Oniwakamaru and the Giant Carp di Toyota Hokkei
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Comma 22

Avrei voluto essere Cristo. Conversazioni con Amélie Nothomb

Anche un po’ inuit – per la solitudine fiera, da esemplare unico (nonché per l’affiliazione al gelo: «Amo la neve, è un tale simbolo di vita. Quando si scioglie, dove va il bianco? È una frase di Shakespeare. Cosa c’è di più importante di questa domanda?» scrive in Catilinarie, 2005).
L’intero globo, la casa di Amélie Nothomb; che dopo Asia e America dimora il vecchio continente con sub-urbana ambivalenza tolstojana: «Bruxelles è pace, Parigi è guerra». Con un’inesausta produzione mimeografa, secondo alcuni in discesa (impossibile equalizzare il genio diciassettenne di un’omelette spaziale, dopotutto), secondo altri soltanto sfrangiata. Per gli innamorati, come Michel Robert, simplement intouchable.
Forse così è nato lo slancio de La bocca delle carpe. Conversazioni con Amélie Nothomb (Voland, 2019), sotto incantamento, nel voler pubblicare senza paura un libro dichiaratamente partorito vecchio: Robert – coreografo d’oltralpe, biografò Maurice Béjart, Jacques Martin – raccoglie le chiacchierate assieme alla scrittrice dai natali nipponici, naturalizzata belga, avvenute tra il 1995 e il 2001; sul divano di un’amicizia che palesa l’imprescindibile interesse al personaggio, un ripasso. Dentro cui l’artista visivo vestito da (bravo) giornalista scompare in uno dei cilindri nothombiani – può non essere fabuleux il mondo di Amélie?

Le Conversazioni, tutt’altro che interviste collazionate. Più che altro confidenze, ecco: «Ma davvero?!», «Ma cosa le salta in mente?», informalità di Robert in cui il «lei» è tutto per placare la nostra invidia dell’intimità. Regalate a chi già conosce l’eccentrica Nothomb e la apprezza oltre. Agli altri, pardon, la sensazione d’amuse-bouche cui non segue cena ma un’elegante parure di briciole. Come dessert, un condizionale.

– Di cosa le piacerebbe parlare, adesso?
– Della posizione degli avverbi nelle frasi, della primavera, di come si fa il miele…

S’avrà Soif (Albin Michel, 2019). Frattanto è tempo di succulenta fame.

Vita

Quando l’autobiografia inietta ogni opera significa che le vicissitudini – infinite, simboliche, magiche – non sono falsabili, che le si ascolterebbe ancora-e-ancora stretti attorno al falò delle vanità editoriali. Appunto succede. Si sta come nishikigoi, le carpe dell’autorale infanzia giapponese, a fauci divaricate, annegando nel risciacquo (nel risuono) di fantastiche eziologie.
Di madre e di padre ha sempre detto Nothomb; solo i più recenti Colpisci il tuo cuore (2018) e I nomi epiceni (2019) si alternano nel gestire psicopatologie matriarcali e patriarcali: déjà-vu mai stanco. Non è colpa sua l’aver provato «esperienze magnifiche», sinceri «attacchi di follia», «cose estremamente interessanti, poco vivibili ma così straordinarie!» nel vivaio famigliare. I fatti li centellina e dissemina tra i romanzi (Stupore e tremori, 1999; Metafisica dei tubi, 2000; Biografia della fame, 2004). Qui ipotizza il sé.
«Sono una pessimista allegra», sputa. «Sistematicamente non sistematica», liminariamente accomodante: «È possibile non amare i miei libri e andare perfettamente d’accordo con me. Non è un problema». Soggettivato oggetto di morbosità – «telefonate oscene, lettere d’insulti, riflessioni estremamente sgradevoli, campagne calunniose…» –, la scrittrice soccombe al tragico divertendosi. Con la penna, ovviamente.

Scrittura

Vestita di un vecchio cappotto mangiato dalle tarme, in grossa lana marrone chiaro – eccezione unica al dress code carbone –, Nothomb, china sulle ginocchia, produce a biro «3,7 manoscritti all’anno», attentissima a una poetica «coerente» e fidelizzata (marchio Albin Michel per i lettori francesi, Voland in Italia). «La mia forza, credo, sta nella mia struttura», disamina, sul «delirio organizzato» che condensa scritti cinici e intenerenti, soavi e «pornografici».
Non conosce il panico da pagina bianca. Ha la spavalderia dell’autodidatta («Per fare un esempio, ho studiato a fondo da sola il greco e il latino in Bangladesh»), la modestia cara ai privilegiati («Non c’è nulla di umiliante nel dire che si è diventati scrittori perché si è letto molto. È l’esatto contrario. Ha piuttosto qualcosa di commovente»). E le fisime somatiche incistate negli animi nobili.

Ossessioni

«Amo la bellezza più di ogni altra cosa. Ma la mia interpretazione di tale culto passa attraverso una certa ossessione per il ripugnante».
Eruttazioni e flatulenze, miasmi e masturbazioni non mancano mai, tra i suoi componimenti pamphlettistici. Espresse in maniera succinta, quasi per conto di un naturalismo darwiniano, le défaillance umane dividono in bassezze sia spirituali sia corporali. Le «masse di lardo» in particolar modo assillano Nothomb, abituata alle contemplazioni estatiche di elastica forza lipidica tipiche dei veri manzi di Kobe, quelli del sumo, che la interrogano sin da bambina: «Da noi, i ciccioni sono gentili e rassicuranti, gli allunghiamo qualche pizzicotto. Lì, in Oriente, è tutta un’altra storia: sono inquietanti, lottatori, enigmatici, di poche parole. Cosa gli sarà mai successo?» (curioso e gustoso, volendo, il collegamento con Eric-Emmanuel Schitt, in Le sumo qui ne pouvait pas grossir, 2009). Di lei, che dorme due ore a notte, divora Peter Greenaway assieme ai Garbage e adora la «preistoria tecnologica», in molti si domandano lo stesso.


Digestioni

Chi pubblicamente giura si alimenti a birra fermentata e panna semi-montata incontra quel sorriso fiammingo: «Non correggo. Dico sì a tutto, ormai». Nothomb, parimenti, non fa mistero di prediligere la frutta putrescente (banane e pere solo se marcite). O di procurarsi il vomito per mezz’ora a ogni risveglio tramite tè venefico. Il cibo a conti fatti la seduce, la terrorizza.

Bestiari (evangelici)

Come accade nei riguardi della fauna.
Scimmie mandarine, piccoli elefanti, cobra, cani telepatici. E le carpe, certo. Verso la cui bocca il disgusto crebbe tanto da farla svenire, in tenera età, dentro una torbida vasca zen, rischiando la pelle. In uno stato scevro da paura: «L’idea di morire mi dà conforto. Al culmine delle mie angosce, che sono quotidiane, mi consolo pensando che un giorno sarà tutto finito (…). Sono mistica (…). La verità? Avrei voluto essere Cristo».