Camera Obscura

Una giornata a casa di Gianni Berengo Gardin

É una mattinata d’autunno a Milano, una di quelle giornate nelle quali la pioggia non dà tregua ai passanti che scappano veloci tra le vie della città, fra smartphone che si bagnano, ombrelli che si rivoltano, appuntamenti ai quali si arriverà irrimediabilmente in ritardo. Mentre mi avvicino al citofono del civico che mi sono appuntato dietro al biglietto della metro, penso che l’intero quartiere si presterebbe bene a uno di quei bianco e nero ai quali Gianni Berengo Gardin ci ha abituato, a quella spazialità bicolore che ha fatto la storia della fotografia attraverso lavori come Morire di classe (1969), Un paese vent’anni dopo (1976), Dentro il lavoro (1979) e In treno attraverso l’Italia (1991).
A questo penso, mentre ci apre le porte di casa sua, accogliendoci con un sorriso che ci accompagnerà per tutta l’intervista. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, Berengo Gardin è la memoria fotografica del Novecento italiano, catturato attraverso la lente della sua inseparabile Leica a pellicola; parlare con lui significa dunque sfogliare l’album degli ultimi decenni, impressionati su pagine di grande fotografia ma anche di lotta, di impegno e di etica, passando attraverso gli incontri con personalità come Henri Cartier-Bresson, Cesare Zavattini o Franco Basaglia. Quasi settant’anni di scatti fotografici, in una costante elaborazione del reale, una ricerca senza sosta del presente e delle sue tracce riflesse sulla superfice irregolare della vita quotidiana degli esseri umani. «Ho molte cose da raccontarle» mi confessa, mentre accendo il registratore e la sua Leica sembra sorvegliarci severa dalla scrivania dello studio.

Le sue immagini hanno costruito il nostro immaginario del Dopoguerra. Eppure, anche lei deve aver iniziato da zero, costruendosi a sua volta uno sguardo.
Penso alla mia prima fotografia. Vista ora, posso dirle che era orribile. Mi trovavo a Lugano al Parco Ciani, e ho scattato il riflesso di un albero nel lago: una scemata. Però è partito tutto da lì, avevo vent’anni. In seguito ho fatto sei anni da fotoamatore, e poi ho deciso di diventare professionista. Non posso rinnegare le foto che ho fatto in quegli anni, ma posso dirle che erano piuttosto brutte: mi ero messo in testa di voler fare il pittore con la macchina fotografica. Poi grazie a uno zio che stava in America ho avuto modo di sfogliare i primi libri fotografici, come quello della Farm Security Administration, dell’AEF, di Dorothea Lange o di William Eugene Smith. Sfogliando quei volumi, ho capito che la fotografia poteva essere un lavoro serio, e il mio stile è molto cambiato. Ho subito iniziato a fotografare seriamente, formando il mio sguardo.

La fotografia per lei diventa una missione.
Fu in quel momento che decisi di fare il salto, diventando professionista. Avevo già moglie e figli, c’è voluto coraggio ad abbandonare un lavoro sicuro. Fu un salto nel buio. I primi anni ho fatto di tutto, anche i matrimoni; poi sono riuscito a incanalare il mio lavoro nella direzione che mi interessava. E dopo 65 anni sono ancora qui.

Berengo Gardin
Berengo Gardin

La sua Leica è sempre con lei, e scatta ovunque vada. É una necessità, un modo di esprimersi?
Ho cominciato a fotografare perché avevo difficoltà di linguaggio. A scuola, l’italiano era l’unica materia in cui andavo bene, ma ero timidissimo e comunicare con l’esterno per me era molto difficile. Nella fotografia ho trovato un mezzo straordinario per esprimermi con gli altri. Inizialmente ho provato a lavorare con i giornali, ma non mi hanno mai davvero preso in considerazione come fotografo. Con l’editoria mi è andata meglio, ho firmato più di 250 libri, l’ultimo pochi mesi fa su Roma. Ho fatto anche molto lavoro industriale negli anni Settanta, lavorando per aziende come Olivetti, IBM, Ansaldo. Non ho mai fotografato i prodotti finiti, erano a tutti gli effetti dei reportage in fabbrica: non mi interessavano le macchine ma solo il lavoro dell’uomo.

Neppure il colore le interessava molto.
Mi definisco sempre come un fotografo di bianco e nero, il reportage per me ha quell’estetica. Ho fotografato a colori solo poche cose. Tutti i miei maestri fotografavano in bianco e nero, e la mia macchina del cuore è ben presto diventata la Leica. Ho la sensazione che il colore sia fuorviante: in uno scatto complesso, un occhio azzurro può distogliere l’attenzione dal messaggio. Il bianco e nero, invece, mostra la verità del volto.

Questa capacità di “mostrare” avvicina la fotografia alla forma racconto?
Con cento fotografie puoi raccontare come farebbe un romanzo. Un libro fotografico è un lungo racconto; ciò non si può dire ad esempio dei quotidiani, che hanno troppo poco spazio. Credo ci sia un legame tra letteratura e fotografia. Ad esempio, amo Simenon perché inserisce nelle sue pagine descrizioni molto dettagliate di ambienti e personaggi. Già da bambino amavo leggere, andavo a comprare i libri di Jules Verne e Emilio Salgari. All’epoca i libri avevano le pagine attaccate, il sabato mattina compravo il libro e la sera c’era il rituale di tagliare tutte le pagine con il tagliacarte. La domenica iniziavo la lettura, quelle pagine mi facevano sognare. Subito dopo la guerra sono diventato un affezionato lettore anche dei romanzieri americani, divoravo Faulkner, Hemingway, Steinbeck, Dos Passos. Da loro ho imparato cosa significhi avere uno sguardo. Si ritiene che la pittura sia la forma d’arte più vicina alla fotografia: non sono assolutamente d’accordo, credo piuttosto lo sia la letteratura. Ti ispira, ti aiuta a capire.

Berengo Gardin

Ma oggi i libri non vanno per la maggiore.
Infatti oggi i giovani vogliono fare solo fotografia d’arte, sui biglietti da visita scrivono “Artista Fotografo”. Non mi interessa. Non sono mai voluto passare per un artista; la fotografia per me è un fatto culturale, non artistico. È una documentazione. Fra duecento anni, forse, qualcuno sfoglierà i miei libri e dirà «Ecco come si viveva in Italia a quei tempi». Quando mi sono trasferito a Milano, sono andato a trovare Ugo Mulas. Mi faceva vedere le sue fotografie, io ero un fringuellino e continuavo a dire «Che bella questa! Che bella quella!» e lui mi disse che se avessi detto ancora che una sua foto era bella mi avrebbe cacciato. Diventai tutto rosso. Gli dissi «Scusi maestro, cosa dovrei dire?». E lui: «Una fotografia bella può essere esteticamente ben composta e tecnicamente corretta, ma non racconta niente. Una fotografia è buona, seppure quando è mossa o un po’ sfocata, quando racconta qualcosa». Da quel momento ho sempre cercato di fare fotografie buone anziché belle. In questa casa tengo tutti i provini. Sono circa un milione e ottocentomila foto. Su queste, ce ne saranno forse cinquecento buone.

Mulas è soltanto uno fra i tanti incontri che ha fatto durante la sua carriera. Da ognuno, ha saputo trarre una lezione. Che importanza hanno avuto gli anni parigini nella sua formazione?
Ero un pessimo studente, non ne volevo sapere di studiare, così mio padre mi disse che avrei dovuto lavorare. Nel 1953 mi sono trasferito a Parigi, prima come cameriere e poi in un grande albergo. Lavoravo dalle sei di mattina a mezzogiorno, avevo tutto il pomeriggio libero. Mi sono disegnato la cartina di Parigi a quadretti, e ogni pomeriggio la esploravo, un quadretto per volta. Ho conosciuto Robert Doisneau; non posso dire che fossimo molto amici, ma un giorno abbiamo litigato perché gli dissi che secondo me le sue fotografie erano troppo costruire, troppo in posa. La prese piuttosto male. Poi ho conosciuto Willy Ronis, che mi ha insegnato tutte le regole elementari della fotografia: il mestiere, la tecnica, il pensiero. Inizialmente gli portavo la borsa, poi siamo diventati amici e andavamo in giro insieme e scattare nei vecchi quartieri della città.

Niente male per un timido ragazzo italiano che si affaccia sulla Ville Lumière.
Era la Parigi di Yves Montand e di Juliette Greco, era molto viva. Conoscevo una signora che teneva un salotto ogni giovedì, faceva incontri letterari. Io ci andavo anche se ero solo uno stronzetto: mi mettevo in un angolino, non parlavo una sola parola di francese ma osservavo tutto. Qualche volta appariva Sartre; un giorno abbiamo iniziato a parlare del più e del meno, con un linguaggio molto stentato. Così ho scoperto che entrambi avevamo una grande passione per Hemingway. Poi mi confessò che gli piacevano molto i film dei cowboy, ma che nessun amico voleva andare con lui al cinema a vederli. Allora presi la palla al balzo e mi offrii di accompagnarlo. Così siamo stati al cinema cinque o sei volte; quando si annoiava al salotto mi diceva «Berengò, on y va!» e io sapevo dove saremmo andati. Pagava sempre lui il cinema, io ero un ragazzino squattrinato.

Che fotografava le persone che si baciavano.
Forse non sa che in quegli anni in Italia era proibito baciarsi per strada. Il primo giorno a Parigi vidi tutti avviluppati che si baciavano sulle panchine, pieni di passione. Dopo solo quattro ore in città, prima ancora di disfare la valigia, avevo fotografato uno dei miei baci più famosi. Pensi che, ancora oggi, mi è rimasta questa mania di fotografare i baci. Se vedo una coppia che si bacia, mi viene naturale scattare una foto.

Oggi la magia di quel mondo vive riflessa negli scatti di Henry Cartier-Bresson. Si sente vicino alla sua poetica?
Lui ha cambiato per sempre la fotografia. Un giorno mi ha fatto una dedica scrivendo «Con ammirazione»: l’ho incorniciata, è una grande soddisfazione. Cartier-Bresson ha rivoluzionato la fotografia, così come anni dopo toccherà a Luigi Ghirri. Ha teorizzato il valore dell’istante. Spesso, per me, oltre all’istante c’è anche la componente della fortuna. Prenda il mio famoso scatto del Vaporetto: se dietro al riflesso del vetro ci fosse stato uno vestito di bianco, non ci sarebbe stato quell’effetto particolare. Le foto più belle sono così, fortuite. E il punto non è stare ad aspettare il momento giusto. Io non aspetto più di tre o quattro minuti: se non succede quello che voglio, mi stanco e me ne vado.

Anche questo, forse, fa parte nella poetica dell’istante. Cosa pensa quando la definiscono poeta?
Io non sono un poeta. E non voglio passare nemmeno per un artista. Sono un artigiano che cerca di fare il suo lavoro, nel miglior modo possibile. Alcune volte ci riesco, altre meno. Mi sento più vicino all’artigiano di bottega che risuola le scarpe, o a un idraulico. La fotografia per me non è arte, è cultura e documentazione della realtà.

Berengo Gardin

E infatti i suoi scatti hanno raccontato i mutamenti del nostro Paese, abbracciando lotte, movimenti e istanze in un’Italia che chiedeva alla sua classe dirigente un cambiamento. Penso, ad esempio, a Morire di classe. Come nacque?
Tutto partì da Basaglia, una persona eccezionale. Gli proposi di fare un libro partendo dalle fotografie che avevo scattato nei manicomi insieme a Carla Cerati, e lui accettò. Aveva solo un dubbio: non voleva esibire il dolore di quelle persone fragili. Ne abbiamo discusso molto, e ne concludemmo che il male di pochi poteva diventare il miglioramento della condizione di molti. Nacque così Morire di classe, che fu un grande successo con ben sei edizioni. Fu anche distribuito in Parlamento per fare approvare la legge 180: è stato utile per raggiungere quel passo di civiltà. Certo, non fu facile scattare dentro i manicomi. Mi impressionarono le condizioni nelle quali erano tenuti i malati. Decisi di non fotografare la malattia, ma le condizioni della detenzione. Erano pratiche già proibite per legge, ma tutti se ne fregavano. La nostra denuncia fu importante.

In seguito, sarebbero arrivate altre denunce. Penso ai lavori sui rom, sulle condizioni del proletariato in Dentro le case, sugli ex carcerati di Genova, sulle grandi navi di Venezia. Il suo lavoro è politico?
È sociale. Fotografare i poveri o i ricchi non cambia. Per me, tutto il lavoro è analisi del sociale. Quando ero giovane ero comunista, e da buon comunista mi interessava quel tipo di reportage. Anche se è passato di moda, mi sento comunista ancora oggi, ovviamente parlo del comunismo italiano, di Berlinguer. Non capisco come si possa cambiare politicamente con tanta facilità: se uno nasce comunista rimane comunista, così come se uno nasce biondo, rimane biondo.

Ma oggi è ancora possibile inseguire una fotografia impegnata, che guardi alla nostra società?
Ora è tutto finito. Il telefonino è il più grande nemico della fotografia, i giornali ti pagano 15 euro uno scatto, non è più un mestiere. È vero che viviamo in un’epoca piena di immagini, ma questo assedio è un bene e un male. C’è qualche buona fotografia, ma c’è anche molta spazzatura. Le racconto un aneddoto. Mio nipote è stato un mese in Svezia e gli ho chiesto di farmi vedere le sue foto. Erano tutti scatti alla ragazza, alle scarpe, ai vestiti. Ma della Svezia nessuna traccia. Oggi è tutto un problema di sguardo. Il digitale cambia la mentalità dei fotografi, con gli scatti a mitraglia. A Milano recentemente si è vista la pubblicità di un noto brand digitale: «Non pensare, scatta». Io, quando vado nelle scuole di fotografia, dico ai ragazzi: prima pensa e poi, casomai, scatta.

Berengo Gardin

Il digitale quindi sta rovinando la fotografia?
Non sono contrario al digitale, si tratta solo di cambiare la mentalità di chi scatta. Certo, crea alcuni problemi. Tecnicamente, mi sembra troppo secco, sembrano scatti fatti sul banco ottico. E guardare gli scatti sul display ti fa perdere il momento giusto per scattare. Di sicuro, poi, abolirei per legge Photoshop: se non dichiari una manipolazione diventa truffa legalizzata. La gente crede ancora oggi che la fotografia sia obiettiva, e dunque modificare senza avvisare diventa un inganno. In questo senso, non sono d’accordo con chi dice che una fotografia vale più di mille parole: è una menzogna. Una fotografia ha bisogno di cinque parole per definirla, è importante specificare qual è il tema, quando è stata scattata. La fotografia è ambigua, ed è molto più ambiguo chi la guarda.

Rimane qualcosa che valga la pena di raccontare?
Possiamo posare lo sguardo sui cambiamenti della nostra società. Viviamo in mezzo al gossip, a giornali pieni di brutte fotografie. La giornalaia qui di fronte è mia amica, e mi dice che appena vede un cliente da lontano capisce se comprerà un giornale serio o uno di quei giornalacci. L’ignoranza dilaga, e un buon fotografo può arginarla raccontando la vita delle persone, la vita reale. In questi giorni sto facendo un reportage su una signora del popolo, una donna molto intelligente che ogni giorno cammina lungo i Navigli e la Darsena. La seguo e indago il suo rapporto con questo luogo; è una signora di origini modeste che ragiona in modo straordinario, si veste in modo elegante, passeggia con un bel cappello come si faceva cinquant’anni fa. Nel suo modo di guardare, c’è tutto un mondo da capire.

E il suo mondo com’è, oggi?
A 89 anni posso dire di essere un mezzo pensionato. Faccio pochi lavori, penso soprattutto al mio archivio insieme a mia figlia. Leggo molti romanzi gialli, e rileggo i miei amati Simenon e Steinbeck, Furore su tutti. Leggo soprattutto alla casa al mare, quando mi ritrovo anche con alcuni amici storici con i quali parliamo della nostra passione per la pipa e i vari tipi di tabacco, un vizio che mi è rimasto. Qualcuno ha scritto che «quando si diventa vecchi, il difficile è restare bambini». Io, forse, ci sono riuscito grazie a una pipa. E alla mia Leica.

Berengo Gardin
Berengo Gardin

Le fotografie sono di Ismaele Bulla (www.ismaelebulla.com)
Un ringraziamento speciale a Costanza Zanardini.