Comma 22

Tutta l’arte è propaganda: George Orwell tra politica e letteratura




«Questa è un’età politica. Guerra, fascismo, campi di concentramento, manganelli, bombe atomiche ecc., sono tutte faccende di cui scriviamo anche quando non lo facciamo esplicitamente. Non possiamo farci nulla. Quando si è su una nave che affonda, i pensieri si concentrano sulle navi che affondano.» Scrive così George Orwell in un articolo uscito nel luglio del 1948. Figura tra le più note del Novecento letterario grazie ai suoi romanzi, lo scrittore britannico è stato in realtà anche un autore prolifico di articoli e saggi brevi, rimasti però troppo spesso in ombra. Ora, con la scadenza dei diritti sulle sue opere, non solo si affacciano in libreria nuove traduzioni dei suoi testi più celebri, ma spunta anche qualche raccolta di scritti minori come Tutta l’arte è propaganda! (GOG edizioni), in cui vengono raccolti sette articoli risalenti agli anni Quaranta sul rapporto tra politica e letteratura.

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È un ritornello che risale alla notte dei tempi, quello della libertà dello scrittore in rapporto al potere. Dagli intellettuali vissuti al tempo degli imperatori romani, passando per il mecenatismo del Rinascimento o l’oppressione del cattolicesimo post-tridentino, la letteratura come viatico di idee, dissidenze, espressioni contrarie è da sempre in difficile relazione col potere e con le sue manifestazioni. Non da meno è il Novecento che, attraverso le parole di uno scrittore disincantato come Orwell, si classifica tra i momenti più difficili di questo percorso; naturalmente a causa dei totalitarismi – bersaglio prediletto e nera ossessione dell’autore – ma anche, più in generale, delle ideologie che innervano il suo contemporaneo.
Proprio alle ideologie si deve ciò che Orwell rileva agli inizi degli anni Quaranta: sul piano letterario è avvenuta una progressiva «scomparsa dell’estetica», sommersa dalla propaganda politica. La letteratura dei decenni precedenti era stata costruita prima attorno a principi estetici (come per Pater, Ruskin, Rossetti), poi dalle innovazioni tecniche del modernismo (Eliot, Pound, Woolf). A partire dagli eventi storici degli anni Trenta, invece, è la politica a imporsi necessariamente come pietra di fondazione, termine di paragone, specchio ideologico della scrittura:

«In un mondo in cui fascismo e socialismo si fronteggiavano, ogni individuo pensante sentiva la necessità di schierarsi, e i sentimenti dovevano trovare la loro strada non solo negli scritti ma anche nei singoli giudizi sulla letteratura. La letteratura doveva diventare politica, perché qualsiasi altra cosa avrebbe comportato disonestà intellettuale.»

Non si tratta solo di un problema che riguarda la scrittura creativa; anche quella critica viene inclusa nel ragionamento dell’autore, che problematizza così l’intero sistema letterario. Come giudicare un testo, in un quadro simile? Valido in quanto schierato dalla “parte giusta”? Oppure valido perché ben scritto, anche se non dichiaratamente partigiano? Quale ruolo si assume la critica in questo contesto? Orwell in effetti non dà risposte («la scrupolosità estetica non è sufficiente, ma neanche la rettitudine politica»), ma innalza il proprio disorientamento a strumento di dubbio, con l’intenzione di non lasciare le complessità dei fenomeni osservati al taglio netto delle dottrine politiche. Ne risulta una crepa profonda, forse insanabile, tra la sua anima di socialista e quella di scrittore.

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Secondo Orwell infatti, troppo spesso accade che la scrittura propagandistica risulti, a sua volta, latrice di una realtà mistificata. L’ideologia reca in sé, sia da destra che da sinistra, un’indifferenza verso la verità oggettiva, «incoraggiata dal fatto che il mondo è suddiviso a compartimenti stagni, rendendo difficile capire anche gli eventi più eclatanti sui quali è ragionevole nutrire qualche dubbio». In questo rapporto tra dottrine, narrazione e verità, Orwell dipinge un orizzonte in cui il singolo è strattonato da visioni della realtà autoassolutorie, vittimistiche e parziali. Il risultato è uno smarrimento gnoseologico molto simile a quello di cui facciamo esperienza quotidianamente nel nostro presente. La complessità di una realtà che ai tempi di Orwell si faceva “mondiale” – oggi “globale” – risultava e risulta tutt’ora incessantemente semplificata da letture ideologiche (oggi aggiungeremmo il prefisso “post-” ) che, se hanno fatto approdare il nuovo millennio al concetto di post-verità, attraverso le parole dell’autore sembrano invece guidare il Novecento a un clima di “pre-verità”; laddove prima che si possa elaborare un ragionamento obiettivo su un fatto, l’ideologia interviene ad eliminarne i tratti tortuosi e complicati:

«I fatti essenziali vengono nascosti, le date alterate, le citazioni rimosse dal loro contesto e modificate per snaturarne il significato. Gli avvenimenti che si vorrebbe non fossero accaduti vengono ignorati e infine negati. Nel 1927 Chiang Kai-shek bruciò vivi centinaia di comunisti, eppure nel giro di dieci anni era uno degli eroi della sinistra. Il riallineamento della politica mondiale lo aveva portato in campo antifascista e così si pensava che il rogo dei comunisti “non contava” o, forse, non era mai accaduto.»

Quando il metro del singolo diventa il mondo intero, sostiene Orwell, ogni fede, politica e non, rimuove le contraddittorietà che scaturiscono dall’agire in tale dimensione. L’ideologia altera i fatti in proprio favore e, estromettendo il singolo da una comprensione ragionata dei fenomeni complessi, lo espone al fascino di teorie che lo aiutano a decodificare, in maniera semplificata ma apparentemente logica, quanto lo circonda.
In buona sostanza, lo smarrimento gnoseologico si volge in un radicalismo, tradotto poi nelle varie forme di nazionalismo di cui Orwell propone in questo volume un’accurata tassonomia. E così, gli Stati totalitari sorti da questi nazionalismi richiedono una continua alterazione della verità oggettiva che giustifichi la loro esistenza alimentando un clima di manipolazione dei fatti che, in un circolo vizioso, non fa che rinfocolare il nazionalismo stesso.

«Il nazionalista è spesso in qualche modo disinteressato a ciò che accade nel mondo reale. Quello che vuole sentire è che la propria “unità” sta avendo la meglio su un’altra, meglio se umiliando l’avversario, rinunciando ad analizzare i fatti per vedere se questi gli danno ragione.»

Contro i nazionalismi di ogni genere, il compito dello scrittore è quello di rintracciare una verità, di tendervi anche quando nell’epoca moderna essa risulta sempre più irreperibile, e di dubitare anche «quando raggiunge il confine con l’eresia». Tuttavia, in un’epoca “politica” come quella di Orwell, tale posizione si scontra inevitabilmente con la necessità di schierarsi. Come è possibile allinearsi nettamente in favore di una parte e allo stesso tempo continuare ad esercitare il dubbio? Che diventa: come può uno scrittore mantenere la propria autonomia pur facendo parte di una fazione politica e partitica e pur agendo in comunità, senza ritirarsi nella celeberrima torre d’avorio? Per Orwell la risposta è complessa e indefinita, eppure una direttrice è chiara: lo scrittore deve essere militante ma in qualità di cittadino, non di scrittore. Come un soldato irregolare e sgangherato che si accompagna al fianco di un battaglione ben compatto, lo scrittore può lottare per una causa condivisa, ma deve preservare il proprio diritto all’autonomia in ciò che produce. Solo così la letteratura manterrà quello statuto cogitante, quella prospettiva sghemba da cui osservare trasversalmente gli eventi, conservando una postura autocritica da contrapporre a quella autoassolutoria dell’ideologia, rilevando e restituendo quelle contraddizioni che secernono dal passaggio dalla teoria alla pratica. E se ciò vale per ogni fazione politica, nel discorso di Orwell tale ragionamento vale tanto più per le sinistre, che troppo spesso nella Storia hanno ignorato la realtà dei fatti in favore di una cronaca retorica e cieca.

Tutta l’arte è propaganda! restituisce così la fisionomia di un autore disilluso dalle narrazioni ufficiali e che, fuori da esse, esercita costantemente un’analisi dubitante e minuziosa dei fatti e dei fenomeni, non di rado arrivando a preconizzare eventi del futuro (il crollo del mercato del libro, la Guerra fredda e le sue conseguenze, l’Unione Europea ecc.).
Nel riaffermare lo statuto ideologico dell’intellettuale come autonomo e contraddittorio, Orwell evita di nascondersi dietro alle maschere dell’impegno o del disimpegno. I suoi rovelli e le sue fissazioni lo conducono piuttosto a una difesa appassionata e intensa della scrittura, vista come uno tra i più alti prodotti della razionalità umana e dell’autonomia dell’individuo: «a volte, se uno scrittore è onesto, i suoi scritti e le sue attività politiche possono anche contraddirsi a vicenda. Ci sono occasioni in cui ciò è chiaramente indesiderabile, però il rimedio non è mistificare i propri impulsi, bensì tacere».