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Raccontare un mondo fuori controllo. Intervista a Ali Millar

Una conversazione con la scrittrice scozzese, autrice di un romanzo d’esordio spiazzante che rivela le inquietudini segrete del nostro presente

La lettura di Ava Anna Ada di Ali Millar (SUR, 2025, traduzione di Martina Testa) è un’esperienza vertiginosa e totalizzante. Ricorda un film di David Lynch, ipnotico, onirico, a tratti allucinatorio, in cui si snodano realtà parallele e tuttavia comunicanti. Nulla è come sembra. Ogni cosa assume un duplice significato, al contempo reale e metaforico e l’intrecciarsi continuo dei punti di vista pone costantemente in dubbio la veridicità di quanto narrato. La storia si insinua nella mente in maniera anche disturbante, non vuole confortare il lettore ma spingerlo ad aguzzare lo sguardo sino a cogliere il significato delle crepe che si allargano sotto la superficie di una quotidianità «stabile» solo in apparenza. Le nevrosi di cui è pervaso il mondo contemporaneo vengono alla luce in queste pagine con una nitidezza così chiara che ferisce. Il libro è ambientato in un futuro distopico minacciato dalla catastrofe climatica, in cui le persone sono dotate di un «Valorimetro» in grado di misurare il loro contributo sociale in termini di efficienza. Lo scenario è orwelliano, eppure drammaticamente simile all’oggi: ritorna l’idea di una società della sorveglianza in cui i movimenti dei singoli sono posti sotto un controllo costante. Il cambiamento climatico assume le sembianze di un’apocalisse annunciata: si attende l’arrivo di un evento catastrofico chiamato «L’Onda». 

Ava Anna Ada di Ali Millar (SUR, 2025, trad. Martina Testa)

La lettura si sussegue in un incalzare frenetico delle voci delle due protagoniste: Ava e Anna, che intrecciano una relazione morbosa. Entrambe nascondono un trauma segreto e il loro incontro farà deflagrare le reciproche inquietudini. Il risultato è un viaggio delirante – e tuttavia follemente lucido – attraverso un mondo al collasso, raccontato da due donne sull’orlo di un tracollo psichico. L’urgenza della crisi climatica viene ribadita tramite la satira di un’umanità che, a un passo dall’estinzione, è distratta da altro. Infine tutto si infrange, inesorabilmente, come un’onda sulla riva. Ava Anna Ada è una vertiginosa parodia del presente in bilico in cui noi tutti viviamo. Ne abbiamo parlato con l’autrice, Ali Millar, in questa intervista.

Ho letto che parte della trama è nata mentre lavoravi per una ONG occupandoti di dati climatici e proiezioni climatiche e ti sei chiesta come mai nessuno parlasse dell’urgenza del cambiamento climatico. È nata così l’idea dell’Onda?
Sì, nel 2010 lavoravo per una ONG che si occupava di clima e quindi avevo sotto gli occhi tutti questi dati e queste proiezioni sul cambiamento climatico che mi terrorizzavano. Si parla di innalzamento delle temperature, spesso senza calcolare tutti gli eventi a catena che ne derivano: le migrazioni di massa dovute al fatto che certe zone siano divenute inabitabili; la mancanza di risorse alimentari e idriche che può scatenare ulteriori conflitti. Mi disturbava molto vedere l’evidenza e, al contempo, rendermi conto di quanto le persone fossero cieche di fronte alla minaccia concreta. Lavoravo per questa ONG più di una decina di anni fa, quando ancora non c’era molta sensibilizzazione sull’argomento. Inoltre ora è intervenuta un’altra aggravante: le persone hanno gli smartphone e trascorrono buona parte delle loro giornate guardando uno schermo, sono alienate dal reale. Penso che questo sia un altro modo di voltare le spalle al problema enorme del clima. C’era un’urgenza, quindi, che andava raccontata. 

Del romanzo colpisce la struttura, a partire dal titolo: Ava Anna Ada, tre protagoniste femminili, tre nomi palindromi. Si riflettono l’una nell’altra in un gioco di specchi, ma si rivelano anche narratrici inaffidabili. Di chi ci dobbiamo fidare in questo libro?
Di nessuno. Volevo che le voci narranti fossero instabili, quindi che il lettore non si potesse fidare di loro. Ciò deriva dal fatto che il mio primo libro sia stato un memoir sui Testimoni di Geova (The Last Days: A memoir of Faith, Desire and Freedom, Ndr), il gruppo religioso in cui sono cresciuta e di cui ho fatto parte per lunghi anni prima di riuscire a uscirne: ero consapevole, mentre scrivevo quel libro, di essere io stessa una narratrice inaffidabile, perché se altri avessero scritto quella stessa storia probabilmente l’avrebbero narrata in un’altra maniera. Quindi anche da qui nasce l’idea che Anna e Ava raccontino le stesse cose, ma da punti di vista diversi sino a farne quasi una storia differente. Intendevo dare alla narrazione stessa una forma instabile, ondivaga. Mi piacciono i libri che hanno al centro dei narratori totalmente inaffidabili, penso a Lolita di Nabokov o a Young Adam dello scozzese Alexander Trocchi, perché è vero che noi ci raccontiamo costantemente delle storie, ma raramente ci raccontiamo la verità.

Ambienti la narrazione in un futuro distopico, che però non è molto lontano dal nostro presente. L’apparenza è il vero valore. È parodia del contemporaneo, oppure realtà?
Bella domanda, secondo me è proprio il mondo in cui viviamo ciò che sto raccontando. Volevo che lo scenario fosse abbastanza vicino al mondo attuale e alla sua frenesia, ma anche leggermente diverso e distante, perché se avessi descritto esattamente la realtà per come è le persone non sarebbero riuscite a coglierne l’assurdo. Io invece volevo che potesse apparire con chiarezza sulla pagina l’assurdità delle nostre vite. Il pensiero che intendevo suggerire è: non è che, in fondo, l’apocalisse è già avvenuta? Non sto parlando di un’apocalisse climatica, ma di un’apocalisse morale. Forse in realtà siamo già oltre, il grande trauma che tutti si aspettano è accaduto attraverso la rivoluzione digitale. Se pensiamo al modo in cui gli schermi hanno modificato i nostri comportamenti e persino le relazioni umane, in fondo qualcosa è avvenuto. Se ragioniamo sull’apocalisse nella sua definizione più pura, ovvero come il momento in cui da un mondo si passa a un altro, ecco, forse noi siamo già passati a un altro mondo? Una sorta di mondo postumano, che va oltre l’umanità così come la conosciamo. C’è anche da dire che per arrivare a un’era utopica e ideale, a una presunta Età dell’oro, bisogna sempre attraversare una catastrofe, forse noi ora siamo in questa fase di transizione e rottura.

Ali Millar (https://www.alimillar.com/)

Tra i tanti temi affrontati c’è anche quello dell’anoressia. La malattia di Ada non viene mai nominata direttamente, compare attraverso perifrasi o metafore. È stata una scelta voluta?
La malattia è una metafora, sottintende due cose. La prima è che nell’iperconsumo di oggi finiamo per consumare noi stessi, stiamo razziando le risorse del pianeta e in qualche maniera indebolendo il nostro ecosistema. La seconda è che vivendo sempre davanti a uno schermo ci stiamo privando del mondo vero, quindi c’è una fame non saziata in noi di esperienze significative, di interazioni umane reali. Abbiamo fame di qualcosa che non riusciamo a nominare, perché non lo guardiamo negli occhi. Alla base dell’anoressia in fondo c’è una fame, ma una fame che va nella direzione sbagliata, una fame non compresa o non elaborata. Questo in fondo è quello che accade con il nostro comportamento di iperconsumo: lo neghiamo, non ne ammettiamo l’evidenza. Non ho voluto nominare l’anoressia direttamente anche per rispetto verso le persone che hanno nella propria famiglia o tra i loro cari chi soffre di questa malattia: è qualcosa che è lì e non ti va troppo di nominare o categorizzare, persino chi ne è affetto tende a negarla. L’idea dell’anoressia inoltre si associa all’atmosfera cupa del libro, così come c’è una natura minacciosa, ribelle, non rassicurante, c’è anche il corpo umano che rifiuta se stesso.

Attraverso il personaggio di Anna esplori anche il lato oscuro della maternità. «Non sapevo quando era l’ultima volta che ero stata dentro me stessa, avere dei figli porta a questo». Pensi che sia un tema ormai oggi sdoganato? Ne parlano tante scrittrici, come Annie Ernaux e Rachel Cusk.
Io credo, in realtà, che se ne parli ancora troppo poco. Si discutono soprattutto gli svantaggi della maternità rispetto alla carriera lavorativa di una donna, oppure si tratta la maniera in cui la maternità può mettere in crisi o trasformare il rapporto di una donna con gli uomini; ma non si parla abbastanza della difficoltà reale, concreta, che comporta essere una madre giorno dopo giorno, nella quotidianità. Vorrei invece che il focus fosse sulla nuova realtà in cui ti catapulta il fatto di essere madre. Sono contenta che nomini Cusk perché è una delle mie autrici preferite, una scrittrice audace che non ha paura di arrivare in fondo all’abisso con la sua scrittura. E anche io vorrei fare questo, anche se oggi il rischio è di incorrere in una sorta di autocensura, spesso il pubblico confonde lo scrittore con la storia che scrive e di conseguenza magari, come autori, si tende a non scrivere di certi argomenti spinosi per paura di essere male interpretati. Io ancor più che dal concetto di maternità sono affascinata dalle figure delle madri, che cosa comporta e che cosa significa l’essere madri, il modo in cui questa condizione riesce a trasformare una donna.

The Last Days di Ali Millar (Penguin Random House, 2022)

È interessante il terzo punto di vista, quello del «Noi». Chi volevi rappresentare? Sembra un punto di vista non umano, io ho pensato agli Dei oppure a una società aliena.
Volevo proprio che fosse una voce ambigua e ciascuno ne potesse dare una sua interpretazione. Ho pensato persino che potessero essere gli uomini del futuro che scavano nei resti dell’apocalisse passata, oppure che fosse il fantasma di Ada che dall’aldilà offre il proprio punto di vista sulla vicenda. Mentre scrivevo non mi si è mai rivelato chi era questo Noi. A me sembra di non inventare nulla quando scrivo, è come se stessi ascoltando qualcosa, seguendo una traccia preesistente o una voce. Penso che questo «Noi» sia il filo rosso che tiene insieme tutto il libro e amo il tono poetico della narrazione quando si piega al racconto, al suo fluire, attraverso queste frasi lunghe e quasi inarrestabili. La scrittura diventa come un’onda, appunto.

In una precedente intervista hai dichiarato «Misurarci numericamente è qualcosa che ci ruba l’anima». Che cosa pensi della moderna società dei social? La nostra è una connessione fittizia, bugiarda?
Sì ed è il motivo per cui ho voluto che Anna fosse un’influencer. Volevo ragionare sui valori numerici, su che cosa significa avere un certo numero di followers. È un meccanismo, a ben vedere, che quasi ti trasforma nel leader di una setta e io che sono cresciuta all’interno di una setta, i Testimoni di Geova, lo riconosco bene. I social network hanno il medesimo potere di persuasione e anche di controllo. Per me sono uno strumento a volte necessario per l’autopromozione dei miei libri e del mio lavoro, ma ho imparato a non esserne ossessionata: ad esempio tendo a non controllare quanta gente mi segue o visualizza le mie stories. I numeri ci danno una sorta di delirio di onnipotenza, che è dannoso. Penso che questo sia un male del contemporaneo – e bisogna imparare a riconoscerlo.





Immagine di copertina: Ali Millar © Edizioni SUR

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