«Quello di Bugonia è un mondo in cui il controllo sembra sfuggire e dove il desiderio di ordine si scontra con l’imprevedibilità dell’esistenza». Nel suo ultimo film, in Italia al cinema da qualche giorno, il regista greco Yorgos Lanthimos prosegue il suo viaggio cinematografico attraverso i mondi che conosce bene, quelli sospesi tra il grottesco e il reale, tra satira e paranoia contemporanea.
Dopo il debutto alla regia nel 2001 con O kalyteros mou filos, Lanthimos ha raggiunto la fama internazionale nel 2009 con Dogtooth, nominato all’Oscar come miglior film straniero. I suoi film successivi sono Alps (2011), che gli è valso il premio per la migliore sceneggiatura a Venezia, e The Lobster (2015), che ha vinto il Premio della giuria a Cannes e ha ricevuto una nomination all’Oscar. Ha poi diretto Il sacrificio del cervo sacro (2017) e La favorita (2018), aggiudicandosi dieci nomination agli Oscar. Dopo Povere creature! per cui ha vinto il Leone d’Oro nel 2023, e Kinds of Kindness nel 2024, con Bugonia porta sullo schermo un thriller psicologico che riflette con inquietante precisione le nostre paure e ossessioni, la fragilità delle relazioni umane e delle nostre convinzioni.
Il film racconta di Teddy (Jesse Plemons), apicoltore e impiegato in una grande azienda di spedizioni, e del cugino Donald (Aidan Delbis), immersi in una quotidianità fatta di manie del complotto e solitudini. Teddy si convince che l’umanità stia correndo verso l’estinzione e che Michelle Fuller (Emma Stone), potente CEO di una multinazionale farmaceutica, sia in realtà un’aliena venuta a distruggere la Terra. Teddy è convinto che la scomparsa delle api annunci la fine dell’umanità e, deciso a provarlo, rapisce Michelle Fuller, che identifica come un’imperatrice aliena smascherata grazie a un metodo che considera infallibile. Tra il rapitore e la sua prigioniera nascerà un confronto intenso, tanto fisico quanto psicologico.
Il titolo stesso del film evoca il mito classico della bugonia: secondo le Georgiche di Virgilio, dalla carcassa di un toro potevano nascere delle api, simbolo di rigenerazione che Lanthimos trasporta nel mondo contemporaneo dove la follia convive con la razionalità e il confine tra ciò che appare e ciò che è reale si fa sottilissimo. Se nel mito la morte del bue portava a una nuova vita ordinata, cioè le api, nel film di Lanthimos l’esperimento umano fallisce: la decomposizione non genera armonia, ma alienazione. L’atto di violenza di Teddy è, in fondo, un sacrificio senza redenzione. La sceneggiatura di Will Tracy, liberamente ispirata al film coreano di Jang Joon-hwan del 2003 Save the Green Planet, intreccia la visione sontuosa di Lanthimos alla sua poetica: quella del cinema come indagine sulle dinamiche dell’assurdo e del reale.
Ne abbiamo parlato con il regista.

Quali elementi della sceneggiatura l’hanno colpita maggiormente e come ha immaginato che Bugonia potesse essere recepito dal pubblico contemporaneo?
Quando ho letto il copione è stato subito chiaro che c’era molto più di quanto apparisse in superficie. Era un testo complesso, intrigante e molto divertente, che mi ha fatto immaginare istantaneamente come trasformarlo in immagini e ritmo cinematografico. Non sono particolarmente analitico all’inizio del processo: capisco istintivamente se c’è del potenziale da esplorare. Dopo aver realizzato il film, comprendo ancora meglio i temi e la loro rilevanza attuale.
A colpire, guardando il film, è il forte contrasto tra la tensione psicologica e il senso del comico che traspare. Come pensava potesse essere percepito dagli spettatori?
Le bolle digitali, la paranoia, il divario tra persone emergono nei personaggi e nelle loro situazioni, lasciando però spazio allo spettatore per esplorare queste dinamiche secondo la propria sensibilità, per interrogarsi sulle proprie convinzioni e osservare come, a volte, ciò che sembra evidente possa essere incredibilmente sfaccettato. Nelle mie intenzioni, in questo senso Bugonia è un invito a riflettere, a ridere e a farsi sorprendere.
Parlando dei personaggi, Teddy e Don agiscono con motivazioni estreme, e Michelle oscilla tra autorità e vulnerabilità. Come è riuscito a bilanciare credibilità e complessità morale?
Ogni personaggio è stratificato. Teddy, pur compiendo azioni estreme, rimane comprensibile perché le sue paure e rabbie hanno radici profonde: il trauma, l’ingiustizia, la perdita. Jesse Plemons ha portato sfumature incredibili, rendendo Teddy tragico e reale. Michelle, interpretata da Emma Stone, all’inizio appare potente e autoritaria, ma gradualmente mostra vulnerabilità e astuzia: Emma ha saputo trovare un equilibrio straordinario, camminando sulla sottile linea tra ciò che il personaggio rappresenta e ciò che realmente è, tra verità e finzione. Don, interpretato da Aidan Delbis, diventa il cuore morale della storia: sensibile, onesto e profondamente legato a Teddy, rappresenta il punto di vista dello spettatore e il senso di ambivalenza etica di fronte a situazioni estreme.

Nel cast, accanto ad attori esperti come Emma Stone e Jesse Plemons, c’è il debuttante Aidan Delbis. Come ha affrontato la costruzione del cast?
Il casting di Emma e Jesse è stato piuttosto diretto. Ho inviato il copione a Emma subito dopo averlo letto: la sua reazione è stata immediata, entusiasta. Con Jesse avevamo già lavorato su Kinds of Kindness, un’esperienza intensa che ci ha permesso di costruire fiducia reciproca e una comprensione profonda dei personaggi. Non l’ho considerato più impegnativo che lavorare con qualsiasi altro attore. La presenza di Aidan ha creato un’energia particolare sul set: essendo non professionista, ha portato spontaneità e autenticità che hanno arricchito le relazioni tra i personaggi. Il contrasto tra la sua naturalezza e l’esperienza di Emma e Jesse ha generato dinamiche incredibilmente vive e inaspettate, facendo emergere momenti di verità emotiva e tensione reale, sia comica che tragica.
Quanto è stata voluta la scelta di un attore autistico come Delbis, che interpreta un personaggio autistico?
Per il suo personaggio volevo un attore con una sensibilità diversa, capace di osservare il mondo in modo unico. Per il suo ruolo ho volutamente scelto una persona neuro-divergente perché sapevo che avrebbe apportato una naturale chiarezza e un’imprevedibilità senza filtri al personaggio. Quando l’ho incontrato ho pensato semplicemente: è lui. Già dalla prima inquadratura si capiva che aveva qualcosa di magnetico. Quando l’ho incontrato a Los Angeles per testare la camera VistaVision (formato cinematografico a 35 mm e schermo panoramico, ndr), una macchina grande e rumorosa che avrebbe potuto intimorire chiunque, Aidan si è dimostrato autentico, onesto e immediatamente in sintonia con il mondo del film, diventando il cuore morale della storia e il contrappunto tra mondi in conflitto.
A proposito di VistaVision, in che modo questa scelta tecnica ha influito sul modo di raccontare il film?
VistaVision crea un’immagine immersiva e monumentale, perfetta per il microcosmo del seminterrato ad esempio. La macchina è enorme e rumorosa, quindi le riprese richiedono attenzione e concentrazione, ma il risultato è straordinario: ogni gesto e ogni espressione dei protagonisti risaltano in modo quasi scultoreo. La claustrofobia dello spazio diventa tangibile, ma allo stesso tempo il formato conferisce una grandiosità visiva che amplifica la tensione e la presenza scenica dei personaggi.

Ha accennato al seminterrato di Teddy. Un luogo che funge da spazio quasi sperimentale, in cui i personaggi affrontano le loro ossessioni e i loro conflitti interni.
Il seminterrato è un ambiente contenuto che funziona quasi come un esperimento scientifico: i personaggi sono come topi da laboratorio immersi in ansie, paure e realtà farsesche della vita moderna. Ma questo “esperimento” diventa presto uno specchio deformante, non solo per Teddy, Don e Michelle, ma anche per chi guarda. Limitando lo spazio fisico, concentriamo l’attenzione sui personaggi e su ciò che rappresentano, e allo stesso tempo mettiamo in discussione le nostre percezioni: in Bugonia ciò che sembra ovvio all’inizio si rivela spesso molto più complesso. Teddy appare inizialmente un folle complottista, ma emergono gradualmente motivazioni profonde: una madre coinvolta in un trial farmaceutico, una vita segnata dall’abbandono, una rabbia reale verso ingiustizie concrete. Il seminterrato nel quale si muovono diventa così un microcosmo della società contemporanea nella quale viviamo, in cui cui ogni dinamica, scelta e confronto riflette tensioni universali.
Come ha collaborato con Jerskin Fendrix, che, oltre a firmare la colonna sonora del film, appare con un piccolo ruolo, e con il montatore Yorgos Mavropsaridis per far sì che musica, suono e montaggio riflettessero simultaneamente le emozioni estreme dei personaggi e la gravità della missione che Teddy e Don credono di dover portare a termine?
La musica di Jerskin è fondamentale per il film. Il suo lavoro con la London Contemporary Orchestra ha permesso di creare un suono intenso, a tratti spaventoso, che accompagna la tensione narrativa del racconto. Infatti la colonna sonora alterna sonorità adolescenziali, rabbiose e epiche, che accompagnano il film nella sua doppia realtà tra follia e rischio apocalittico. Fendrix ha trovato un equilibrio tra il thrash adolescenziale, l’angoscia, la rabbia e l’epicità, rispecchiando perfettamente Teddy e Don: sono convinti di salvare il mondo, ma lo fanno con estrema emotività, rabbia e imprevedibilità. Collaborare con Yorgos Mavropsaridis sul montaggio è stato altrettanto essenziale: abbiamo costruito le scene in modo che la musica arrivasse come un colpo viscerale, alternando punti di calma a esplosioni sonore, riflettendo le prospettive spesso contrastanti dei protagonisti. L’obiettivo, sia per la musica che per il montaggio, era quello di immergere lo spettatore nella realtà soggettiva dei personaggi.
Claustrofobia, tensione, humor nero e riflessione su paure e ossessioni contemporanee, sono molte le emozioni che il suo film evoca. Personalmente quale tipo di esperienza vuole che lo spettatore viva entrando nel mondo di Bugonia?
Voglio che lo spettatore rida, pianga, sospiri e si confronti con ciò che vede. Bugonia è allo stesso tempo comico, tragico, disturbante: un’esperienza completa che si percepisce appieno solo in sala. La combinazione di ritmo, angoscia, ironia e tensione dei personaggi crea un film da vivere come esperienza collettiva, dove il cinema diventa comunità. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni nota musicale contribuisce a immergere chi osserva in un contesto familiare ma al tempo stesso straniante, dove il surreale rispecchia la realtà contemporanea.