Se si volesse dimostrare che Benno Von Arcimboldi, l’inafferrabile e fumoso scrittore che si aggira nelle pagine del capolavoro 2666 di Roberto Bolaño, sia stato ricalcato dall’autore sulla figura del poeta americano Richard Brautigan, bisognerebbe prima dimostrare che Bolaño conoscesse Brautigan.
Questo è presto fatto.
In quell’immenso catalogo di poeti e stili modernisti provenienti da tutto il mondo, travestito da romanzo, che è I detective selvaggi, primo capolavoro di Roberto Bolaño, Richard Brautigan è citato due volte, con intenzioni ed esiti opposti.
La prima: veniamo informati che Ulisses Lima, uno dei due fondatori del Realvisceralismo, la corrente poetica al centro della storia, aveva tradotto (in spagnolo, evidentemente) Richard Brautigan. «Pessimo poeta», aggiunge il narratore di turno (I detective selvaggi è un romanzo polifonico).
Fine.
La seconda è molto più lusinghiera. Ulisses Lima e la sua amica Claudia stanno leggendo poesie. Qualcuno li osserva:
«Ascoltavano canzoni di Cat Stevens e leggevano delle poesie brevi, secche e tristi, luminose e ambigue, lente e veloci come lampi, poesie che parlavano di un gatto che saliva sulle gambe di Baudelaire e di un gatto, forse lo stesso, che saliva sulle gambe di un manicomio! (poi seppi che erano poesie di Richard Brautigan tradotte da Ulisses).»
Nei Detectives selvaggi, il personaggio di Ulisses Lima è ispirato al poeta Mario Santiago Papasquiaro, amico di Bolaño, che nel romanzo invece diventa Arturo Belano.
Insieme, i due, da giovani, avevano fondato non il Realvisceralismo ma l’Infrarealismo. Siamo lì.
Tra i poeti amati da Papasquiaro c’era davvero Brautigan.
Bolaño dunque doveva, per forza, conoscerlo bene. E provava, sembra dimostrare la lettura dei Detective selvaggi, un sentimento ambivalente verso quello scrittore americano un po’ smargiasso e un po’ scalcagnato.
Forse, frequentando Papasquiaro, si era imbattuto anche in qualche ritaglio di articolo o frammento di biografia di Brautigan.
Forse aveva scoperto ciò che noi possiamo sapere con una rapida ricerca (fatta in inglese) in rete: che Richard Brautigan era alto, molto alto, addirittura un metro e 93 centimetri. E aveva giocato nella squadra di pallacanestro della sua scuola (dettagli da tenere a mente e ricordare più avanti).
Se poi qualcuno, arrivato a questo punto, si stesse chiedendo chi è Richard Brautigan, possiamo dire che è stato uno scrittore e poeta statunitense, di origini tedesche, molto celebre alla fine degli anni Sessanta (i Beatles hanno lavorato alla produzione di un disco con lui), oggi in Italia ricordato soprattutto per il romanzo Pesca alla trota in America, ma non solo: altre opere, come American Dust, vengono ripubblicate periodicamente.
E adesso prendiamo in mano il voluminoso 2666, di Roberto Bolaño e spieghiamo qualcosa di più su Benno Von Arcimboldi.
L’opera si divide in cinque parti. Nella prima, La parte dei critici, quattro critici letterari di diverse nazionalità, si innamorano di un fantomatico scrittore della Repubblica Democratica Tedesca (quando la Germania era divisa), che nessuno ha mai visto e scrive sotto pseudonimo: Benno Von Arcimboldi, appunto. Ne seguiranno le tracce fino alla città di Santa Teresa, in prossimità del deserto di Sonora.
Ma qui il lettore troverà qualcos’altro: la terribile vicenda, ispirata alla realtà, dell’interminabile strage di donne (violentate, oltraggiate, uccise, fatte a pezzi, abbandonate nella sabbia o in immense discariche), che vi si consuma attraverso gli anni, e la relativa indagine sull’origine dei delitti.
In realtà, qualcosa di Benno Von Arcimboldi, a Santa Teresa, si ritrova: un suo alter-ego. Un giovane (ma al momento in cui si svolgono i fatti Benno dovrebbe essere ormai anziano) in tutto identico a lui nell’aspetto, misteriosamente implicato nella mattanza.
Il grande scrittore ignoto, con il suo pseudonimo buffo, alla fine, è stato uno specchietto per le allodole. È servito per trascinare il lettore al centro della tragedia. Nel quinto volume sarà rivelata la sua identità. E tutto sarà diverso.
Nelle prime quattro parti, invece, è destinato a suscitare un sentimento ambiguo: di ammirazione ma anche di ripulsa.
Ora proviamo a dimostrare che Bolaño si è servito di un paio di fotografie di Richard Brautigan (o almeno le aveva nella memoria, conscia o inconscia) per costruire il suo fantoccio.
La prima traccia dell’esistenza fisica di Benno Von Arcimboldi viene fornita ai quattro voraci critici da uno scrittore tedesco, anzi svevo, approdato ai «dialoghi sulla letteratura tedesca contemporanea tenuti ad Amsterdam».
Questo «scrittore scialbo» inizia a rimembrare l’epoca in cui aveva lavorato come organizzatore culturale in municipi periferici dell’ex DDR, e salta fuori il nome di Arcimboldi. Lo svevo non ricorda molto, solo la copertina di un suo romanzo, il primo, che Arcimboldi portava nella tasca di un giaccone. Il giaccone gli è rimasto impresso: «era indimenticabile, un giaccone in cuoio nero, con il colletto alto, capace di offrire una protezione efficace contro neve e pioggia e freddo, da indossare con maglioni pesanti…»
Non ci assomiglia molto. E le condizioni atmosferiche sono addirittura opposte. Ma quello che Brautigan indossa nella foto è un giaccone nero e ampio: il collo non è sicuramente alto ma rialzato, in modo da farsi notare subito.
Due dei critici, lo spagnolo Espinoza e il francese Pelletier, si recano ad Amburgo, per far visita all’editore di Arcimboldi. Lui, il signor Bubis, è morto da anni. Qualcuno ricorda che lo scrittore era molto alto, almeno quanto Bubis era basso. La signora Bubis, la vedova dell’editore, è più precisa. A una domanda diretta di Espinoza su com’è Arcimboldi, risponde: «molto alto, un uomo di una statura straordinaria. Se fosse nato oggi, probabilmente avrebbe giocato a pallacanestro».
Passano molti eventi, molte pagine e qualche tempo. Finalmente i critici-detective trovano una traccia concreta del passaggio del loro autore feticcio: ha preso un aereo, è sbarcato in Messico.
Volano anche loro a Città del Messico, da dove lo scrittore è ripartito per Hermosillo, vicino Santa Teresa. Ma riescono a parlare al telefono con un funzionario del ministero della cultura che lo ha tirato fuori da una grana. È intervenuto per fermare un gruppo di poliziotti che credevano di spennare un semplice anziano e stordito turista. Lui però aveva in tasca un buon numero di telefono e l’ha utilizzato: quello del funzionario, ex-scrittore anche lui, meglio noto come il Porco.
Ecco il ritratto che il Porco fa ai critici:
«Alto più di un metro e novanta, capelli bianchi, (quando i critici rintracciano Arcimboldi, pur senza incontrarlo, lui è ormai anziano) abbondanti anche se era calvo sopra la nuca, magro, sicuramente forte».
«Come sono gli occhi?», domanda la Norton (l’inglese del gruppo).
«Azzurri», disse il Porco.
«No, lo so che sono azzurri, ho letto tutti i suoi libri più di una volta, è impossibile che non siano azzurri, voglio dire com’erano, che impressione le hanno fatto i suoi occhi».
«A questo è difficile rispondere», disse il Porco.
E dopo un po’ disse: «Ha gli occhi di un cieco, non dico che sia cieco ma sono uguali precisi a quelli di un cieco, però può darsi che sbagli.»
Attraverso le immancabili lenti, nelle foto, si può apprezzare lo sguardo miope degli occhi azzurrissimi di Brautigan.
Fine della Parte dei critici, la prima di 2666: i quattro arriveranno a Santa Teresa ma non riusciranno a trovare il vecchio Benno Von Arcimboldi, che pure deve essere lì. E poi verranno dimenticati, senza troppi rimpianti, nelle parti successive del voluminoso romanzo.
Nella quarta parte, quella dei delitti, troviamo l’alter-ego di Benno Von Arcimboldi. Lo sfondo è agghiacciante: decine, anzi centinaia, di corpi di donne scoperti, pagina dopo pagina, abbandonati nel nulla, descritti nello scempio che hanno subito con maniacale cura da anamnesi forense.
L’alter-ego è tale solo per la somiglianza fisica con il grande scrittore e per l’origine tedesca (ma, pur vivendo in Messico, ha cittadinanza statunitense). Per il resto si chiama Klaus Haas, ha un negozio di computer, un atteggiamento da sbruffone che non lo rende molto simpatico. Ed è sospettato di alcuni dei delitti.
Soprattutto, è giovane. Il lettore percepisce che i due sono legati. Fino alla fine non saprà come e perché.
Ed ecco le descrizioni:
«Un uomo alto, e poi?», disse Epifanio (uno dei detective che indagano sulle uccisioni – ndr.).
«Alto e biondo», disse la ragazza.
E poi di nuovo:
«Era alto un metro e novanta e aveva i capelli biondissimi, giallo canarino, quasi se li tingesse ogni settimana.»
Solo un bravo scrittore poteva definire con tanta precisione il vago senso di fascinazione e disagio che suscitano i capelli di Brautigan: biondissimi, giallo canarino, quasi se li tingesse ogni settimana.
I rapporti di Richard Brautigan con le molte donne della sua vita non sempre sono stati limpidi – come si apprende dalla monumentale biografia di William Hojrtsberg – viziati dalla sua gelosia, dalla propensione a perdere le staffe, soprattutto dopo aver bevuto, dalla predilezione per le pratiche bondage nei rapporti amorosi.
Nelle sue relazioni con l’altro sesso c’era un lato oscuro: proprio come per Klaus Haas, l’alter-ego di Von Arcimboldi.
Richard Brautigan si è tolto la vita a 49 anni, nel 1984, con un colpo della sua 44 Magnum, a Bolinas, in California.
Nessuno se ne accorse. Il suo corpo è rimasto per mesi nella casa in cui si era suicidato, fino alla macabra scoperta. Proprio come accade ai corpi delle donne abbandonati, senza sepoltura, nel deserto di Sonora, in 2666.
Forse Roberto Bolaño non ha mai pensato a Brautigan quando ha descritto Benno Von Arcimboldi.
Eppure, dando inizio al suo romanzo, per gioco, con la caccia a un fantasma, sembra averne catturato almeno un altro.
Photo credits
Il ritratto di Richard Brautigan è un dettaglio di un’illustrazione di Marco Petrella