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Creatività come forma di conquista della realtà

Su «Corteo», l’ultimo non-romanzo di Rachel Cusk, un continuo sconfinamento tra vita e finzione

«Ci sono così tante cose che non ho il diritto di dire, così tanti elementi dell’identità che devo accettare di non poter esprimere, e quindi devo trovare altri materiali che arrivino da altre fonti. Significa provare a creare una sorta di non-spazio che prende il posto di quella certezza del passato. Per me è stato molto interessante accorgermi con quale facilità le cose si capovolgessero, una volta compreso questo concetto, e come metterlo in pratica da un punto di vista tecnico».

Si è espressa così Rachel Cusk, a proposito del suo rapporto tra scrittura e vita, rispondendo a una domanda di Claudia Durastanti in occasione di un dialogo tra loro e Edoardo Albinati al FILL di Londra nel 2019, poi trascritto per «minima & moralia».

Nota per la sua ‘Trilogia dell’ascolto’, Resoconto, Transiti Onori, recentemente ripubblicata da Einaudi in un volume unicoRachel Cusk è un’autrice che ha sfidato e continua a sfidare i confini fra vita e finzione cercando nuove prospettive e nuovi spazi narrativi funzionali a raccontare ciò che non sempre è possibile raccontare della propria identità. È come se Cusk mettesse in pratica la lezione del saggio Il realismo è l’impossibile, in cui Walter Siti sostiene che il realismo non è altro che uno sporgersi, un avvicinarsi alla realtà, ma mantenendosi sempre in bilico fra ciò che è vero e ciò che è finzione. In questo senso sono da interpretare i suoi romanzi, che la stessa scrittrice definisce ‘non-romanzi’, opere sì di finzione, ma che contengono una traccia di realtà soggetta ai capovolgimenti di prospettiva e trasfigurazioni narrative che ogni romanzo porta con sé. Un non-romanzo è anche la sua ultima fatica, Corteo (Einaudi Stile Libero, 2025), un libro che ha raccolto reazioni miste da parte della critica, per la sfida di prospettiva narrativa che ci illustra. Protagonista di questo romanzo è ‘G’, che nulla ha a che fare con il protagonista dell’omonimo romanzo di John Berger, un picaro un po’ Casanova, un po’ Garibaldi e un po’ Don Giovanni che si muove in tutto il vecchio continente a fine Ottocento assurgendo a simbolo di un’epoca di grandi cambiamenti, soprattutto identitari. Il G di Rachel Cusk è un artista che fa ritratti capovolti, che la gente vede come l’ennesima moda artistica passeggera. La nuova cifra stilistica di G, in realtà, allude a ciò di cui parla il non-romanzo: un cambio di prospettiva. G è anche un’artista visiva che deve rapportare la sua produzione alla sua maternità, ma allo stesso tempo diventa uno scrittore che si reinventa regista. G è multiforme e multiprospettico, è tante cose ma allo stesso tempo nessuna di esse, e sperimenta e reinventa prospettive per raccontare la stessa esperienza di vita e la stessa ricerca di espressione della realtà.

La controfigura, La levatrice, Il tuffatore La spia: i quattro titoli dei capitoli di Corteo sono espressione di questa smaniosa ricerca di nuove prospettive e rappresentano quattro aspetti della stessa persona, ma allo stesso tempo no. Oltre G e alla moglie o al marito senza nome, troviamo infatti personaggi di pura finzione come Thomas, Julia e Mauro, personaggi che, sebbene siano narrati in terza persona, presentano alcuni aspetti del personaggio G. In questo senso Rachel Cusk è molto brava a confondere il lettore, soprattutto cambiando spesso prospettiva dalla prima alla terza persona. Dal punto di vista narratologico, Corteo sfida la percezione di se stessi e dell’altro cercando di farci ragionare sul rapporto fra percezione esterna e interna, e soprattutto sul grado di realtà che riscontriamo nelle nostre storie e in quelle altrui.

Per comprendere, quindi, questo gioco prospettico bisogna partire dall’occhio esterno. Più volte Cusk fa riferimento alla percezione dell’altro, per il quale le opere d’arte sono sacre e chi le ha create ha una sorta di potere divino. Dare un potere di sacralità alle opere d’arte significa renderle immutabili, ma in realtà quest’ultime di sacro non hanno nulla in quanto la loro identità è determinata non soltanto dalla vita di chi crea la realtà attraverso l’arte, ma anche di chi osserva queste opere, che con le loro diverse prospettive contribuiscono a conferire alle opere d’arte un’identità sempre nuova:

«Le opere di G, soprattutto quelle esposte qui, costituiscono una sfida alla realtà. Mettono in discussione la realtà del corpo. Di solito il corpo viene trattato come qualcosa di concreto e immutabile, in un certo senso più reale della mente, e tuttavia separato da essa, senza una mente propria».

Se l’occhio esterno di chi recepisce un’opera ritiene quest’ultima immutabile e concreta, in realtà non è così agli occhi dell’artista, che concepisce l’opera come qualcosa a sé stante con una vita propria, con una base di realtà che ne costituisce il presupposto all’esistenza, ma che può essere modificata per assumere vita propria. Per l’artista G, infatti, fare arte significa creare una non-esistenza, ovvero un «baratto del corpo» con l’immagine di finzione che lo fa esistere in maniera nuova, mentre lo scrittore e regista G sceglie uno pseudonimo per «sacrificare la verità interna per costruire un’identità esterna». In entrambi i casi, ma anche nel caso del pittore G, l’artista deve uccidere parte di sé, della realtà e del suo vissuto – in particolare la sua famiglia – per «prendersi svariate licenze con la verità». L’artista, inoltre, deve seguire quello che il pittore G dice nel momento in cui decide di dipingere ritratti capovolti, ovvero trasformare questo sacrificio di sé diventato frammento di realtà in una realtà da far accettare all’occhio esterno:

«Infine maturò l’idea d’inversione come strumento per risolvere tale violenza e restaurare il principio d’interezza, così che il mondo fosse di nuovo intatto ma capovolto, e perciò libero dalle costrizioni della realtà».

Come già preannunciato, in queste parole sembra di sentire quelle usate da Walter Siti in Il realismo è l’impossibile, per il quale il realismo in letteratura è una riproduzione di illusioni che diventano la realtà. Come per Siti, anche per Cusk e per i suoi vari G ciò che consideriamo realtà non è altro che un frammento di come noi la realtà la percepiamo e che proponiamo, sacrificando parte di noi stessi e del nostro vissuto. Quello che operiamo non è altro che un capovolgimento prospettico, che per gli altri risulta come un tradimento se non addirittura un omicidio della realtà: ciò che per noi è vero per l’artista non lo è e viceversa. Quello che osserviamo in un’opera d’arte o di narrativa è sempre qualcosa di capovolto rispetto a quello che percepiamo. Ed è per questo, allora, che Cusk usa il termine non-romanzo per parlare di questo libro: perché quello che per noi è un’opera di narrativa per Cusk è saggio, ma anche la vita vera, e quello che per l’autrice, però, è la realtà, per noi in realtà è finzione. L’identità di Corteo, di G e delle sue controfigure sono sempre messe in discussione e continuano a esistere vivendo in bilico fra realtà e finzione.

Come per Walter Siti, anche per Rachel Cusk e il suo Corteo vale il principio secondo cui quello che definiamo romanzo realista sia la rincorsa verso lo svelamento dell’impossibile. È difficile, infatti, stabilire cosa sia reale e cosa no, e la storia dei vari G lo dimostra: essere reali significa reinventarsi attraverso la finzione, ma mantenendo una piccola parvenza di vero. La vita vera ci serve per esistere come arte, e la sua identità cambia a seconda di chi la percepisce e la recepisce. Essere reali è impossibile, perché siamo sempre una piccola parte del tutto, veri e autentici per chi ci crea, alle volte falsi e menzogneri per chi ci legge o studia. Alla fine, come scrisse Pirandello, la verità è quello che si crede, ed è sempre diversa a seconda di chi questa verità la crea o la osserva.

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