua scia, sottile, minuscola rispetto alla sterminata distesa d’acqua che sembra minacciarla, e invece la sostiene, le permette di essere. Per esempio: cosa succede di un amore che non finisce quando diventa condizionale, anzi: congiuntivo, quando rimane sospeso in un desiderio che si nutre solo di sé stesso e vive, precisamente, delle occasioni mancate, mentre tutto intorno si infittisce la trama della vita, passano vent’anni, i capelli degli amanti si imbiancano, sul collo si disegna una ruga, le schiene cominciano a scricchiolare?
Cosa succede se un amore comincia senza che sia l’inizio di una storia lineare, ma di un’attrazione che vive nell’assenza, in un’intercapedine immaginaria eppure concreta; come una carezza che abbia il peso del bacio che Peter Pan dà a Wendy nella forma di un bottone, essendo convinto che i baci siano bottoni – e che, incidentalmente, le salverà la vita? Elena Loewenthal ha scritto un romanzo, La carezza (La nave di Teseo), che parte precisamente da qui – da queste domande che stanno al centro della mia ossessione per gli amori finiti. E racconta un amore non finito, né iniziato, ma sospeso in una sua perfezione di rosa non colta, di cosa che non viene consumata. Un amore che vive dell’assenza, che esiste nell’oscurità. Ma che proprio nell’oscurità, nell’ombra del condizionale, dura vent’anni senza lasciarsi rovinare dall’attrito con la prosa quotidiana, e rivela gli amanti uno all’altra, senza l’imbarazzo del ti trovo bene, in una vicinanza assoluta perché è pura illusione ottica: «Chissà perché hanno scelto di fare tutto dentro l’oscurità: non certo per nascondersi a vicenda».
E torno a pensare a quanto sia importante concedersi di non cogliere le occasioni, se non per capriccio, con incostanza e discontinuità, per poter vivere.