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Cosa resta di tutto il Busi che non abbiamo letto da giovani?



1. Critica della critica busiana

«Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza», scriveva Busi nel suo incantatorio incipit di Seminario sulla gioventù, e oggi potremmo domandarci, rileggendo il libro nella sua ultima ignoratissima edizione Rizzoli: Cosa resta di Seminario e di tutto quel ben di Busi che non abbiamo letto da giovani? Niente, solo chili di copie al Libraccio, spesso prime edizioni, spesso persino autografate, quasi mai lette, e tutto intorno tanto fintotontismo critico.
Quasi nessuno infatti scrive criticamente di Busi e chiunque lo faccia o lo fa appunto acriticamente, come citazione esotica chic, perché dire che il migliore è Siti ormai è davvero troppo ovvio (Lagioia, ma anche Parente), oppure lo indica come classico vivente appartato, preferendo il bel ritratto rustico del personaggio, o nel migliore dei casi della persona, al corpo a corpo con la sua enorme, quintalesca produzione (si veda il recente comunque meritevole I solitari di Davide Bregola). 
C’è chi ne magnifica la grandezza, come il biografo Marco Cavalli, ma è davvero troppo vicino, sia geograficamente che umanamente, per non correre il rischio dell’agiografia ateistica, e c’è chi invece ne auspica a gran voce critica il recupero, come Alberto Casadei sulla Lettura, nelle sue preziosissime panoramiche, che però, essendo appunto d’occasione, si fermano purtroppo al semplice augurio, all’armiamoci e partite.
Inoltre quasi tutti quelli che scrivono di Busi non solo si addentrano poco nello specifico testuale, limitandosi al colpo d’occhio stendhaliano sull’ormai assodato sontuosismo stilistico, ma non lo paragonano mai davvero a nessuno, non fanno comparatistica, relegandolo così implicitamente al ruolo di anomalia. Penso ad esempio a Vita standard di un venditore provvisorio di collant, vero antesignano dei libri sul precariato, e quindi dei vari Falco, Trevisan, libro che però non viene mai citato insieme a questi ultimi, perché di Busi o non si parla o, se se ne parla, lo si fa soltanto come monolito, come monade, senza contemporanei, senza maestri, senza nipotini.
Di Busi si parla quasi sempre in sede extratestuale, di lui si citano più gli aneddoti che le pagine, si applaude il suo perenne Uno contro tutti pseudocarmelobeniano, e qualche volta lo si indica, a mio avviso a torto marcio, come paradigma sociologico del genio letterario che si è andato a infognare in televisione, insomma come una sorta di ultimo baluardo del Novecento, un autocristo, svendutosi, con successo di pubblico ma insuccesso di critica, al cretinismo berlusconiano (così ad esempio dice, parafrasando, Francesco Permunian in un’intervista per il Premio Bergamo: «La letteratura italiana novecentesca finisce con la morte di Tondelli e con l’infognamento televisivo di Busi»).
In questa sede proveremo quindi a parlare di Busi e di Seminario in modo un po’ diverso, finalmente testuale, proveremo a leggere il volume come fosse un romanzo nuovo, un esordio marziano, proveremo a indicare quel che nel libro è formidabile e quel che invece non funziona, dimenticando, per un po’, il dandismo dell’autore, lo sgarbismo, gli scatenamenti danzanti, l’incivile impegno civile, cioè tutto quel capolavoro mediatico che, a ben guardare, è davvero poco, anzi nulla rispetto al lavoro letterario, e dico lavoro e non capolavoro, nonostante le trionfali autocritiche busiane, perché capolavoro è una parola che ha senso solo a libri chiusi, mentre noi, per una volta, vorremmo aprirli.

Aldo Busi

2. Seminario sulla gioventù

Seminario sulla gioventù è il libro che Busi scrive dal momento in cui impara a scrivere sino a quando, nel 1984, a trentasei anni, dopo quasi due decenni di randagismo professionale e sessuale in giro per il mondo, Adelphi non decide di pubblicarglielo.
Piero Bertolucci, al tempo collaboratore adelphiano, racconta nell’ormai canonica postfazione di aver letto quel manoscritto al tempo in cui Busi era barista e di anni ne aveva sedici e di averglielo rifiutato, aggiungendo però due cose: «Tu sei uno scrittore» e, cosa più importante, «Concludi gli studi, viaggia ed esordisci il più tardi possibile».
Seminario è il resoconto della giovinezza il giorno dopo la sua fine, è il diario romanzesco di un viaggio fisico, mentale, estetico e politico di quasi quarant’anni, e arriva proprio nel momento in cui deve arrivare, cioè quando di tutto quel dolore che Busi pensava di aver provato da giovane non restano altro che fiabe apocrife, reminiscenze contraffatte, in una parola, anche se desueta: letteratura.
Intanto partiamo dal significato del titolo, che a prima vista suona davvero troppo lacaniano per un autore antifilosofico come Busi, fieramente lontanissimo dai manierismi accademici. In effetti un titolo simile, così posato, così pseudopretesco, sembra in contrasto con l’aggressività menefreghistica di titoli come Sodomie in corpo 11, Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, Cazzi e canguri.
In realtà, forse anche per esordire con Adelphi, che lo sconcio non lo voleva e non lo vuole, Busi in questo caso ricorre a una oscenità indiretta. La stratificazione semantica del titolo si rivela quasi alla fine del primo capitolo, quando il protagonista Barbino, condannato dopo le medie a fare la lavandaia sul fiume, sta scrostando, in compagnia della scema del villaggio, lo strutto spermatico dalle mutande degli aspiranti preti del seminario. Dopo mille anni di silenzio fonetico e cerebrale, l’attardata mentale, detta appunto la Tarda, apre bocca e dice: «Ah, la gioventù l’è prope un gran seminare», e poi tace, per sempre, o comunque fino alla sua concimazione biologica.
Si rivela qui tutto Busi, il suo parlato forbitissimo, gli orgasmi multipli del linguaggio, il suo stile pansessuale e pansemantico, un barocco mai libresco, mai greve, una prosa cicciona e al tempo stesso levitante, una voce aristocratica di origini proletarie, martinedeniane.
La pagina di Busi infatti è altissima, ma a differenza di quella di Manganelli o Arbasino, viene dal basso, da un sottoproletariato rurale che in passato, con Manzoni e con Verga, aveva avuto vari dipinti, ma mai un pittore. Busi è il primo ragazzo di vita a scrivere, non a essere scritto, il suo punto di vista sul cosiddetto popolo è ben lontano dall’idealizzazione parafiliaca di un Pasolini, o almeno del primo Pasolini.
Busi scrive del basso dal basso, non lo rialza, non lo idealizza, non lo ripulisce, non lo colloca, come bestiame impagliato, sul piedistallo del moralismo, dell’ideologia, dell’antropologia turistica, perché quello che per altri è folklore, pittoresco sessuale, svago sociologico, per lui è passato, è presente, è corpo, è corpo a corpo.
«Che cosa può mai capirne», scrive Busi, «della vita distillata nella letteratura chi non è mai vissuto là dove di letteratura non se ne fa per niente, ma tutt’al più la si subisce dall’alto e basta?»
Il primo capitolo, forse il più letto e rimpianto dell’intera opera busiana, è quello sull’infanzia di Barbino, alter ego dell’autore, suo doppio infantile e divino, polimorficamente perverso, onnisessuale danzante. Qui c’è già tutto Busi: il randagismo disperato di una famiglia guidata da un padre fannullone fascista fallito, una madre eroica col latte perenne, i fratelli che ingiustamente lo menano in quanto piccolo culattone cioè culattino, la sessualità messa in mostra, tirata fuori dai pantaloni ovunque e con chiunque, e quindi osteggiata dal bigottismo clericale.
Barbino danza, caga, mangia ciò che caga, prova tutto, palpa ed è palpato, dà sollievo sessuale allo scemo del villaggio, teme di diventarlo a sua volta, scopre l’amore e i segreti delle donne, va con le bambine ma gli piacciono i maschi, perché non li capisce, perché non si identifica in loro, perché sono lontanissimi, altro da lui, che s’infila gli abiti odorosi di sua madre e si dimena e tira su dal naso, invasandosi sessualmente.
Busi scrive dell’infanzia dall’alto, con una lingua che non si abbassa mai al livello del protagonista bambino, seppur prodigio. Scrive dell’infanzia come più avanti farà Mari, e non farà un Ammaniti e soprattutto gli ammanitiani, senza analfabetizzare il suo punto di vista affogandolo nel lacrimoso facile, nel sensoriale privo di ragionamento e di pensiero complesso sul mondo.
Dal secondo capitolo in poi Barbino è solo un ricordo, un mito fondativo, e il protagonista, che finalmente parla di sé in prima persona, è impegnato nel tentativo di campare, di provare a vivere, o anche solo sopravvivere, lontano dal paese fecale natio, paese sia al minuscolo che, ovviamente, al maiuscolo.
Barbino va in Francia, prova a farsi mantenere da un prete omosessuale, poi da un aristocratico decaduto, che forse se lo è preso in casa perché lo vorrebbe tanto come suo assassino personale, infine si trova invischiato in un triello un po’ erotico e un po’ massonico con tre parigine amiche del cuore e di molto altro: una occhialuta e bruttina ma innamoratissima di lui, una seconda molto bella e molto elegante e una terza davvero troppo bella e troppo elegante per essere solo una donna tanto che verso la fine del romanzo verrà fuori, senza che lo tiri fuori, che in realtà è un uomo, un minotauro donnizzato, proprietario sessuale e inculatore delle prime due.
Intorno a questo intreccio parigino, che è poi il presente della narrazione, ruotano in stile libero e barocchissimo: brevi ritorni a casa per farsi odiare meglio e regalare abiti eleganti ai parenti che poi non li mettono perché chi si veste bene anche il martedì pomeriggio vuol dire che non lavora e poi diari ritrovati in cui il protagonista racconta, ancora in prima persona, le sue scorribande milanesi nel ruolo di barista castigatutti nonché giovane bastone della vecchiaia di un non poi così camuffato Montale.
Una sarabanda di aneddoti, sodomie, invettive, tutto mescolato insieme, in una lingua vorticosa, folgorante, totipotente, come pochissime se ne sono lette e se ne leggeranno dopo in Italia, e diciamo pure non solo in Italia, anche se all’estero Busi è quasi del tutto inedito.

Aldo Busi

3. Alcune immodeste obiezioni

Seminario, come ogni conclamato capolavoro, non è appunto un capolavoro, ma un libro pieno d’incongruenze, errori, dimenticanze, eccessi, ripetizioni, cuciture, grandiose figuracce, proprio come quella cosa chiamata vita. In primo luogo il volume è il risultato della sedimentazione di materiale eterogeneo scritto e strascritto nel corso di decenni. Il primo capitolo sull’infanzia è in terza persona, mentre il resto del libro è in prima, forse perché l’infanzia è così lontana che per abitarla di nuovo Busi ha preferito narrarla come fosse una fiaba apocrifa, oppure perché quelle parti, all’inizio, non erano collegate a quel che verrà dopo, e riscriverle avrebbe significato tradirle, nonché, quasi sicuramente, peggiorarle.
Di tanto in tanto nel primo capitolo Busi interviene, quasi a completare il testo, con sezioni tra parentesi e in prima persona, un espediente macchinoso, che potrebbe essere un virtuosismo, ma che fa pensare piuttosto a un tornare e ritornare su lavori precedenti, aggiungendo dettagli, specificazioni, spesso persino fondamentali, come la chiusa sulla morte del padre, il cui odio Busi ringrazia, perché in fondo è stato l’unico sentimento che si siano donati a vicenda.
L’esempio più vistoso di questa sedimentazione progressiva è il Diario di un barista, un manoscritto che, secondo la finzione romanzesca, il protagonista si sarebbe portato dietro in una valigia di latta e che a un certo punto viene inserito all’interno del libro. Il Diario di un barista costituisce quindi una sorta di memoriale della prima giovinezza e si colloca tra due lunghi capitoli ambientati a Parigi.
Qui appaiono Montale, Buzzati, le scorribande sessuali e professionali di un Barbino ventenne a Milano, i suoi primi amori con pittori falliti maneschi o le acrobazie pubiche con uomini ricchi che lo pagano per tenerli al guinzaglio e dar loro il biscotto glandico. La sensazione, leggendolo, è che questo capitolo sia un vero e proprio lavoro giovanile che, se l’editoria lo avesse voluto, Busi avrebbe anche potuto pubblicare da solo, come un Porci con le ali o un Altri libertini.
Lo dimostra il fatto che la pagina, almeno all’inizio, sembra avere un’età diversa rispetto al resto del libro. Ci sono le descrizioni naturalistiche, l’espediente wertheriano del diario, persino alcuni passaggi lirici, di un lirismo quasi adolescenziale, che stonano un po’ con quel che viene prima e quel che viene dopo (“Mica ho più undici anni. Io e la mia penna ci siamo cristallizzati un poco, ma questo lo sapevamo già prima di riunirci e non c’è acrimonia fra noi due”, “E parliamone pure di meno: che la lingua taccia e si faccia gelato alla mela”).
Si potrebbe ipotizzare che questo lieve cambiamento sia voluto, che tornando indietro nel tempo Busi ringiovanisca un poco la pagina, ma dato che nel primo capitolo sull’infanzia la scrittura non è infantilizzata, non ha senso pensare che l’autore ricorra a una mimetizzazione stilistica soltanto qui e poi basta. È più probabile invece che quelle variazioni stilistiche, giustificate a posteriori con l’espediente del diario, siano le tracce di un lavoro non meno riuscito, ma semplicemente precedente a livello cronologico.   
In buona sostanza Seminario non è il risultato di un’unica colata creativa, come Sodomie in corpo 11 per intenderci, ma è più una miscellanea, è un esordio sotto forma di Meridiano della gioventù, e come tutte le raccolte ha pregi e difetti tipici, è tracotante, è onnicomprensivo, ma è anche incongruente, spesso persino nei tempi verbali. Ad esempio, i capitoli di Busi ventenne a Parigi sono scritti al presente, mentre i passaggi di lui più che trentenne di fronte al padre morto sono scritti al passato remoto e all’imperfetto. 
Seminario è un vestito sontuoso, raffinatissimo, ma si vedono le cuciture e Busi le ha lasciate, ha riscritto più volte il libro, ma non lo ha mai tradito, non lo ha mai ripensato, non lo ha mai corretto, se non a livello puramente formale. Ne risulta un testo pulsionale, senza regole, non mediato da scuole di scrittura ricreativa, da pignolerie narratologiche, un testo pieno zeppo fino a scoppiare di vita e completamente libero dal citazionismo, insomma un testo che non deve niente a nessuno.
Ci sono poi alcune criticità che riguardano tutto Busi e non solo Seminario. In Seminario il polemismo busiano è al suo massimo, perché è pienamente giustificato a livello narrativo. Barbino è sottoutilizzato intellettualmente, è un proletario colto, uno spiantato sociale, e le sue lotte verbali contro pretume, omofobie, padroni di lavoro rivitalizzano il romanzo, spostano in avanti l’azione.
Si crea dunque una dialettica felice tra la linguaccia corrosiva del protagonista e il mondo circostante, bigotto, ottuso, clericale, dialettica che nel successivo Vita standard s’incarna perfettamente nella coppia tragicomica composta dall’industriale ricco ma ignorante Celestino Lometto e dall’intellettuale raffinato ma straccione Angelo Bazzarovi.
Nelle opere successive, diciamo da Sodomie in corpo 11 e poi sempre di più, questa dialettica viene un poco meno. Busi ormai ha tartassato chiunque, ha umiliato e punito tutti, e il suo primato intellettuale rende il personaggio romanzesco più statico, o comunque molto meno fragile, molto meno struggente di quel Barbino ventenne che finiva nudo in un sottoscala, costretto dal suo aguzzino sessuale a mangiare fagioli o a morire di fame.
E qui arriviamo non dico alle riserve ma diciamo così alla contrazione narrativa del Busi maturo, più bello da leggere ma meno romanzesco del primissimo Busi di Seminario e di Vita standard.
Busi non è più un Martin Eden, Busi è ricco, è famoso, è pubblico e quindi non può più essere picaro, principe del proletariato. Come Saviano, non può spiare, perché tutti lo spiano, tutti sanno chi è, e al massimo può lamentarsi d’essere incompreso, d’essere un genio più famoso che letto, il cui successo mediatico è un equivoco e la cui opera letteraria è fraintesa o ignorata.
Lentamente la sua produzione, sempre sfavillante sul piano intellettuale, si contrae sul piano narrativo, si fa reportage o sempre più spesso sermone kierkegaardiano, tanto che in Vacche amiche o nell’Especialista de Barcelona il viaggio non ha più senso, dato che Busi capisce tutto e tutti rimanendo fermo, sedentario, grazie al ricordo e al ragionamento.
I suoi avversari non sono più corpi, padre, madre, ma idee, perlopiù cattive: istituzioni, politici, costumi. Il romanzo diventa un sermone ateo, un sermone civile, anticlericale, geniale ma a priori, senza romanzesco, una morale senza fiaba apocrifa, senza più esperimento biografico. Viene meno la carne e resta lo spirito, il motto di spirito, il saggismo autoriale, il moralismo settecentesco, insomma sempre meno Balzac, sempre meno commedia disumana e sempre più Diderot, sempre più Sterne, sempre più manualistica sapienziale, filosofia della vita, teoria della prassi.
Un altro limite di Busi preso nel suo insieme è la facilità della pagina che si tramuta in sovrascrittura, nella tentazione di fare un libro all’anno, perculando l’ispirazione poetica a favore di un approccio quasi giornalistico o meglio operaistico, tutto bresciano.
Esaurito il materiale dell’infanzia, Busi lo riprende, ci torna sopra, cita e ricita sempre gli stessi episodi che ritroveremo in moltissimi dei suoi libri: il prete pedofilo, i temi delle medie, il padre fannullone, la madre indipendente e lavoratrice.
Ovviamente non c’è nulla di più scortese della reductio a Proust per un qualunque autore che non sia Omero o Proust stesso, ma dal momento che Busi cita Proust di continuo, lo sfida, e lo ridimensiona sempre, pur amandolo, perché a suo dire non avrebbe guardato abbastanza nei portafogli dei suoi personaggi, mi si conceda qui un breve parallelismo.
Sia Proust che Busi scrivono sempre lo stesso libro, ma se Proust ne scrive uno solo, vale a dire la Recherche, Busi ne scrive molti, quasi tutti uguali, un po’ come se Proust, dopo Swann, avesse riscritto quello stesso volume decine di volte, riciclando superbamente le stesse scene.
Insomma, il limite di Busi è forse che scrive troppo e troppo bene, un po’ come Balzac, ma senza avere il grande piano architettonico pronto. Manca in lui il sacro timor di dio nei confronti della pagina, tanto che Busi scrive bene anche quando, in qualche modo, non ha niente da scrivere, o comunque non ha individuato un soggetto forte, una Karenina, una Bovary, insomma un perno narrativo, o nel caso filosofico, intorno al quale far ruotare il suo caleidoscopio letterario.
Per questo motivo il giudizio critico nel suo insieme finisce poi per convergere, quasi coincidere, col giudizio del lettore della domenica pomeriggio, che, di fronte a Busi, come di fronte a un Miller, dice «Bello, geniale, formidabile, ma letto uno letti tutti, o comunque letto uno letti molti».
Detto questo, il semplice fatto che di Busi si possa scrivere in questi termini, scomodando Proust e Kierkegaard senza apparire ridicoli, è la prova che siamo di fronte a uno scrittore patrimonio, uno scrittore imprescindibile per il Novecento italiano e oltre, ma non certo, come scrive lui stesso, sabotandosi da solo, il più grande nonché unico scrittore italiano vivente, autodefinizione che, in effetti, non è né vera né falsa, ma semplicemente priva di senso critico e intellettuale.

Aldo Busi

4. Alla ricerca dei nipotini busiani

Perché Busi, a quasi quarant’anni e quaranta libri da Seminario, resta un autore più visto in televisione che letto, più temuto che amato? Perché non vanta, come accadde all’ultimo Gadda, schiere di nipotini, allievi, epigoni, portaborse, portaborracce?
La risposta è abbastanza semplice e imbarazzante, non si sa bene per chi: lui va da una parte e quasi tutta la letteratura italiana contemporanea va da un’altra. Rispetto al presente editoriale e quindi letterario, Busi è anacronistico, o avveniristico, insomma è troppo avanti o troppo indietro, sia per pagina che per temi.
Partiamo dalla pagina. In un tempo in cui i cosiddetti narratori, gli storyteller, spesso concepiscono il libro come pretesto per la serie, per il film, per il fumetto, ignorando, o fingendo d’ignorare, che il medium è il messaggio, Busi è scrittore puro. Nei suoi libri il cosa è davvero inseparabile dal come, il romanzo non è il racconto, il plot, il plot twist, il romanzo è la somma delle pagine di cui è composto. Come Arbasino, Busi sa che scrivere è riscrivere, limare quel che a prima vista è già perfetto, tanto che le versioni di Seminario sono appunto numerosissime come quelle di Fratelli d’Italia.
Quanti tra gli scrittori più venduti e stregati e campiellati di oggi si sognerebbe di riscrivere un romanzo già pubblicato anni prima per ragioni stilistiche? In fondo, come fa notare Siti nel suo Contro l’impegno, da più o meno Saviano in poi conta che il libro arrivi e che arrivi subito, possibilmente allo stomaco e al maggior numero di persone, non solo per vendere, ma per “cambiare le cose”.
In tempi di attivismo socialaro perenne, la riscrittura busiana o arbasiniana è tradimento dell’impermanenza del post, dell’urgenza d’intervenire oggi dimenticandosene domani, è irresponsabilità civile, ozio letterario, aristocrazia del pensiero e quindi, per dirla murgianamente, è anche un po’ fascismo.
Anacronistico nell’approccio alla pagina, Busi è ancor più inaccettabile sul piano dei cosiddetti contenuti. Busi scrive in modo agonistico, elitario, gerarchico, quasi dannunziano, in un contesto editoriale e letterario nel quale, invece, come nota Giglioli, di traumi reali quasi non ce ne sono e il gioco dello scrittore consiste nel farsi vittima, nel definirsi a partire da ciò che ha subito.
L’omosessualità busiana è ancora più oscena oggi di trent’anni fa, ma per ragioni diverse. Busi incarna un’omosessualità superomistica, alla Mario Mieli, un’omosessualità fieramente minoritaria e quindi necessariamente eroica, garibaldina, un’omosessualità irriducibilmente messianica, che quindi non può farsi norma, non può farsi regola, non può farsi famiglia arcobaleno.
In Busi non c’è alcun vittimismo passivo, ma solo attivismo passivo, vitalismo passivo. Per prenderlo nel culo, come titola un suo libro, bisogna avere i coglioni. In Seminario, ad esempio, il protagonista Barbino si siede sulle gambe del suo maestro oppure è amante umiliato di un sacerdote trasferitosi a Parigi, ma in nessuno di questi episodi Busi ricorre al facile manicheismo tra vittima e carnefica: sedersi sul pube allupato del maestro piace moltissimo anche a lui e col sacerdote culallegro c’è andato di sua spontanea volontà per provare, inutilmente, a farsi mantenere.
Come in Foucault ovviamente l’approccio alla sessualità è poi cartina al tornasole per comprendere la società e la vita stessa: Busi non si lamenta, Busi non si lagna, Busi combatte, Busi non fa la vittima, Busi non è un indignato di professione. È facile constatare come tutto ciò sia, in regime di mitologizzazione della vittima, ampiamente inaccettabile, oltraggiosissimo, e da qui, anche, il quasi oblio, o comunque il far finta di niente, come se non avesse parlato, come se non avesse scritto.
Forse, per cercare un nipotino busiano, invece di andare alle nuovissime giovani promesse dell’anno, ai folgoranti esordi quotidiani, bisognerebbe guardare ad alcuni suoi coetanei sbocciati dopo, un poco tardivi e che a Busi devono moltissimo.
Intanto senza Busi probabilmente non ci sarebbe stato il primo Siti, il Siti autofinzionale della Scuola di nudo. Anche se poi Siti è andato ben oltre il suo primo libro, è impossibile negare che quel deliberato autosputtanamento sessuale, quel gusto per la provocazione al di là del bene e del male, insomma quel masochistico sadismo nel parlare del mondo e quel sadico masochismo nel parlare di sé, devono moltissimo a Busi, anche solo come precedente vizioso, da cui partire per provare a fare meglio.
Altro coetaneo tardivo, possibile nipotino di Busi, è il celiniano Pecoraro, anche lui autofinzionale, postprostatico, lamentosissimo, che nella Vita in tempo di pace e nello Stradone sembra scrivere, senza accorgersene, quel Seminario sulla vecchiaia (o sul postmortem?) annunciato in postfazione al Seminario classico e mai davvero scritto, o comunque mai pubblicato, un tassello che manca all’opera busiana, superlativa nel raccontare i vent’anni e non altrettanto formidabile nel raccontare i settanta, forse non per appannamento del genio, dato che comunque Busi ha le rose fiorite anche d’inverno, ma per mancanza di motivazione editoriale, conscio che un suo nuovo libro sarebbe più frainteso che letto.
Ma se preferisce così lasciamo pure Busi al suo pensionamento senza pensione, in fondo siamo stati abituati troppo bene prima, con un libro all’anno, qualche volta due, dobbiamo accontentarci, dobbiamo farcelo bastare. A pensarci bene, ma anche male, è già notevole che un Busi sia esistito, che sia nato come scrittore. Dostoevskij scriveva da qualche parte che il capolavoro richiede un doppio sforzo: quello di scrivere il capolavoro e quello di sopportare i commenti e gli insulti e le cattiverie di chi quel capolavoro proprio non lo vuole, e allora parla e giudica e invita a darsi alla vanga.
E questo è vero per tutti, ma è doppiamente vero per gli scrittori di origini proletarie e triplamente vero per gli scrittori di origini proletarie delle province produttiviste del lombardoveneto, insomma per scrittori come Trevisan, Permunian e appunto Busi, scrittori che si sono conquistati una lingua letteraria in luoghi senza tradizione culturale, iperletterari per contrasto, per vergogna rovesciatasi in pavoneggiamento, scrittori perennemente incazzati, cattivisti, umiliati e dunque offensivi, scrittori lontani dal salottismo romano, dal bonarismo emiliano, dallo stessabarchismo partenopeo.
Se proprio quindi dovessimo individuare autori affini a Busi per liberarlo dal privilegio della solitudine acritica dovremmo guardare a loro, scrittori non voluti, respinti, bernhardiani, venuti su dal niente, come un quarantotto, in una zona della penisola dove la scrittura è ancora oltraggio, non tanto al pubblico costume, perché ormai il papismo è ormai estinto, ma alla dittatura monoteistica del portafoglio.

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