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Di una comune favola di migrazione. Intervista a Luca Giommoni


“Tikidà, mia madre, diceva che niente di quello che c’è in natura ha realmente nome e che i confini esistono solo sulle cartine geografiche. Mio nonno, quando ha scoperto che avevano dato un nome al deserto, si dice che non abbia rivolto parola a nessuno per tre giorni. Diceva che lo avevano fatto per ritrovarsi ma avevano perso molto altro.”

Le parole in esergo sono quelle di Makamba, uno dei personaggi principali di Il rosso e il blu, romanzo di Luca Giommoni edito da effequ. Entrando nelle pagine di questa “favola di migrazione”, si prova un senso di disorientamento davanti alla stravaganza di questo personaggio e ai suoi messaggi sibillini, eppure nelle sue parole l’autore ha affidato la saggezza di alcune idee che hanno l’ambizione di “riequilibrare” il mondo. Luca Giommoni, oltre ad avere alle spalle numerose pubblicazioni di racconti su riviste come «Effe – Periodico di Altre Narratività», «Pastrengo» e «L’Indiscreto», è un insegnante di italiano per stranieri e ha lavorato anche come operatore in un centro di accoglienza.
Limina lo ha intervistato per parlare di storie di migrazione e di accoglienza, del mondo narrativo a cavallo tra finzione e realtà di Il rosso e il blu e di come questa storia e la parabola di Makamba possano davvero servire a ritrovare un’idea di molto più equilibrata e solidale.

Il rosso e il blu ha come sottotitolo “una comune favola di migrazione”. Ma di favole in questo libro ne troviamo diverse: la favola del viaggio per terre e per mari dei migranti protagonisti e la favola dell’accoglienza di chi lavora nel CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria); come mai hai deciso di ambientare in questi mondi una storia? Da cosa nasce l’urgenza di dare voce a questa realtà e restituirla facendo tuo questo specifico genere letterario?
Volevo cambiare il registro narrativo ma non i contenuti dell’argomento che stavo trattando, proprio per offrire una narrazione delle migrazioni differente da quelle propagandistiche cui siamo stati abituati dai media e dalla politica. Quando si parla di migrazione se ne parla sempre con troppo buonismo facilone o con strazianti reportage narrativi o si sollevano veri e propri muri mentali, oltre che fisici. Queste semplificazioni, sia dei problemi che delle soluzioni, sembrano voler spostare l’attenzione dai veri protagonisti di questa realtà: gli esseri umani.
Grazie alla favola ho potuto raccontare storie di migrazione, con le loro bellezze e atrocità, mantenendo ben presente chi fossero i protagonisti di quelle storie: persone che continuano a incontrare difficoltà e che continuano a cercare dei lieto fine, anche se con azioni sgangherate e sconclusionate.
In più desideravo che questa narrazione differente arrivasse a più persone possibili, adulti e ragazzi, e la favola mi sembrava il vettore più adeguato: possiede il giusto peso specifico per essere leggera e arrivare lontano. È un passe-partout per ogni serratura di pensiero.   

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Makamba, uno dei personaggi principali, si mette in viaggio dal Mali con una missione segreta che viene svelata nelle pagine finali del libro; le tracce dei suoi viaggi e delle traiettorie dei protagonisti ritornano spesso nel libro; come hai raccolto il materiale narrativo di queste esperienze?
Ho lavorato in un centro d’accoglienza e ho avuto la possibilità di ascoltare direttamente chi è cresciuto e vissuto nelle parti di mondo che racconto nel libro e chi ha provato sulla propria pelle certe esperienze, come ad esempio quella della prigionia libica.
Ho raccolto stimoli anche attraverso la lettura di articoli dell’UNHCR e la visione di film di registi africani, rielaborando e aggiustando poi il tutto con la fantasia per legare una coralità di storie intorno a quella di Makamba e la sua assurda impresa. 

A un certo punto Makamba si ritrova al timone di un’imbarcazione che dalla Libia deve condurre in salvezza l’equipaggio durante una tempesta. Questo scenario è tristemente noto per via di numerose ricostruzioni mediatiche, alle volte accurate ma occasionalmente abusate per provocare l’opinione pubblica, purtroppo ancora troppo indifferente allo scempio di quanto avviene al largo delle coste italiane. Il tuo racconto, al contrario, riesce a colpire perché rifugge quella pornografia del dolore battuta in precedenza. Come hai deciso di approcciarti alla descrizione di episodi di questo tipo? Qual è il pudore che un narratore consapevole deve tenere a mente quando si approccia a vicende altrui?
Non volevo assolutamente cadere nella facile retorica della pornografia del dolore: ne avevo vista già troppa. Anche in questo caso la favola è venuta in mio soccorso e grazie al suo umore scanzonato e surreale mi ha permesso da un lato di esorcizzare il dolore che si portano appresso i personaggi, dall’altro di restituire con maggiore durezza la disumanità che troppe persone, nel ventunesimo secolo, devono ancora sopportare. Non ero interessato a mostrare il dolore quanto a come ogni personaggio lo affronta, cercando con candore e ottimismo un’alternativa più umana alla realtà in cui si è ritrovato.
Personalmente quando decido di raccontare un’esperienza che non ho vissuto mi sforzo di nascondermi più che posso nella storia altrui, di scomparire, e con meno parole possibili ma le più precise possibili far accendere nella testa di chi legge immagini e pensieri, che possono essere anche diversi da quelli che avevo in mente io ma devono necessariamente riconsegnare e rispettare il sentimento originario.

Una delle ambientazioni principali del romanzo è il Centro di accoglienza; qui troviamo Valerio, Manfredi, Malang e Santiago, lo staff della struttura Arcobaleno che ospita il protagonista Makamba, Billy Idol, Benedict, Fadagan e gli altri migranti della storia; questi personaggi sono frutto di fantasia o sorgono da storie vere che hai avuto modo di ascoltare nella tua esperienza di insegnante e operatore?
Il rosso e il blu, come mi piace spesso ripetere, è una continua rincorsa tra fantasia e realtà. Esistono per davvero Makamba, Benedict, Fagadan e Billy Idol, come esistono per davvero Manfredi, Santiago, Valerio e Malang. Ma tutti i personaggi sono stati reinterpretati in chiave favolistica. I migranti, con le loro surreali imprese, per far evincere il candore e la poesia che ho avuto la fortuna di incontrare lavorando nell’accoglienza. Gli operatori del centro, con le loro personali battaglie quotidiane, per mettere in luce meraviglie e criticità di chi lavora nel sociale.

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Ad un certo punto i membri dello staff si confrontano con una notizia che ci riporta agli anni del Governo giallo-verde e all’approvazione del Decreto sicurezza. Il clima di odio generato in pochi mesi di governo viene ricostruito nel libro ed è anche alla base di un’aggressione che colpisce gli ospiti di Arcobaleno. Trovi che anche a distanza di anni sia ancora sensato parlare di quegli anni e, nella tua esperienza, tracce di quel decreto e quelle norme continuano a complicare la vita di chi vive e lavora nel mondo dell’accoglienza?
Ha ancora senso parlarne per non riparlare più di sicurezza chiudendo porti, strutture di accoglienza, lasciando persone ad affogare in mare o stipate in una nave e demonizzando ogni solidarietà umana. Quando la sicurezza si costruisce a scuola, negli ospedali, in strutture assistenziali, con politiche ambientali ed economiche efficienti.
I decreti sicurezza, anche se ritrattati ma mai completamente ripudiati, hanno avuto il tempo sufficiente per affidare alla clandestinità, con tutte le problematiche che ne derivano, migliaia di richiedenti asilo che non potevano più contare sulla protezione umanitaria. Hanno costretto centri d’accoglienza virtuosi, che non facevano altro che aiutare delle persone, a chiudere, lasciando ancora più solo chi era già invisibile, e senza lavoro tanti lavoratori del mondo dell’accoglienza. Io stesso, quando il governo gialloverde ha decretato che per una buona integrazione non erano necessari i corsi di italiano, mi sono ritrovato disoccupato.

Infine, ho visto che questo libro è stato adottato da alcune scuole: ci potresti raccontare come è stata l’esperienza di lettura in classe e in che modo un libro che parla di accoglienza, migrazione, razzismo può essere usato come strumento didattico nella comunità scolastica?
L’incontro con le studentesse e gli studenti è stato pazzesco. Un’esperienza bellissima che onestamente non ho ancora realizzato. Vedere come ragazze e ragazzi si siano ritagliati del tempo per leggere la mia storia, estrapolando analogie con altri testi,  interpretazioni cui non avevo mai pensato, e percepire l’affetto, la curiosità e l’entusiasmo che hanno dedicato ai personaggi del libro, mi ha riempito di una gioia e un orgoglio difficili da trasformare in parole.
Credo infine, almeno mi piace pensare, che Il rosso e il blu possa offrire ai ragazzi e alle ragazze dei modelli di umanità diversi cui ispirarsi, lontani da atteggiamenti machisti e dall’osservare la realtà da un’unica prospettiva.
Mi farebbe piacere se, in un qualche modo, potesse far loro riflettere sul valore dell’unicità di ogni singola persona, sul considerare le differenze veri e propri superpoteri, sul guardare un essere umano come la quantità di storie che si porta con sé e non smettere mai di aver voglia di ascoltare cosa hanno da dire quelle storie.



In copertina: dalla copertina del libro Il rosso e il blu

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